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Interviste. Andrea Fais ad ASI: “L’Ucraina sarà la chiave per comprendere l’Europa del XXI secolo”
(ASI) Esteri - L'intervista di oggi è focalizzata sulle cuase e sugli effetti derivanti dalla situazione Ucraina. Nostro interlocutore è il giornalista Andrea Fais, esperto di geopolitica .

Le televisioni ne parlano da settimane ormai, ma con l’aumentare delle violenze degli ultimi giorni c’è molta confusione sul reale svolgimento dei fatti avvenuti in Ucraina. Cosa è accaduto realmente?

Dopo il dietrofront del governo ucraino, guidato dal Partito delle Regioni, e il congelamento degli imminenti accordi per l’integrazione graduale del Paese nell’Unione Europea, si sono improvvisamente scatenate violenze e disordini, organizzati dai partiti e dai movimenti di opposizione. La decisione del presidente Janukovich è stata interpretata come un segnale della sua accondiscendenza verso Mosca, ma in realtà larga parte della popolazione ucraina non vede di buon occhio l’Unione Europea. Nemmeno tutti i movimenti di opposizione sono europeisti, ma tutti sono accomunati da una comune visione internazionale che vede per l’Ucraina una collocazione geopolitica nel campo occidentale. Il partito di Julia Timoshenko, ora capeggiato da Arsenij Jatseniuk, e il partito dell’ex pugile Vitalij Klitschko chiedono l’immediata ripresa dei negoziati con Bruxelles, mentre i nazionalisti di Svoboda, guidati da Oleg Tyahnybok, chiedono un’Ucraina indipendente dai trattati comunitari sul piano economico-commerciale ma militarmente legata alla NATO e a specifiche alleanze con Washington e Londra in caso di “aggressione”. Si sono dunque scontrate due macro-tendenze, sebbene stratificate e differenziate al loro interno: da un lato la spinta verso Ovest, prevalente nella parte occidentale del Paese, tradizionalmente legata all’eredità storica del dominio polacco-lituano, e dall’altro la spinta verso la Russia e il progetto moscovita dell’Unione Eurasiatica, caldeggiati in maggioranza nella parte orientale, la più ricca e industrialmente sviluppata anche grazie ai suoi legami storici e commerciali con quelli che vengono considerati i “fratelli russi”.

 

Molti in Europa cercano di ricondurre lo scontro strategico in atto a semplificazioni di carattere ideologico ma, da quanto sostieni, la partita ha più che altro una valenza etnica e geopolitica, che oltrepassa le etichette e i colori?

Sì, in parte è così. Anche la Seconda Guerra Mondiale presentava una forte commistione tra le direttrici geopolitiche del conflitto in atto e la struttura ideologica degli Stati coinvolti. La retorica del Novecento, per sua deformazione, ha chiaramente ricondotto tutti gli attori belligeranti ai tre massimi sistemi politico-sociali in competizione fra loro: il liberalismo, il nazi-fascismo e il comunismo. Eppure questa impostazione così rigida non ha saputo spiegare tante cose e ha lasciato molti “buchi neri” di carattere interpretativo. Basti pensare al patto Molotov-Ribbentropp, alle politiche orientali di Hitler, alla ritirata anglo-francese di Dunkerque o al patto tra Stalin e la Chiesa Ortodossa Russa. Questi dati, relegati per decenni ad una dimensione di irrilevanza, sono stati “riscoperti” soltanto dopo la fine della Guerra Fredda.

Oggi possiamo dire senza tema di smentita che il conflitto del 1939-1945 fu volano anche di un altro genocidio, in parte pianificato e in parte dovuto agli eventi: quello delle popolazioni slave. Oltre 30 milioni di vittime nella Seconda Guerra Mondiale appartenevano a nazionalità slave di vario genere - in particolare a quelle di fede cristiana ortodossa: russi, bielorussi, ucraini e serbi - pari al 42,36% del totale mondiale. Lungo l’intera fascia nord-sud dell’Europa orientale, già dilaniata e frammentata dalla deflagrazione degli Imperi centrali nella Grande Guerra, si scatenarono lotte intestine prevalentemente a carattere religioso che le potenze occidentali hanno potuto cavalcare e sfruttare a proprio vantaggio per espandere la propria proiezione strategica e/o contenere quella avversaria.

Oggi in Ucraina si ripete quello schema. La strategia atlantica, euro-americana per intenderci, vuole impedire la riunificazione politica e strategica di quelli che i grandi studiosi panslavisti del XIX secolo chiamavano i “popoli fratelli” della “Grande Russia, della Piccola Russia e della Russia Bianca”, cioè russi, ucraini e bielorussi. Che fosse l’URSS di Stalin o che sia l’odierna Unione Eurasiatica di Putin a cercare di farlo, poco importa. Per raggiungere il suo scopo, l’asse Washington-Bruxelles si affida a chiunque in quell’area rappresenti un fattore di destabilizzazione, neonazisti compresi.

 

Dunque l’Unione Europea e la Casa Bianca stanno appoggiando movimenti apertamente razzisti e xenofobi al solo scopo di contenere i progetti politici del Cremlino?

