(ASI) E' andata. Nonostante le recriminazioni postume degli sconfitti e il panico di gran parte del sistema politico europeo, con una notevole grancassa mediatica al seguito, il referendum nel Regno Unito ha sancito la decisione di uscire dall'Unione Europea da parte della maggioranza dei popoli che lo compongono.
Con un'affluenza complessiva del 72,2%, il 51,89% dei votanti si è espresso per la fuoriuscita (Leave) del Paese dal mercato unico europeo, mentre il 48,11% per la permanenza (Remain). Affluenze un po' più basse si sono registrate nei contesti specifici della Scozia (Remain al 62%), dell'Irlanda del Nord (Remain al 56%) e del territorio d'oltremare di Gibilterra (Remain addirittura al 95,9%), dove evidentemente si sono in gran parte recati alle urne i sostenitori del Remain, fortemente orientati dalla propaganda pro-UE dei due rispettivi maggiori partiti indipendentisti (SNP in Scozia e Sinn Fein in Irlanda del Nord) e dei laburisti gibilterrini (GSLP), mentre tra i contrari o i dubbiosi ha presumibilmente prevalso l'indecisione.
In generale, nell'intero Regno, ben 11 dei 15 partiti rappresentati nei rispettivi parlamenti locali si erano schierati a favore della permanenza nell'Unione Europea, mentre soltanto 3 in favore dell'uscita, vale a dire lo UKIP di Nigel Farage e i nordirlandesi unionisti DUP e TUV. A questi si era aggiunto, all'interno del partito conservatore al governo, il fronte anti-UE guidato dall'ex sindaco di Londra Boris Johnson, antagonista del primo ministro David Cameron, prossimo alle dimissioni, unanimemente ritenuto il vero sconfitto da questo voto.
Qualche chiave di lettura
Volendo riassumere brevemente i dati per cercare di darne una lettura geografica e sociale, potremmo abbozzare tre conclusioni principali:
1. Si conferma la specificità di Londra - dove il Remain ha vinto col 60% - come centro finanziario ed immobiliare di livello globale, rispetto al resto dell'Inghilterra, in particolare alle Midlands e al Nord, dove il Leave ha vinto nettamente raggiungendo picchi superiori al 60% come a Copeland, Wyre, Carlisle, Scarborough, East Yorkshire e South Yorkshire, o addirittura superiori al 70% come a Boston, East Lindsey, Fenland e South Holland: realtà storiche dello sviluppo manifatturiero dell'Impero tra la seconda metà del XVIII e la prima metà del XX secolo, che risentono da anni di un'irrisolta crisi dell'industria e della pesca e di una disoccupazione mediamente più alta rispetto all'Inghilterra meridionale ed in particolare all'area metropolitana della capitale;
2. La discrepanza generazionale tra le due opposte visioni del Leave e del Remain esiste soltanto se si prendono in considerazione le tendenze espresse, al di fuori dei "volumi" dei rispettivi campioni anagrafici. Negli ultimi due giorni, sono emersi dati che smontano la versione iniziale di molti mass-media europei secondo cui il voto prevalentemente pro-Leave degli over-50 avrebbe "schiacciato" la volontà prevalentemente pro-Remain degli under-30. Degli aventi diritto appartenenti alla fascia d'età compresa tra i 18 e i 24 anni, infatti, ha votato soltanto il 36%. La percentuale di affluenza sale all'aumentare della fascia anagrafica di appartenenza. Secondo le statistiche diffuse da Sky Data, nella fascia compresa tra i 25 e i 34 anni ha votato il 58% degli aventi diritto, tra i 35 e i 44 il 72%, tra i 45 e i 54 il 75%, tra i 55 e i 64 l'81%, dai 65 in su l'83%. Tra i giovani ha dunque prevalso l'indifferenza verso una questione che, malgrado la retorica sulla cosiddetta "Generazione Erasmus", non ha evidentemente fatto breccia nei loro cuori e nelle loro menti o sulla quale non avevano adeguati strumenti politico-culturali per esprimersi con certezza.
3. In Scozia e in Irlanda del Nord, dietro al voto pro-UE si è malcelatamente aggiunto un voto anti-britannico in modo da ottenere, tatticamente, una base giuridica e politica a cui appellarsi in caso di Brexit, sfruttando l'appoggio di Bruxelles per guadagnare l'agognata indipendenza da Londra: tentativo, tuttavia, fallito in Scozia in occasione del referendum specifico sul tema svolto nel settembre 2014, quando gli unionisti vinsero col 55,3% sugli indipendentisti. La secessione, poi, già di per sé difficilmente deducibile da un referendum riguardante una diversa materia, non potrebbe comunque avvenire senza il consenso della Corona che, ufficialmente, mantiene la propria sovranità sulla Gran Bretagna, Scozia inclusa, sul Regno Unito, che a sua volta comprende (anche) Irlanda Nord e Gibilterra, e sui 16 Reami del Commonwealth, tra cui spiccano Canada, Australia e Nuova Zelanda. Qualsiasi atto unilaterale di separazione da parte di Edimburgo o di Belfast sarebbe considerato un attentato ed una dichiarazione di guerra al sovrano.
Emerge, così, un quadro che smonta gran parte delle prime interpretazioni date da molti opinionisti in merito al voto nel Regno Unito, alcune delle quali, richiamando l'iniziale ed erroneo incasellamento generazionale delle due diverse opinioni, hanno sentito addirittura il bisogno di appellarsi alla limitazione del suffragio, vincolandone l'accessibilità a non meglio specificati attestati di appartenenza sociale, competenza e preparazione. E' questo forse il dato di maggior gravità di fronte ad un dibattito che, ancora una volta, ha per lo più anteposto la contingenza al lungo periodo, l'emergenza all'investimento nel futuro.
