(ASI) Nei primi giorni del gennaio 2003, George W Bush sbottò pubblicamente contro il superfalco Donald Rumsfeld, che doveva essere lui, il Presidente, e non l'allora capo del Pentagono a decidere di trasferire le truppe americane nel Qatar per scatenare la guerra finale a Saddam Hussein. Quella protesta non servì a nulla. Rumsfeld sapeva di avere in pugno il Capo della Casa Bianca, grazie al vice presidente Cheney e alla banda dei neocons guerrafondai che avevano fin dal 2001, subito dopo l'attentato dell'11 settembre, affondato il coltello delle loro richieste sul debole rampollo della dinastia Bush. Poche settimane dopo quella protesta, infatti, la grande menzogna delle armi di distruzione di Saddam verrà condivisa anche da Colin Powell, e il 20 marzo del 2003 ecco l'invasione angloamericana dell'Iraq, una guerra devastante sotto ogni punto di vista. Anche per gli Stati Uniti.
Qualcosa del genere sta accadendo oggi con Trump: "loro vanno avanti" ha detto dei militari il presidente dopo il lancio della superbomba in Afghanistan. Le agenzie ricordano che a dare l'autorizzazione alla prima MOAB americana, sganciata su una presunta base dell'isis, è stato il generale John Nicholson. Questo vuol dire che le sparate di Trump stanno aprendo un vaso di pandora ancora piu' pericoloso delle sue personali sortite: i militari potranno agire da soli, sicuri del plauso del loro Comandante in capo. E le scintille potranno moltiplicarsi fino a una tragedia di vaste proporzione. La crisi coreana, amplificata dalle grandi reti mediatiche che danno per certa o molto probabile la guerra, sta diventando un incubo.
Il voltafaccia di Trump: c' è un precedente, la presidenza Bush jr. dopo l' 11 settembre
Il confronto tra Trump e Bush junior non si ferma certo agli episodi del gennaio 2003 e della MOAB di tre giorni fa. Fuor degli ideologismi che vogliono i presidenti repubblicani post guerra fredda tutti eguali - Reagan, Bush padre e Bush figlio - occorre ricordare che Bush padre aveva cercato invano di convincere Shamir a partecipare a una conferenza generale sul Medio Oriente (Territori palestinesi e Kuwait, due ritiri necessari) prima che il Congresso americano desse il via all'attacco contro Bagdad del 17 gennaio 1991; e che anche suo figlio George W, nei primi sette mesi di presidenza, aveva dato diversi segnali distensivi proprio in Medio Oriente.
Il segretario di Stato Colin Powell si era dichiarato a favore di una riduzione delle sanzioni all'Iraq, che da dieci anni stavano devastando l'economia del paese; a Durban, tra la fine di agosto e l'inizio di settembre, nella conferenza mondiale sul razzismo, gli USA avevano lasciato Israele solo di fronte agli attacchi contro la sua politica antipalestinese e anti-islamica; e proprio l'11 settembre, ancora Colin Powell si sarebbe dovuto recare al palazzo di Vetro a annunciare davanti all'Assemblea generale delle Nazioni Unite lo storico sì di Washington allo Stato palestinese. Un microstato senza alcun potere militare reale, ma visto come il fumo agli occhi da Sharon.
Il fumo delle Torri gemelle venne in aiuto di un Israele in crisi come mai prima di allora. Inutile ripetere tutti gli indizi e tutte le esternazioni che indicarono non solo nella Cia, ma anche nel Mossad, i mandanti veri - così disse Cossiga al Corriere della sera - di un attentato che avrebbe cambiato in peggio la storia del mondo. Quel che qui interessa sottolineare è che Bush junior (e con lui Colin Powell) venne travolto a poco a poco da una micidiale campagna mediatica e diplomatica: il 20 settembre 2001 i neocons scrissero una lettera-programma a Bush indicando i 7 paesi da distruggere per "salvare" la libertà dell'Occidente: Iraq, Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan, Iran. Poi ci fu il tentativo di Bush di far incontrare Peres e Arafat, come già previsto prima dell'11 settembre. Che però fallì, nonostante l'assenso (apparente?) di Shimon Peres: "We control America, and americans know it", avrebbe risposto Sharon al suo ministro degli esteri. Amen.
LA VELENOSA CAMPAGNA DI STAMPA CONTRO L'IMBELLE G.W. BUSH
Intanto, sempre in quello scorcio di fine 2001, tra le minacce del velenoso antrace e l'assurda accusa al laico Saddam Hussein di essere il complice di Bin Laden, la campagna mediatica contro le titubanze di Bush fu durissima: Bush l imbelle, Bush che non reagisce al terrorismo islamico, Bush il codardo, Bush che si comporta come le potenze europee a Monaco 1938, cedevoli di fronte a Hitler. Da questo martellante pressing mediatico, nacque la prima guerra di Bush jr, contro l Afghanistan. Obbiettivo dichiarato la cattura di Bin Laden. Non era vero, Bin Laden fu ucciso anni dieci anni dopo, ma la guerra sarebbe continuata ancora, ed è arrivata fino ai nostri giorni, rilanciata il 13 aprile scorso dal frastuono stragista della mega bomba non nucleare.
Il paragone con Trump è dunque questo. La sua storia assomiglia, con qualche differenza, a quella del debole Bush. L'amministrazione del successore di Clinton era stata infiltrata dai superfalchi Cheney e Rumsfeld prima ancora che la Corte suprema emettesse a metà dicembre 2000. il verdetto con il calcolo dei voti a favore del candidato repubblicano, possibile do ut des si era dovuto piegare il vincitore delle presidenziali del 2000. La squadra di Trump, invece, ha subito gli attacchi dopo il voto del 4 novembre, prima Pence al posto di Chris Christian finito sotto processo per il Bridgegate, poi il filorusso Flynn dimesso per le accuse di essere un uomo al servizio di Putin, e arriva al suo posto il generale Mac Master, che le cronache dicono sia l'inventore stratega del bombardamento contro la Siria; poi il fidato Steve Bennon che se ne va ...
