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Offensiva neocoloniale di Tokyo

(ASI) A Gibuti, piccola repubblica del corno d’Africa, sorgerà la prima base militare, per l’esattezza navale, giapponese al di fuori dei confini nazionali di Tokio. Questa del costo di circa 40 milioni di dollari sarà pronta entro la fine dell’anno.

 

A spingere il governo nipponico verso questa decisione, che non ha precedenti nella storia del Paese, la necessità di contrastare la sempre più la nuova pirateria internazionale; proprio a questo scopo quindi questa installazione militare sarà posta all’imbocco del Golfo d’Aden, una delle rotte marittime più trafficate del mondo con un transito annuo di circa 20.000 navi.

Parlando di questa iniziativa Keizo Kitagawa, capitano alla guida della Maritime Self-Defense Force, ovvero la flotta giapponese che prende parte alla missione internazionale anti-pirateria, operativa dal 2008 e cui partecipa anche la Nato, ha spiegato: “Siamo presenti per contrastare la pirateria e per ragioni di auto-difesa”.

Per il minuscolo stato africano le servitù militari non sono una novità visto che nel Paese si trova già una base statunitense, dove attualmente è ospitata la flotta giapponese, ed una francese, retaggio del passato coloniale dei transalpini.

Le navi nipponiche, particolarmente attive in quel tratto di Oceano, sono spesso state oggetto delle “attenzioni” dei nuovi pirati, giusto per citare due esempi basta ricordare che nel 2007 la Golden Mori, con un carico di materiale chimico, fu sequestrata e rilasciata dopo sei settimane dietro versamento di un riscatto; nel 2008 la petroliera Takayama subì un assalto e venne tratta in salvo da una nave da guerra tedesca.

Dietro la volontà di difendere la propria flotta commerciale ci sono altri interessi che hanno spinto Tokyo a erigere una propria base navale in terra straniera. Il governo spera di riuscire in questo modo a rilanciare la politica interna di legittimazione delle forze armate visto che nelle nuove linee guida elencate nel programma di difesa nazionale si parla esplicitamente di “sforzi per migliorare la sicurezza globale”, andando però a scontrarsi con la Costituzione che vieta formalmente di ricreare un vero e proprio esercito.

Alla luce della crisi politica ed economica che sta investendo gli Usa ed alla crescita esponenziale dell’antico nemico cinese inoltre appare come la precisa volontà di sviluppare una propria ed autonoma politica internazionale per tornare a contare sullo scacchiere mondiale, non va dimenticato che nel 2010 l’allora primo ministro Hatoyama è stato costretto a dimettersi per non aver mantenuto la promessa di chiudere la base militare statunitense di Okinawa.

Lo sbarco a Gibuti inoltre appare come un preciso tentativo di iniziare un proficua penetrazione economica nel continente africano, con cui attualmente l’interscambio commerciale è molto debole, specie se confrontato con i numeri realizzati da Pechino. Proprio in quest’ottica sembra inserirsi la scelta di Gibuti, paese membro del Comesa (common market for eastern and southern Africa), un’area di libero scambio che comprende 19 diversi stati africani ed un mercato potenziale di oltre 400 milioni di abitanti.

Per il momento quindi la rinascita coloniale del Giappone sembra troppo debole, specie se si pensa che in passato il Celeste impero si estendeva dalla Corea all’Indonesia passando per la Birmania e le Filippine ma qualcosa sembra destinato a muoversi a breve, sopratutto in attesa delle contromosse dei vicini cinesi e coreani.

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