Cina. I timori infondati per una crisi che non c'è

china economic 1 2(ASI) Da diversi mesi, gran parte dei media occidentali punta il proprio radar verso gli indici economici cinesi. E' sicuramente una scelta saggia, perché ormai il gigante asiatico è un fattore imprescindibile, assieme a Stati Uniti ed Unione Europea, e più della Russia, per cercare di individuare le tendenze di medio e lungo periodo della crescita globale. Tuttavia, la sintesi appare non di rado molto approssimativa.

Pesa sulle abitudini di molti osservatori quello che potremmo considerare un "feticismo" del tasso di crescita del PIL, cioè la spasmodica frenesia con cui si attende la pubblicazione di una percentuale che, al di là della sua indiscutibile importanza macroeconomica, nasconde o adombra una serie di parametri qualitativi e quantitativi, caratteristici di ogni singolo sistema-Paese. La ricostruzione generale della situazione in corso, poi, confonde sempre più di frequente cause ed effetti, con ripercussioni a catena sulla "filiera" dell'informazione.

Il fatto che entro quest'anno l'Unione Europea sia chiamata a votare in merito al riconoscimento dello status di economia di mercato alla Cina, infine, condiziona pesantemente lo scenario, dove vari gruppi industriali e movimenti politici, appoggiati indirettamente anche da Washington, stanno cercando e cercheranno in tutti i modi di convincere l'opinione pubblica che la potenza asiatica, per svariati motivi (commerciali, politici, salariali ecc. ...), non meriti questo riconoscimento, già accordato nel 2001, alla scadenza dei quindici anni di transizione stabiliti al momento dell'ingresso di Pechino nell'Organizzazione Mondiale del Commercio.

Borse volatili e manifattura in calo

Dall'anno scorso, la borsa cinese ha subito importanti perdite toccando dei picchi negativi soprattutto nell'ultima settimana di agosto 2015 e nell'ultima settimana di gennaio 2016. La bollente estate di Shanghai e Shenzhen aveva innescato l'allarme dei mercati internazionali, facendo temere l'imminente esplosione di una nuova grande bolla speculativa. In realtà, nei dodici mesi precedenti gli indici generali cinesi avevano aumentato il loro valore azionario del 150%, segno di una fiducia senz'altro positiva ma fin troppo ottimistica rispetto alle fisiologiche capacità di Pechino e delle sue più importanti controllate di evitare gli effetti della crisi.

Lo scorso luglio, Nader Naeimi, gestore di AMP Capital Ltd. da Sydney, citato da "La Stampa", aveva paragonato il mercato cinese «a un bambino che sta imparando a camminare», rassicurando sul fatto che «ci sarà sempre un genitore pronto a far rialzare il bambino dopo una caduta». Il genitore, almeno per ora, è lo Stato cinese che, attraverso la banca centrale (PBoC), aveva dapprima sospeso le quotazioni di circa la metà dei titoli presenti in borsa e poi iniettato a più riprese denaro liquido sui mercati per garantire stabilità e ripristinare i livelli di fiducia degli investitori. Il moderato ottimismo espresso dagli analisti per gli effetti di medio-lungo periodo delle misure adottate è stato grossomodo confermato, anche se la volatilità generale sui mercati internazionali, legata anche (ma non solo) al crollo del prezzo internazionale del petrolio e alla tesissima situazione mediorientale, condiziona ancora la ripresa.

Sul versante dell'economia reale, tra l'estate e l'autunno scorsi la Cina ha registrato un consistente calo della manifattura. Venerdì 21 agosto, la pubblicazione dei dati relativi all'indice PMI rivelò un calo da 47,8 a 47,1 punti su base mensile, evidenziando un trend negativo che aveva già portato nei mesi precedenti l'indice manifatturiero al di sotto della soglia - ritenuta decisiva - dei 50 punti. Alla ripresa degli scambi, lunedì 24 agosto, la borsa di Shanghai crollò lasciando sul campo l'8,5%.

