L’Organizzazione delle nazioni unite, è la diretta discendente della fallimentare esperienza della società delle nazione che visse la sua breve esistenza a cavallo delle due guerre mondiali e rappresenta il pilastro su cui poggiano tutte le altre organizzazioni sovranazionali oggi esistenti.
Per un qualsivoglia Paese oggi è impossibile non farne parte, all’interno del Palazzo di vetro hanno infatti accesso attualmente ben 192 Paesi e di conseguenza non esserci significa non essere riconosciuti dal resto del mondo. Pur volendo eliminare le differenze nel mondo al suo interno non tutti godono di eguali diritti, l’Italia, ad esempio, è solo uno dei tanti comprimari; per comprendere le ragioni di queste differenze tra presunti eguali bisogna tornare un po’ indietro con la memoria.
Il 14 agosto del 1941 il premier britannico, Wiston Churchill, ed il presidente degli Usa, Franklin Delano Roosvelt, firmarono la Carta atlantica che poneva le fondamenta dell’istituzione di un “sistema di sicurezza generale stabilito su più ampie basi”. Pochi mesi più tardi, il I gennaio 1942 quindi nel pieno del secondo conflitto mondiale, a Washington venne sottoscritta, dai 26 Stati in guerra contro l’Asse, quella che passò alla storia come la Dichiarazione delle Nazioni unite. Negli incontri successivi tra Churchill, Roosvelt e Stalin, il numero uno dell’Urss, venne più volte ribadita l’intenzione di collaborare, anche una volta ottenuta la vittoria militare contro i nemici, per garantire al mondo una pace duratura.
Dopo questa prima fase embrionale, l’Onu iniziò concretamente a prendere vita tra il settembre e l’ottobre del 1944. In quelle settimane, durante tutta una serie di conferenze che si tennero a Dumbarton Oaks, venne stabilito che questo nuovo organismo sarebbe stato composto da una Assemblea generale, un Consiglio di sicurezza, un Segretariato e da una Corte internazionale di giustizia. Dopo lunghe controversie ai cinque grandi che si apprestavano ad uscire vittoriosi dalla guerra, oltre a Gb, Usa ed Urss, Francia e Cina, fu concesso il controverso diritto di veto i grado di bloccare ogni qualsivoglia decisione presa dagli altri componenti, ponendo in pratica una vistosa disparità tra i cinque grandi ed il resto del mondo.
Il 25 aprile 1945 a San Francisco si aprì la conferenza generale che si chiuse due mesi dopo con l’emanazione della Carta delle Nazioni unite.
Questa stabilì la creazione di una Assemblea generale e del Consiglio di sicurezza, investiti entrambi di un ruolo sostanzialmente politico; fu poi istituito il Consiglio economico e sociale da cui sono coordinate numerose istituzioni specializzate; il Consiglio d’amministrazione fiduciaria o Trusteeship, incaricato di amministrare alcune ex colonie; la Corte internazionale di giustizia; ed infine il Segretariato.
Le cinque potenze vincitrici, oltre ad essersi garantite il diritto di veto, si nominarono anche membri permanenti del Consiglio di sicurezza composto in totale da 15 membri, questo almeno a partire dal 1965 visto che fino a quel momento erano 11; gli altri dieci componenti durano in carica per due anni, con cinque che vengono eletti negli anni dispari e cinque in quelli pari e che non sono immediatamente rieleggibili.
Come si vede quindi un organismo che, formalmente, si prefiggeva come obiettivi la salvaguardia della pace mondiale, la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo ed il miglioramento del tenore di vita in tutto il mondo fin dalla sua costituzione ha diviso i Paesi in Stati di seria A ed altri di serie B, andando quindi ad alimentare quelle divisioni che nelle intenzioni voleva riuscire a cancellare.
A differenza della società delle nazioni però l’Onu, fin dalle origini, ha saputo attrarre a sé nuovi membri tanto che ora include praticamente tutto il globo e, a differenza della precedente esperienza, dopo più di sessanta anni è ancora in vita, anche se da più parti viene sottolineata la sua impotenza nel risolvere alcune controversie.