Integrare, non disintegrare
Se c'è una lezione da trarre da referendum che, come questo, hanno superato di gran lunga il 50%+1 di affluenza, è proprio quella relativa al tipo di democrazia che si è voluto costruire in Europa nel corso degli ultimi venticinque anni. Dopo il crollo del Muro di Berlino, il progetto di integrazione economica europea ha ricevuto una fortissima sterzata centripeta che ha incrementato ed accentrato poteri sempre più decisivi sull'asse Germania-Francia-Benelux a scapito dell'arco mediterraneo, dalla Spagna ai Balcani. Nel mezzo di questa grande ed importante area geopolitica, c'è la nostra Italia che, se alla fine degli anni Ottanta era la quinta economia al mondo, oggi fa grandissima fatica per restare tra le prime dieci.
L'improvvisa uscita dal Sistema Monetario Europeo che, col suo paniere ECU, ci permetteva di regolare la lira con una certa flessibilità, la speculazione che ne seguì, l'accettazione incondizionata delle imposizioni per il rientro nei parametri di Maastricht, con la lira svalutata del 600%, in un rapporto di 990 a 1 rispetto al marco: questi ed altri, col senno di poi, potrebbero essere additati come i principali errori "tecnici" commessi dai nostri governi nella fase di costruzione dell'integrazione monetaria, penultimo step dell'integrazione completa del mercato comune europeo. Tuttavia, ciò che è finora mancato alla base del processo di unificazione economica del Vecchio Continente è un'idea sociale, cioè una visione di sviluppo concreta su cui imbastire l'Unione Europea.
Al di là degli slogan sulle varie "Europe dei popoli" acclamate in questi anni dai tanti leader euroscettici di destra o di sinistra, latita un modello di democrazia sociale dove, oltre le fisiologiche differenze economiche, demografiche e culturali tra i diversi Paesi membri, prevalga l'intento complessivo di costruire una comunità in grado di connettere efficacemente, a vari livelli e su varie materie di competenza, i governi, le imprese, i sindacati, le forze armate e di polizia e i centri di ricerca e innovazione. Questo è avvenuto non tanto per gli ormai famigerati e generici egoismi nazionali quanto piuttosto per la "geometria variabile" pensata nel 1994 da Karl Lamers e Wolfgang Schäuble, rispettivamente attuale vicepresidente della Commissione Difesa del Bundestag ed attuale ministro tedesco delle Finanze.
Nella fase successiva al 1989, il regionalismo ha ricevuto una spinta verso l'alto in tutte le aree del mondo. Il superamento delle contrapposizioni della Guerra Fredda, l'internazionalizzazione dei mercati e la digitalizzazione dei sistemi di comunicazione ed informazione, hanno fatto sì che sempre più Paesi tra loro vicini ricorressero a progetti di integrazione economica. E' avvenuto nel Sud-est asiatico con l'ASEAN - rafforzatasi in modo decisivo negli ultimi venti anni anni tanto da superare con successo la drammatica crisi finanziaria del 1997 - che ha recentemente dato vita ad una sua comunità economica (AEC), la più avanzata e strutturata al mondo dopo l'Unione Europea. E' avvenuto all'inizio degli anni Novanta in America Latina col Mercosur che, sebbene con qualche problema di stabilità politica nei diversi Paesi membri, tutt'ora unisce Brasile, Argentina, Venezuela, Paraguay e Uruguay, ovvero circa l'80% dell'intero PIL sudamericano. E' avvenuto nell'area post-sovietica, dove Russia, Bielorussia, Kazakhstan, Armenia e Kirghizistan aderiscono all'Unione Economica Eurasiatica, un'unione doganale in procinto di incrementare il suo livello di integrazione.
In sostanza, l'egemonia mondiale europea, scomparsa definitivamente dopo la Seconda Guerra Mondiale, e l'egemonia bipolare USA-URSS, i cui residui storici continuano a condizionare parte dello scacchiere internazionale, sono modelli consegnati definitivamente al passato. Per presentarsi pronti e preparati nel XXI secolo sembra ormai impossibile ignorare il regionalismo che, proprio per la tendenza multipolare in atto nel mondo, concentrerà sempre maggiori quote di potere economico, finanziario e dunque politico in un discreto numero di poli regionali, senza che questo implichi la costruzione di super-stati, sovra-stati o confederazioni politiche prive di fondamenta e del tutto mitologiche, ma soltanto di spazi e mercati comuni dove le realtà più piccole possano giocare un ruolo attivo ed avvantaggiarsi della prossimità geografica, sociale e culturale rispetto a Paesi trainanti più forti. Tutto il contrario di quanto è successo, ad esempio, con la Grecia.
Di fronte ad un colpo epocale come il NO che i cittadini britannici hanno sbattuto in faccia a Bruxelles, non è pensabile che i principali leader europei si riuniscano a Berlino - su convocazione di un'Angela Merkel che non perde occasione per ribadire il germanocentrismo di questa Europa - semplicemente per velocizzare il completamento dell'integrazione monetaria e l'armonizzazione fiscale. Sarebbe come spingere un'automobile a 200 chilometri all'ora poco dopo aver subito un guasto al motore. Dopo qualche tratto di strada, l'auto andrebbe in panne. Quello che va rivisto è la struttura dell'intera Unione, tornando a ritroso alle origini dei problemi per capire da dove vengono e risolverli.
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia