(ASI) Dopo tanta attesa, il momento è arrivato. Tra domenica e lunedì, tutti i leader dei 193 Stati membri hanno preso parte alle celebrazioni per il 70° anniversario della fondazione dell'ONU, ancora oggi la principale istituzione intergovernativa mondiale.
Al di là della retorica o delle visioni di parte, più o meno veritiere, è comunque innegabile che il consesso del Palazzo di Vetro costituisca un costante e prezioso tentativo di riaffermare in ogni situazione la priorità del dialogo rispetto alla forza, la necessità della concertazione e l'osservanza dei principi fondamentali della Carta, non di rado ignorati o addirittura violati nel corso della storia contemporanea. In particolare, questa Sessione Plenaria sarà ricordata per il confronto durissimo tra Vladimir Putin e Barack Obama, che ha chiuso la due giorni nel modo che molti si attendevano, ma anche e soprattutto per il discorso del presidente cinese Xi Jinping che, letto con attenzione, delinea istanze ed intenzioni epocali.
Il rilancio dell'eccezionalismo americano
Lo scontro russo-americano andato in scena a New York sull'urto di due posizioni chiaramente inconciliabili in merito alla crisi siriana ha catturato l'attenzione generale ed è oggi sulle prime pagine di tutti i principali quotidiani. Da un lato Obama ribadisce la riluttanza di Washington a schierarsi con Bashar al-Assad, definito ancora una volta "tiranno", mentre dall'altro Putin risponde che è un "errore" non cooperare con il presidente siriano, il solo, "assieme ai curdi", "a combattere le milizie dell'ISIS".
Dopo quattro anni di guerra, non ci sono più dubbi sul fatto che in Siria non esista alcuna terza forza capace di combattere l'estremismo islamista e al contempo realmente intenzionata a costruire un nuovo ordine politico laico e democratico nel Paese. L'ISIS non è l'unica formazione armata che oggi si oppone ad Assad, tuttavia è senz'altro la più numerosa e la più organizzata, senza contare che tra le altre fazioni in guerra contro Damasco se ne contano almeno quattro che, sebbene rivali dello pseudo-Califfato, conservano una matrice ideologica parimenti teocratica ed integralista.
La forma di potere instaurata in Siria dalla famiglia Assad, inoltre, non ha nulla di così profondamente diverso dai sistemi eretti e amministrati da altri leader arabi del passato, tra i quali anche alcuni che per lungo tempo furono apprezzati e legittimati all'estero, persino nei Paesi occidentali. Eppure, per la Casa Bianca, quella 'post-baathista' di Assad resta una dittatura ed il suo abbattimento una priorità.
Secondo Obama, se possono esistere "diverse espressioni di democrazia nel mondo", basate su contesti, caratteristiche e singolarità nazionali, ci sono però "verità universali evidenti di per sé" non negoziabili, come quelle espresse dagli Stati Uniti. La parola-chiave è "libertà" ed il presidente statunitense la dipinge con l'immagine delle "libere elezioni che permettono alle opposizioni di cercare consenso", dei "media liberi che possono informare su abusi e corruzione", della "società civile che cresce gioiosamente", degli "immigrati ben accolti" e delle "ragazze che possono andare a scuola e avere un lavoro". Tra le righe, appaiono palesi i riferimenti non solo alla Siria, ma anche alla Cina, alla Russia, all'Ungheria e, in generale, a tutti quei Paesi che Washington ritiene, in modo arbitrario ed unilaterale, 'non-liberi'.
La retorica di Obama non convince una parte consistente delle delegazioni presenti in sala, che si rifiutano di applaudire i passaggi più apprezzati dai partner e dagli alleati di Washington. Sono in particolare diverse nazioni africane e latino-americane ad aver smesso di credere, se mai lo hanno fatto, alla sincerità dei proclami verbali degli inquilini della Casa Bianca. Il rilancio dell'universalismo e dell'eccezionalismo americani si nutre sicuramente di passaggi più realisti, evidenziando come Obama abbia assorbito il consiglio di Zbigniew Brzezinski di abbandonare l'idealismo che aveva contrassegnato, in modi diversi, sia l'"artificiale ottimismo" dell'era Clinton sia la "catastrofica politica estera" dell'amministrazione Bush jr.
Gli Stati Uniti dunque ammettono di rappresentare un sistema democratico che "è imperfetto" e che "a volte può persino registrare delle disfunzioni", come sottolinea Obama. Tuttavia, questo non mette in discussione che la "democrazia inclusiva", fondata sulla "costante lotta per estendere i diritti al maggior numero di persone", abbia "permesso agli Stati Uniti di diventare la nazione più potente al mondo".