Certo. Del resto non si spiegherebbe altrimenti la palese ambiguità in base alla quale Bruxelles lancia lo slogan degli Stati Uniti d’Europa invitando i Paesi dell’Europa occidentale a vigilare su ogni possibile deriva nazionalista ed euroscettica negli scenari politici dei singoli Paesi membri, mentre simultaneamente tace o addirittura asseconda le scorribande dei gruppi ultranazionalisti ucraini così come di quelli attivi nelle tre piccole repubbliche baltiche, altrettanto violentemente anti-russi.

Questo comportamento ricorda molto da vicino l’ipocrisia dei Paesi vincitori della Prima Guerra Mondiale, quando si trattò di dover applicare la Dottrina Wilson in merito al diritto all’autodeterminazione e all’emancipazione delle nazionalità ritenute oppresse. Chiaramente tutto ciò era riconosciuto alle popolazioni che avevano appena conquistato l’autonomia dagli Stati sconfitti (Germania, Austria-Ungheria e Turchia ottomana), ma non certo a quelle assoggettate agli Stati vincitori (Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia). Inoltre, l’Ucraina attuale è quasi per metà popolata da russi e oriundi russi tanto che quasi tutte le province orientali e meridionali, compresa la Crimea, costituiscono da secoli una specie di “appendice europea” della Russia.

Secondo te, quali sono le colpe del governo Janukovich?

È importante premettere che nessuno ha la verità assoluta in mano e che, per una questione di civiltà, il diritto di manifestare il proprio dissenso politico deve essere garantito in ogni Paese. Il presidente Janukovich e il suo partito (Partito delle Regioni, ndr) hanno commesso diversi errori, primo fra tutti quello di portare avanti un indirizzo di politica estera molto ambiguo ed incerto che, necessariamente, ha consentito alle opposizioni di poter giocare il ruolo di attori fermi e convinti, dotati di una linea unitaria capace di garantire una certa stabilità al Paese. Ovviamente non è così ma l’atteggiamento ondivago di Janukovich ha avuto l’effetto collaterale di conferire nuova credibilità a personaggi che avevano già fallito in passato, come la Timoshenko, o a clown hollywoodiani privi di seri progetti politici, come Klitschko.

Detto questo, va ricordato che, sul piano della rappresentatività, Janukovich era stato democraticamente eletto nel 2010 e che, altrettanto democraticamente, il Partito delle Regioni aveva conquistato la maggioranza relativa alle parlamentari del 2012. L’immagine di quest’uomo e degli agenti delle forze speciali fornita oggi dai media occidentali è assolutamente deformata da una propaganda ridicola, cui molti dei nostri principali quotidiani si prestano senza il benché minimo pudore dipingendo Janukovich come un despota e la Berkut come una milizia di criminali. Chiaramente queste sono illazioni e diffamazioni buone per gonfiare la retorica politica. La Berkut è intervenuta in modo massiccio soltanto di fronte all’assalto di gruppi paramilitari contro sedi istituzionali fondamentali come il Parlamento e i dipartimenti ministeriali. Il numero degli agenti feriti o deceduti in seguito alle manifestazioni è infatti di gran lunga superiore a quello registrato in qualsiasi altra protesta violenta nel mondo. In Piazza Majdan e in molte altre piazze dell’Ucraina occidentale non c’erano soltanto cittadini pacifici, ma anche consistenti gruppi di facinorosi, teppisti e in alcuni casi terroristi già noti ai servizi di sicurezza di Russia, Ucraina e Bielorussia.


A questo punto, qual'è il futuro dell'Ucraina?

Il futuro del Paese è difficile da decifrare. Subito dopo il colpo di spugna delle opposizioni ai danni del governo in carica, molte città dell'Ucraina orientale quali Karkhov, Dnepropetrovsk, Lugansk, Donets'k, Sebastopoli o Simferopoli hanno registrato contromanifestazioni di protesta contro quello che legittimamente considerano un golpe o addirittura un'aggressione sostenuta dall'estero ai danni della vicina Russia. In particolare la città di Karkhov ha ospitato per diversi giorni un'assemblea di resistenza nazionale alla quale hanno preso parte amminstratori locali delle regioni ucraine orientali e delle regioni russe confinanti. In molti centri, il Partito Comunista di Piotr Simonenko e altri gruppi patriottici hanno dato vita ad un arruolamento volontario di milizie popolari pronte a difendere le città dagli assalti dei gruppi estremisti legati all'opposizione di Piazza Majdan.

Nella giornata di ieri, alcune fonti locali hanno riporato l'arrivo di blindati russi nella città di Sebastopoli, dove è presente una base militare delle Forze Armate moscovite. Ovviamente c'è da sperare che si giunga ad una stabilizzazione generale ma è evidente che, per come stanno le cose attualmente, la pacificazione passi soltanto attraverso un graduale processo di separazione consensuale tra le due parti del Paese. A livello globale, la crisi ucraina sarà anche un test di verifica delle capacità russe di mantenere il controllo sullo spazio post-sovietico impedendo alla NATO ingerenze e penetrazioni strategiche. Dopo lo scontro sulla Siria, che ha bloccato la cosiddetta "primavera araba", decidendo i destini prossimi futuri della situazione mediorientale, l'Ucraina sarà la chiave per comprendere gli equilibri europei del XXI secolo.

Ettore Bertolini – Agenzia Stampa Italia



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