Se come detto i Paesi usciti vittoriosi dalla II seconda guerra mondiale hanno all’interno del Palazzo di Vetro un sicuro posto al sole, altri grandi Paesi aspirano da sempre ad accrescere il proprio ruolo in questa istituzione. Non a caso negli ultimi anni richieste di revisione di tutto il sistema sono venute da tutto il mondo, principalmente da Italia e Germania, insieme al Giappone le grandi sconfitte del 1945 che da quel giorno vivono una sorta di complesso di inferiorità da cui cercano in tutti i modi di emanciparsi.
Più nello specifico è dai primi anni ’90, ovvero dalla fine del mondo costruito ad arte dai vincitori dalla II guerra mondiale, che si parla di riformare l’Onu, ed in particolare il Consiglio di sicurezza, anche perché il numero degli Stati membri è ormai quadruplicato rispetto al 1945, sia per via dei tanti Paesi africani ed asiatici divenuti indipendenti con la decolonizzazione sia perché la disgregazione dell’Impero sovietico e della Jugoslavia hanno portato nuove nazioni ad affacciarsi sulla scena internazionale, prontamente poi accolte nel Palazzo di vetro da chi magari poco prima aveva anche sollecitato quella disgregazione politica e non solo.
Il tema interno cui ruotano tutte le discussioni e che rende il cammino in salita è quello relativo all’ampliamento del Consiglio di sicurezza ed alle prerogativa degli Stati.
Nel 1992 alcuni Paesi, tra cui l’India e altri del gruppo dei “non allineati”, proposero un progetto di risoluzione con il quale chiedevano di inserire nell’agenda provvisoria dell’Assemblea Generale la “Questione dell’equa rappresentanza e dell’allargamento dei membri del Consiglio di Sicurezza”; richieste che venne puntualmente accolta dall’Assemblea generale, tanto che a tal proposito nel 1993 fu istituito un apposito gruppo di lavoro, l’Open-Ended Working Group che fino ad oggi però non ha saputo, o voluto, offrire soluzioni adeguate al problema.
Le varie ipotesi che vennero formulate dai partecipanti però rispecchiavano gli interessi specifici del singolo Paese che l’aveva proposta. Giappone e Germania, ad esempio, rivendicano un seggio permanente in qualità di secondo e terzo contribuente al bilancio dell’Onu; l’India invece, secondo Paese al mondo per popolazione, una delle economie emergenti in Asia e uno dei più attivi partecipanti alle missioni di peacekeeping dell’Onu, sottolineava la necessità di essere rappresentata in modo permanente. Il Brasile, a sua volta, rivendicava tale status essendo il più grande Paese in termini di popolazione e di territorio e la maggiore economia del Sud America. Ovviamente non mancano rivendicazioni avanzate dai Paesi africani.
L’Italia, che dal 1992 in poi ha iniziato a contribuire in modo significativo al bilancio ed alle missioni umanitarie, avanzò la richiesta di ottenere un seggio permanente, pur abbandonando quasi subito questa strada temendo che alla fine se ne sarebbero avvantaggiati altri Paesi, e finendo quindi in una posizione di svantaggio rispetto ad altri partner politici o commerciali. Appena tre anni dopo però Roma, insieme a Pakistan, Messico ed Egitto diede vita al “Coffe club”. Alla base di questa unione il netto rifiuto dell’aumento dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e la volontà di favorire, invece, l’ampliamento dei seggi non permanenti. Il gruppo si ingrandì facilmente arrivando ben presto a contare circa 50 membri, tra cui Spagna, Argentina, Turchia, Canada, e Corea del Sud. Tesi portante di questo club quella che l’aumento dei membri permanenti avrebbe ulteriormente accentuato la disparità fra i Paesi membri e comportato l’estensione di una serie di privilegi con un “effetto a cascata”, a quel punto quindi era preferibile aumentare i membri a rotazione che avrebbero, di conseguenza, dovuto aspettare meno anni prima di tornare a contare.