Le contraddizioni accorciano moltissimo la coperta del discorso di Obama. Il presidente evita di menzionare i recenti abusi di alcuni agenti di polizia ai danni delle comunità afro-americane, i 45 milioni di statunitensi poveri che vivono con i buoni-pasto, la lunghissima recinzione anti-immigrati eretta venti anni fa al confine col Messico o, sul piano internazionale, la stretta alleanza che lega Washington alle monarchie assolute dell'Arabia Saudita e del Qatar, dove i diritti umani e le rivendicazioni femminili sono fermi ad un livello di gran lunga inferiore rispetto all'Iran, al Libano o alla Siria. Barack Obama, nonostante l'evidenza del fallimento generato da quella missione militare, ribadisce poi la bontà dell'intervento in Libia che avrebbe "aiutato il popolo libico a porre fine al regno di un tiranno", mettendo in evidenza una cecità strategica assolutamente inaccettabile per un leader politico di caratura mondiale.
Vladimir Putin e l'altra Europa
Mentre Vladimir Putin prendeva la parola, la delegazione ucraina abbandonava la sala mostrando tutti i limiti di un confronto di fatto impossibile con chi non accetta che le popolazioni del Donbass e della Crimea non si riconoscano nella 'Grande Ucraina' a carattere etno-nazionalistico, pianificata dal governo di Kiev e dalle bande armate di L'viv e che esse abbiano anzi rivendicato il diritto all'autonomia, una scelta che - sostiene Putin - "dovrebbe essere rispettata". Ma soprattutto, il governo ucraino appare frustrato dal fatto di non ricevere alcun sostanziale appoggio dall'opinione pubblica dei popoli europei che, preoccupati dalla crisi economica e dalle migrazioni di massa, non hanno alcun interesse a sostenere l'ingresso nell'Unione Europea di un nuovo Stato, per di più indebolito da quasi due anni di guerra civile e pesantemente indebitato.
Putin, al contrario, stando a diversi sondaggi, sembra in grado di conquistare non solo il favore di molti cittadini dell'Europa occidentale, specie per il suo impegno contro l'ISIS, ma anche il consenso di alcuni leader dell'Europa centro-orientale che del suo discorso hanno senz'altro apprezzato l'autocritica e la condanna per l'eccesso di egemonismo praticato in passato, "quando l'Unione Sovietica esportava esperimenti sociali - ricorda Putin - forzando il cambiamento in altri Paesi per ragioni ideologiche". Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia, nazioni emblematicamente coinvolte dalla cruda realtà della Guerra Fredda, sono oggi i Paesi europei più critici verso le sanzioni commerciali stabilite da Bruxelles contro la Russia e la gestione europea dell'emergenza profughi, in merito alla quale lo stesso Putin è tanto chiaro quanto - anche in questo caso - sideralmente distante da Obama: "Vorrei sottolineare che i rifugiati hanno indubbiamente bisogno della nostra compassione e del nostro aiuto. Tuttavia, l'unico modo per risolvere questo problema al meglio è quello di restaurare il potere politico laddove è stato distrutto, di rafforzare le istituzioni governative dove ancora esistono o stanno per ristabilirsi, di fornire piena assistenza militare, economica e materiale ai Paesi in difficoltà e certamente alle persone che, nonostante tutte le sofferenze patite, non hanno abbandonato la loro terra natale".
La stoccata del presidente russo è impietosa e in prossimità della conclusione riserva il suo colpo più duro all'amministrazione americana, riproponendo un vecchio cavallo di battaglia del Cremlino che mantiene ancora una sua sostanziale validità. Secondo Putin, infatti, "alcuni partner sono ancora pervasi di una mentalità da blocchi tipica della Guerra Fredda e dall'ambizione di conquistare nuove aree geopolitiche". "Questi Paesi - arringa il leader russo - hanno proseguito una politica di espansione della NATO" in un modo ritenuto del tutto gratuito "dal momento che il Patto di Varsavia aveva cessato di esistere e l'Unione Sovietica si era dissolta". Putin esorta i partner occidentali a cooperare con Assad e a non sottovalutare nuovamente il pericolo del terrorismo, con un riferimento esplicito all'Iraq ed uno implicito all'Afghanistan degli anni Ottanta, dove era l'Armata Rossa ad essere impegnata in prima linea contro una minaccia ancora in stato embrionale, quasi del tutto ignota in Occidente.
Xi Jinping, una visione geopolitica per il XXI secolo
Durante la Guerra Fredda, la Cina era considerata quasi alla stregua di un 'terzo incomodo' tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Oggi la potenza asiatica è ancora alla finestra sullo sfondo di un serrato confronto tra Mosca e Washington, ma da un'angolazione e da un'altezza radicalmente diverse. Il sorriso accogliente di Xi Jinping reca con sé il messaggio della prima potenza commerciale del pianeta, della seconda economia mondiale e della terza potenza militare, di un Paese che, nonostante le recenti scosse telluriche finanziarie e un mercato interno in via di ristrutturazione, mantiene un'altissima voce in capitolo nel quadro delle dinamiche politiche ed economiche globali.
Come Putin, anche Xi ha condannato qualsiasi tentativo di tornare alla Guerra Fredda, ma quello del presidente cinese è un discorso che va persino oltre.