Determinanti in tal senso, sia il potere che l'informazione specializzata è in grado di esercitare sui mercati influenzando, in modo non sempre corretto e realistico, milioni di investitori in tutto il mondo, sia il calo dell'import in Unione Europea che, con l'aumento progressivo del costo della manodopera cinese e l'applicazione delle sanzioni alla Russia, è ora alla ricerca di nuovi mercati di riferimento a condizioni più vantaggiose per la salvaguardia dei propri conti. Anche la reiterata svalutazione dello yuan operata ad agosto dalla Banca centrale cinese si inserisce in questo quadro, ma solo in parte. Se l'obiettivo nel breve termine era presumibilmente quello di rilanciare l'export verso mercati emergenti con maggiore domanda di beni intermedi per mantenere alto il surplus (circa 500 miliardi di dollari all'anno) nella bilancia commerciale, a pesare sulla valuta cinese è stata in buona parte la fase di avvio della liberalizzazione del tasso di cambio - fondamentale per l'ingresso nel novembre scorso dello yuan nel paniere dei diritti speciali di prelievo del FMI - in una congiuntura di ritrovata forza per il dollaro statunitense.

L'economia cinese è ancora la più forte

La grave crisi internazionale innescata negli Stati Uniti tra il 2007 e il 2008 non ha ancora abbandonato davvero la scena internazionale. Le drammatiche ripercussioni economiche di quell'esplosione finanziaria sono ancora attive ed il rallentamento (slowdown) globale cui stiamo assistendo da un paio d'anni a questa parte non è altro che la naturale evoluzione di quella grande recessione.

Tutti gli osservatori sono concordi nell'affermare che nel quadriennio 2009-2012, sono stati in particolare Cina, India e Brasile a guidare la crescita economica mondiale, prendendosi in carico responsabilità che fino a poco tempo prima erano spettate in via quasi esclusiva a Stati Uniti ed Europa. Nell'idea delle cancellerie occidentali, i benefici generati dai ritmi produttivi dei BRICS nei 7-8 anni precedenti avrebbero, dunque, dovuto estendersi maggiormente anche al resto del mondo in attesa di una ripresa generale che consentisse agli Stati Uniti e all'Unione Europea di recuperare il terreno perduto e di riacquisire la propria leadership globale. Chiaramente, attendersi dalle economie emergenti assunzioni di responsabilità così grandi, tra l'altro per interessi altrui, era quanto meno azzardato. Con le escalation, tra loro sempre più intrecciate, in Siria e in Ucraina, la situazione si è infatti arenata, andando a scatenare una nuova guerra politica e commerciale con la Russia, che ha innescato una serie di tensioni regionali tali da coinvolgere Paesi determinanti per gli equilibri politici ed economici internazionali come Turchia, Iran, Arabia Saudita, Yemen, Egitto e Libia, in un quadro mediorientale già pesantemente provato dall'instabilità politica, dalla riemersione del terrorismo religioso e dai traballanti andamenti del prezzo del petrolio.

Nonostante questa caotica situazione globale, il tasso di crescita del PIL cinese nel 2015 si è attestato al 6,9%, vicinissimo alla previsione del governo (7%). Tra le maggiori economie al mondo, quello cinese resta il dato più confortante, considerando che negli Stati Uniti la crescita annuale non è andata oltre il 3%, in Europa e in Giappone ha oscillato intorno all'1%, mentre la Russia e il Brasile hanno registrato tassi negativi dopo due anni di pesante contrazione. Soltanto l'India riesce a tenere il passo cinese, con un tasso che durante lo scorso anno si è aggirato attorno al 7%. Nel primo trimestre del 2015, in termini di ritmo di crescita, l'India aveva addirittura sorpassato la Cina e, secondo alcuni analisti, potrebbe superarla definitivamente nel corso del 2016. Tuttavia, in termini assoluti, il PIL indiano (circa 2.000 miliardi di dollari) equivale a meno di un quinto di quello cinese (oltre 10.000 miliardi di dollari), segno evidente che - a quasi parità di popolazione (1,4 miliardi la Cina, 1,2 miliardi l'India) - la Cina è nettamente più avanti nel percorso di modernizzazione e razionalizzazione del proprio sistema economico. Questo significa anche che Pechino dovrà affrontare adesso sfide che l'India, e qualsiasi altra economia emergente, si troveranno a dover affrontare tra 5 o 10 anni.