In quel periodo il nostro Paese propose anche l’istituzione di un nuovo gruppo composto da nazioni abilitate a sedere nel Consiglio con maggiore frequenza rispetto ai membri non permanenti, anche se al di sotto dello status dei cinque grandi, con uno status intermedio ma non ben precisato. Ovviamente la richiesta non ebbe successo.
Nel 1998 fu invece approvata una risoluzione presentata da Francesco Paolo Fulci, all’epoca rappresentante permanente dell’Italia presso le Nazioni unite. In base a questa delibera ogni riforma del Consiglio di sicurezza deve ora ottenere il via libera dei due terzi dei membri dell’Assemblea Generale, anziché soltanto dei due terzi dei membri presenti e votanti, come avevano richiesto gli Stati aspiranti al seggio permanente. In pratica si è creato un argine al possibile varo di riforme che non godessero di un ampio consenso, in linea con le ataviche preoccupazioni della nostra diplomazia e che al tempo permette alle nazioni minori ma più vogliose di contare di ottenere un minimo di potere contrattuale in più.
Il dibattito per una riforma del Consiglio di sicurezza, ad onor del vero non si è mai sopito, anzi si è riacceso nel 2003, con l’Italia che è tornata a reclamare un posto al sole solamente due anni più tardi.
Nel 2005, sempre su proposta di Roma, è stato creato il gruppo Uniting for Consensus che ha come obiettivo dichiarato il raggiungimento del più ampio consenso possibile per ogni riforma riguardante la Carta dell’Onu. Da questo movimento è stata avanzata la proposta di allargare a 25 membri il Consiglio di sicurezza, con 20 membri non permanenti a rotazione biennale e così ripartiti: 6 all’Africa, 4 all’America Latina e i Caraibi, 3 all’Europa occidentale, 2 all’Europa orientale e 5 agli altri continenti, ovvero Asia ed Oceania.
A causa di numerosi rinvii e varie proposte, oltre a quella italiana quella africana e quella del G4 che riunisce Germania, Giappone, India e Brasile, la discussione è ancora in alto mare, con il nostro Paese che sta cercando in tutti i modi di ottenere il risultato più vantaggioso, anche se la strada è tutt’altro che in discesa.
Nel febbraio 2009 Giulio Terzi di Sant’Agata, attuale rappresentato italiano nel Palazzo di Vetro, ha più volte ribadito la contrarietà alla creazione di nuovi membri permanenti, spiegando che a quel punto si verrebbero a creare tre diverse categorie di Stati: la prima composta dai 5 membri permanenti con potere di veto, la seconda composta dai nuovi permanenti, con gli stessi privilegi dei primi eccetto il diritto di veto, e infine una terza di “Paesi di serie B”.
In particolare l’Italia sottolinea la necessità di guardare alla riforma in un’ottica globale, mirando anche ad altri obiettivi: su tutti restituire all’Assemblea Generale quel ruolo di centro di impulso politico che le assegna la Carta dell’Onu, migliorare il coordinamento del Cds con gli altri organi dell’Onu, e rendere più efficienti i suoi metodi di lavoro.
Per impedire ai Paesi del G4 di beffarla nella corsa al seggio la cattolicissima Roma si è perfino riscoperta “spada dell’Islam”. Da qualche tempo infatti l’Italia porta avanti la tesi che la riforma avanzata da Berlino e Tokyo discrimina l’Islam. Se passasse la linea proposta dal G4, infatti, l’eventuale Consiglio di sicurezza allargato non includerebbe nessuno stato musulmano come membro permanente; non a caso Abul Gheit, ministro degli Esteri egiziano, ha già ricordato all’Onu che “un miliardo di musulmani e oltre 300 milioni di arabi hanno diritto di essere rappresentati nel Consiglio su base paritaria con le altre culture”.
Un nodo così difficile da sciogliere che c’è da dubitare possa essere sciolto in un futuro troppo vicino.