La coincidenza temporale ha voluto che la sua prima visita di Stato negli Stati Uniti e le celebrazioni per il 70° anniversario della fondazione dell'ONU venissero incasellate nell'agenda presidenziale tra la ricorrenza del 70° anniversario della vittoria nella Guerra di Resistenza contro l'Aggressione Giapponese (3 settembre) e quella del 66° anniversario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese (1° ottobre). Ed è proprio ricordando il "sacrificio di 35 milioni di cinesi" in quella perdurante invasione (1931-1945) che Xi dà il via alla sua relazione ufficiale.
"Un antico proverbio cinese - rammenta - recita che il più nobile ideale è quello di creare un mondo davvero condiviso da tutti". Anche per il leader cinese esistono valori comuni a tutta l'umanità quali "la pace, lo sviluppo, l'uguaglianza, la giustizia, la democrazia e la libertà", ma non è un solo Paese ad interpretarne al meglio il significato, imponendone agli altri talune presunte linee-guida universali. E' anzi il confronto e lo scambio tra le diverse forme di civiltà "a promuovere l'armonia, l'inclusività e il rispetto per le differenze".
Immancabile, tra le righe del discorso di Xi, il tradizionale richiamo ai Cinque Principi della Coesistenza Pacifica, fissati da Zhou Enlai durante la prima storica Conferenza di Bandung nel 1955: "Nella loro interazione, le civiltà devono accettare le reciproche differenze. Soltanto attraverso il rispetto paritario, l'apprendimento vicendevole e la coesistenza armoniosa il mondo può preservare la sua varietà e la sua ricchezza. Ogni forma di civiltà costituisce il contributo e la visione unica del suo popolo, e nessuna di queste è superiore alle altre".
Ad un primo confronto con l'analisi di Vladimir Putin, quella cinese è senza dubbio una riflessione dai toni più pacati e misurati. Tuttavia, una lettura meno epidermica mostra come nei contenuti la visione di Pechino sia ben più radicale e lungimirante. Ieri, Xi Jinping ha riassunto i punti salienti di una vera e propria dottrina internazionale, dove l'idea unipolare diffusasi in Occidente dopo il 1989 viene rigettata a tal punto da non essere nemmeno presa in considerazione.
I Paesi più grandi "dovrebbero seguire i principi di non-belligeranza, non-ostilità, rispetto reciproco e cooperazione dal mutuo vantaggio" e "dovrebbero trattare i Paesi più piccoli come propri eguali". Secondo il presidente cinese, la fase storica di globalizzazione economica ha determinato l'interconnessione della sicurezza tra tutti i Paesi, con un impatto reciproco. Su questa base, "nessun Paese - prosegue Xi - può preservare la sicurezza assoluta con il suo solo sforzo e nessun Paese può raggiungere una sua stabilità al prezzo dell'instabilità degli altri". Secondo Pechino, si tratterebbe di una "legge della giungla che lascia il più debole alla mercé del più forte".
I principi etici che guidano la concezione cinese delle relazioni internazionali si ripercuotono necessariamente sul suo sistema economico, un tema complesso, multiforme e ancora in gran parte incompreso dagli esperti occidentali, schematicamente abituati a pensare il socialismo e il mercato come due modi di produzione antitetici ed inconciliabili. Xi, invece, pare avere le idee chiare e chiama in causa il terremoto finanziario del 2008. Quell'evento "ci ha mostrato che consentire al capitale di perseguire ciecamente il profitto può solo provocare una crisi e che la prosperità globale non può essere costruita sulle fondamenta traballanti di un mercato privo di vincoli morali".
La strategia pensata da Xi Jinping è allora quella di ricorrere contemporaneamente ad una "mano invisibile" e ad una "mano visibile", in modo da creare una "sinergia tra le forze del mercato e l'intervento dei governi". L'obiettivo è quello di preservare la stabilità, accrescere il benessere, ridurre il divario tra ricchi e poveri e sradicare la povertà.
La sicurezza alimentare è dunque l'aspetto che, nell'anno di un Expo sul tema, fin troppo sottovalutato dagli italiani, torna al centro della cooperazione internazionale promossa dalla Cina. Xi ricorda come allo stato attuale nel mondo "circa 800 milioni di persone vivano ancora in condizioni di povertà estrema, quasi 6 milioni di bambini muoiano prima del quinto anno di età ogni anno e 60 milioni di bambini siano impossibilitati ad andare a scuola".
Non c'è spazio per la facile retorica. Xi Jinping infatti non perde tempo ed annuncia che la Repubblica Popolare ha appena creato un fondo decennale da 1 miliardo di dollari, in collaborazione con l'ONU, a disposizione dei dipartimenti preposti alla pacificazione e allo sviluppo dei Paesi più arretrati, a cominciare da quelli africani, e che ha deciso di devolvere all'Unione Africana 100 milioni di dollari destinati all'assistenza militare nei prossimi cinque anni allo scopo di prevenire le crisi, l'instabilità e le guerre civili.
Andrea Fais – Agenzia Stampa Italia