Il riorientamento industriale

La principale di queste sfide, sottolineata più volte dal presidente Xi Jinping, è la riforma del mercato interno, pensata non come extrema ratio di fronte ad un'imminente crisi recessiva ma come avanzamento e compimento di riforme locali, trasformazioni industriali, accensioni di servizi e adeguamenti salariali già avvenuti nel corso degli ultimi quindici anni. Da questo punto di vista, il reddito medio disponibile cinese nel 2015 è cresciuto del 7,4%, i depositi bancari dell’8,5% mentre l'inflazione è rimasta ferma all'1,4% sull'indice annuale dei prezzi al consumo. Quella che in Europa è stata a lungo definita - a volte in modo improprio - come la "fabbrica del mondo", si appresta così a definire una delle sue più importanti manovre politiche che avrà, come già accaduto più volte nella storia, ripercussioni importanti anche nel resto del mondo.

Questo processo dovrà portare la Cina ad ottimizzare la sua produzione, rendendola ancor più qualitativa ed appetibile per il consumo interno, e ad aumentare la sua capacità di offrire innovazione, alta tecnologia e servizi di alto livello anche all'estero, senza rinunciare ai grandi investimenti energetici ed infrastrutturali in patria e nel mondo ma, anzi, adeguandoli agli standard tecnologici più moderni e agli impegni assunti nel quadro della lotta ai cambiamenti climatici (da ultimo, durante la Conferenza di Parigi del dicembre scorso).

Nel 2015, il valore aggiunto dell'industria cinese ad alto contenuto tecnologico è cresciuto del 10,2% rispetto al 2014, il commercio al dettaglio on-line addirittura del 30%, la produzione di automobili elettriche è aumentata di 1,6 volte, quella dei robot industriali addirittura del 42%. In generale, l'industria hi-tech e i servizi (50,5% del PIL) hanno ricevuto una spinta fortissima nel corso degli ultimi cinque anni. Nel luglio scorso, l'International Supercomputing Conference di Francoforte ha decretato per il quinto semestre consecutivo dal 2013, il primato mondiale del supercomputer Tianhe-2, progettato dall'Università Nazionale della Tecnologia per la Difesa di Changsha, forte di una capacità di calcolo pari a 33,8 petaflops, cioè in grado di svolgere 33,8 milioni di miliardi di operazioni al secondo. Anche le start-up e la tutela della proprietà intellettuale hanno ormai acquisito un'importanza fondamentale, al punto che nel 2015 il numero delle imprese registrate in Cina è cresciuto in media di 12.000 unità al giorno.

Sul fronte dei grandi investimenti strategici, il 2015 è stato senz'altro l'anno dell'Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), la nuova banca a guida cinese per gli investimenti nel campo delle infrastrutture nella regione Asia-Pacifico, che raccoglie 57 Paesi membri, tra cui anche l'Italia, e che ha cominciato ad operare ufficialmente proprio all'inizio del 2016. A questo, va ad aggiungersi la definitiva consacrazione del piano One Belt, One Road, pensato dal governo cinese nel 2013 per ricostruire in chiave moderna la Via della Seta sia terrestre che marittima. Nel 2015, gli investimenti in Cina dei Paesi coinvolti nel progetto sono aumentati del 25,3%, mentre quelli cinesi in questi Paesi ammontavano a 14,82 miliardi di dollari, con una crescita relativa del 18,2%.

Per quanto riguarda gli interventi ambientali, invece, nel 2015 il consumo di energia per unità di PIL è diminuito del 5,6%. Nel quinquennio precedente, il risparmio energetico è stati pari a 6,7 miliardi di tonnellate di carbone, con una riduzione del 19,71% dei consumi, superando l’obiettivo del 16%, indicato dal XII Piano quinquennale. Durante il 2015, le emissioni da CO2, ammoniaca, diossido di zolfo e ossidi di azoto sono diminuite rispettivamente del 10,1%, del 9,8%, del 12,9% e dell’8,6%. A questo va aggiunto che tra il 2005 e il 2014, la Cina aveva già ridotto le emissioni di CO2 del 33,8%, aumentato sino all'11,2% del totale la quota di combustibili non-fossili utilizzati nel consumo energetico, accresciuto di 2,57 volte la capacità idroelettrica e di 90 volte quella eolica, rimboschito 21,6 milioni di ettari di territorio ed incrementato il volume delle risorse forestale di 2,188 miliardi di metri cubi.

Andrea Fais – Agenzia Stampa Italia

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