(ASI) Gli elettori degli USA hanno democraticamente eletto Trump come 45° loro presidente. Questo è un dato indiscutibile. Ora in simili circostanze, è prassi (consolidata nei secoli) che i rappresentanti diplomatici e politici dei singoli governi nazionali prendano atto di un esito elettorale, indipendentemente dalla figura del suo protagonista. 

Si può essere certi che messaggi augurali ed espressioni di apprezzamento da tutte le cancellerie europee non si sarebbero fatte attendere, in caso di vittoria di Hillary Clinton, la candidata sostenuta dalla quasi totalità dei mezzi d'informazione internazionali (soprattutto quotidiani e reti televisive in mano a Bloomberg, Rockfeller, De Benedetti, etc.). Questo generale riconoscimento UE finora non c'è stato per Donald Trump, che pure è espressione di un'ampia maggioranza e di una chiara volontà popolare. Per non parlare dei grandi elettori: 290 per Trump contro i 228 per Clinton; 20 ancora non assegnati. Tra i Paesi, che correttamente hanno osservato le consuete procedure diplomatiche, sono da citare: Australia, Canada, Cina, Giappone, Gran Bretagna, Russia, Venezuela. Persino Israele ha fatto "buon viso a cattivo gioco", e Netanyahu si è congratulato con il nuovo presidente degli USA (“Donald Trump è un amico sincero dello Stato di Israele"). Questo, nonostante che il programma pacificatore di Trump per la Siria (“In Siria la massima priorità è combattere l’ISIS, non Assad”) non sia esattamente in sintonia con gli interessi e i progetti espansionistici israeliani nella regione. Ciò che generalmente lascia perplessità è l'atteggiamento improprio tenuto dalla diplomazia UE (senza Gran Bretagna beninteso). Da Berlino arrivano un riconoscimento e un’offerta di collaborazione: imbarazzanti per Angela Merkel, dopo le incaute esternazioni del ministro della Difesa, Ursula von der Leyen (“L’elezione di Trump è un forte choc”), e le parole di sfida di Schulz (“Sicuramente le relazioni transatlantiche diventeranno più difficili”).
Diffidenza, se non aperta ostilità, è quella con cui François Hollande (il presidente forse più impopolare della storia di Francia,insieme a Sarkozy),ha accolto la notizia del trionfo elettorale di Donald Trump. Anche se in un successivo colloquio telefonico si è limitato a cercare dal nuovo inquilino della Casa Bianca chiarimenti su questioni come la guerra al terrorismo, la crisi ucraina, l’accordo sul nucleare iraniano etc.
Il presidente (non eletto democraticamente) della Commissione europea è particolarmente polemico con Donald Trump. Jean-Claude Juncker durante una conferenza in Lussemburgo, il suo Paese natale, l’ha accusato di essere impreparato e inadeguato (“Penso che rischiamo di perdere due anni nell’attesa che Donald Trump finisca di compiere il giro del mondo, che non conosce”) e di nutrire pregiudizi verso l’UE (“Occorrerà che gli spieghiamo in cosa consiste l’Europa e come funziona”), che rischiano di “far deragliare” i rapporti bilaterali. Richiamandosi poi a principi etici – di cui è portatore senza dubbio il Lussemburgo, rifugio di 'migranti speciali' (alcuni malignano che si tratti soprattutto dei grandi evasori fiscali), Juncker ha stigmatizzato la posizione del neo presidente USA sul fenomeno dell’immigrazione clandestina: “Sui migranti e gli Statunitensi non-bianchi Trump ha un atteggiamento che non rispecchia i valori europei”. Sarà difficile per l’Amministrazione-Trump dimenticare una simile irritualità, al limite dell’improntitudine; ma, forse, quello di Juncker è solo il canto del cigno, visto che sembra destinato a sparirà dalla scena politica, travolto dalla stessa valanga elettorale che in Germania seppellirà Angela Merkel.
Ma nella graduatoria delle improvvide dichiarazioni e gaffe sull’esito delle elezioni presidenziali USA, per le quali finora si è distinta soprattutto la nomenklatura UE, un posto d’onore spetta senza dubbio ai politici italiani e, per l’esattezza, al ministro degli Esteri, conte Paolo Gentiloni. «Assolutamente non mi aspettavo la vittoria di Trump. Avrei preferito un altro esito ...». Non è esattamente l’approccio politically correct , che ci si attenderebbe,né un modo di congratularsi con il neo-presidente di uno Stato, gli USA, di cui l’Italia si è sempre dimostrata una fin troppo fedele esecutrice di ordini. Ma, si sa, l’ 'amore' di Gentiloni è ancora tutto per Hillary, anche se l’ingrata l’ha snobbato, respingendo le sue proposte di un rendez-vous, fino ai giorni immediatamente prima dell’election day. Altra perla del sullodato, quasi espressione di orgoglio e, oseremmo dire, eroismo degni di un antico Romano: «Noi siamo alleati degli Usa, ma alleati non vuol dire allineati. Abbiamo le nostre posizioni che, ricordiamolo, si ispirano ai nostri interessi nazionali».
Ma a qualcuno nel Governo italiano tanto ”interventismo” non deve essere stato eccessivamente gradito. E allora... ecco un nuovo colpo di scena del ministro (Bruxelles, 14 novembre): "Non credo che possiamo sbilanciarci al momento su quali saranno le posizioni della nuova Amministrazione USA. Vedremo se corrisponderanno alle dichiarazioni elettorali (di Donald Trump). Quello che è certo è che l'Italia è pronta a collaborare" con Washington dopo l'insediamento del nuovo presidente, "e certamente lo è anche l'Ue". E per tranquillizzare gli interlocutori: "L'Europa non deve preoccuparsi di Donald Trump: è il presidente degli Stati Uniti, il nostro principale alleato, con cui l'Ue e u suoi Stati membri dovranno senz'altro collaborare". Prodigi del trasformismo made in Italy? Oppure il venir meno di un pregiudizio generato da poco chari motivi? Normalmente i governanti si giudicano dal loro operato.

 

 

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