LA POTENZA GEOMETRICA DEI GRANDI MEDIA AMERICANI
I tempi sono diversi, ma gli strumenti e le tecniche dell'assalto alla diligenza repubblicana sono gli stessi: gli strumenti sono i grandi media americani che già avevano sostenuto la Clinton durante la campagna elettorale, rimasti frustrati dall'inattesa vittoria di Trump. Lui vincitore con poche parole di pace, fondate su una convergenza strategica con la Russia di Putin e dunque con il suo alleato siriano. Unica eccezione le solite parole di guerra all'Iran, e la solita solfa di tutti i candidati americani alla Casa Bianca, che l'ambasciata americana si sarebbe dovuta spostare a Gerusalemme. Per il resto una politica di pace perché corrispondente ai veri interessi nazionali americani.
Lei, la Clinton, una avversaria mediaticamente ben protetta, cinica, pronta alla guerra contro la Russia, contro Assad, contro tutti i nemici di Israele, cosi come aveva fatto - in contrasto col defilato Obama - durante la guerra di Libia; una carriera di aspirante presidente, quella della Hillary, iniziata con una allusione minacciosa alla morte di Kennedy contro lo stesso Obama durante le primarie del 2008, segnata poi dall'accusa di aver fatto assassinare un diplomatico USA troppo non allineato alle sue pulsioni belliciste, a Bengasi nel 2012, e terminata appunto con la débacle delle presidenziali del 4 novembre. E stato comunque un bene che la Clinton abbia perso le elezioni.
Ma il vincitore Trump non ha poi saputo fare i conti e resistere alla risacca portentosa della macchina di potere umiliata dalla sua vittoria. Le tecniche possono essere state e possono essere diverse, dalla minaccia di impeachment per tradimento che penderebbe sulla testa del Capo della Casa bianca, a vicende anche personali: strana quella battuta di Trump sui bellissimi bambini che sarebbero stati uccisi dai siriani nel bombardamento presunto chimico, come se i bambini “brutti” contassero di meno. Una disinvolta giornalista aveva tirato fuori la storia spiacevole di un bellissimo figlio del neopresidente, affetto da autismo (ma sembra che non sia vero), pochi giorni dopo il 20 gennaio ...
I FATTI CERTI: TRUMP VIOLA IL DIRITTO INETRNAZIONALE, NON DA PROVE DEL BOMBARDAMENTO SIRIANO PRESUNTO “CHIMICO”, ED E ALLE PRESE CON UN GOLPE STRISCIANTE GESTITO DAI SUPERFALCHI REPUBBLICANI, MCCAIN E PENCE
Ma queste sono ipotesi, tre sole cose sono certe; la prima che è che Donald Trump non ha ancora fornito alcuna prova del bombardamento chimico siriano, e il suo silenzio assomiglia alla grande menzogna delle armi di distruzione di massa irachene del 2003; la seconda è che comunque egli ha violato il diritto internazionale in modo plateale in Siria (e lo sta violando con le minacce alla Corea) riesumando quel micidiale diritto di ingerenza negli affari interni di uno stato sovrano, che si poteva sperare essere giunto al suo terminale dopo l'intervento russo a fianco di Assad dell'ottobre 2015. La terza è che esattamente come Obama con i suoi democratici, Trump deve fare i conti con i nemici interni al Partito Repubblicano. Nessuno capirà nulla dell'attuale pericolosissima crisi negli Stati Uniti, e della storia della superpotenza americana almeno dalla fine della guerra fredda ad oggi, se non divide l'uno in due: Obama alle prese con Lieberman e la Clinton, Trump con l'80enne McCain e con Pence, entrambi attivissimi in queste ultime settimane, anzi in queste ultime ore. Sono loro che hanno preso il posto di Trump, che segue i due suoi subalterni come un presidente-fantasma. E' in atto un golpe strisciante dei falchi bellicisti, forti di agganci “diretti” con una parte delle alte sfere militari: esattamente come nel gennaio 2003, Bush jr., vittima (consenziente e dunque colpevole) di Rumsfeld. Ora tocca a Trump, anche lui colpevole di voltafaccia e debolezza inaccettabile per un Capo di Stato eletto dal Popolo
Non si vede, questa volta sì, una via d'uscita. A parte l'encomiabile rigore e impegno di Putin per la pace e il rispetto del diritto internazionale, a parte un possibile marcia indietro dello stesso Trump, negli Stati Uniti resta forse solo una possibilità: che Obama, probabilmente il vero vincitore delle presidenziali del novembre 2016 – è stato lui, e Bernie Sanders, a sconfiggere la Clinton, favorendo con una crisi interna ai Democratici la vittoria di Trump? – intervenga in qualche modo nella crisi in atto. Nel gennaio scorso Obama aveva incontrato i vertici militari chiedendo di favorire una normale transizione dalla sua alla Presidenza Trump. Il 20 gennaio Trump lo aveva ringraziato nel suo discorso inaugurale. La ferza di Obama è probabilmente dovuta anche a un suo buon rapporto con una parte del lobbismo pro-israeliano. Una sua sortita potrebbe scongiurare il peggio. Ma i tempi della crisi sono diventati strettissimi.
Prof. Claudio Moffa