(ASI) A seguito dell’uccisione del caporal maggiore degli alpini Matteo Miotto, si è tornati a parlare insistentemente e per più di un giorno di Afghanistan. Non dovrebbe sembrare una novità, dal momento che in quelle distanti lande sono impiegate delle nostre forze armate ormai dal 2002.
In missione di pace, è convenzione dire; ma è una missione di pace piuttosto singolare, dato che è quotidianamente invischiata in affari di spari, bombe, morti e feriti. Il solo contingente italiano ha sinora emesso un contributo di sangue stimabile nella cifra di 35 militari caduti. Tutto questo, mentre quaggiù, in occidente, il peso della responsabilità di quanto lì accade sembra essere poco percepito. Raramente ci pervengono informazioni sulla situazione afghana che ci vede coinvolti, a parte le occasioni in cui c’è da aggiornare il tragico bollettino dei morti. Questo continuo stillicidio non lascia certo presagire nulla di positivo, nulla che corrisponda al definitivo affrancamento afghano dalle ingerenze militari straniere e dalla guerra che ne consegue. La guerra per l’Afghanistan non rappresenta del resto negli ultimi decenni un fatto nuovo: nel secolo scorso, i primi a dover fare i conti con il suo impervio ambiente montano e con la decisa ostinazione dei suoi abitanti a ricacciare ogni attacco straniero furono i britannici nel 1919, costretti nell’agosto di quell’anno a dover abbandonare ogni velleità su quella terra dopo un conflitto durato dal 1839. Dopo anni in cui la serenità continuò spesso a latitare dall’Afghanistan a causa delle continue guerre civili, i nuovi invasori si presentarono nel 1979 tentando di imprimere su quelle terre il marchio della stella rossa. Tuttavia, anche gli equipaggiati ed agguerriti sovietici, dopo dieci anni di violenti scontri ed estenuanti battaglie di posizione tra i territori montani, si ritirarono definitivamente nel febbraio del 1989. Non servì però questa titanica e disperata impresa a rasserenare l’atmosfera, date le continue ed incessanti faide interne tra gli integralisti islamici Talebani ed una coalizione nazionale denominata Alleanza del Nord. Faide che troveranno il loro culmine dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 e dopo il conseguente intervento americano finalizzato all’estradizione del capo talebano Osama Bin Laden, individuato come il mandante di quelle tragedie che colpirono il cuore degli USA. Altra benzina sul fuoco, altre migliaia di decessi che ingrossano le file già gonfiate da milioni di morti, di mutilati; un destino di guerra che sembra essersi abbattuto su quelle terre. Destino che non nasce dal caso, bensì dalla cupidigia umana, dalla brama imperialistica di possedere un importante corridoio di oleodotti, un territorio florido in quanto a produzione di oppio, un pretesto utile a lasciar proliferare l’industria della guerra e i suoi spettri mediatici tesi a legittimare all’opinione pubblica questa spirale di sangue e fuoco. Ma l’orgoglioso popolo afghano non sembra esser disposto a chinare il capo rispetto a questi disegni che lo vedrebbero agnello sacrificale di progetti ad ampio raggio geopolitico; ne sono consapevoli gli attuali invasori occidentali, così come potrebbero meglio spiegare coloro che, nel passato, hanno avuto modo di scontrarsi con la fierezza guerriera degli afghani. Fierezza che si incarna in una figura, quella dell’eroe nazionale, di quel volto longilineo con gli occhi sorridenti incorniciato in una caratteristica barba e in un tipico cappello bianco chiamato pakul; quella di Ahamd Shah Massoud.
Il Leone del Panjshir (questo il fiero soprannome affibbiatogli dal suo popolo), morto a causa di un attentato il 9 settembre del 2001, nacque appunto nel Panjshir, regione a bassissima densità urbana, retta su di un’economia esclusivamente agricola. E’ a questo contesto rurale, contraddistinto dall’intenso rapporto dei suoi abitanti con la terra e dalla semplicità dei loro gesti quotidiani, che Massoud rimase sempre legato, anche dopo il trasferimento a Kabul avvenuto abbastanza presto per motivi lavorativi del padre, ufficiale dell’esercito. Nel Panjshir continuò a far ritorno ogni qual volta sentisse il bisogno di immergersi nel profondo del proprio animo ed accarezzare le sue radici, ancestrali sostegni umani. Sarà stato probabilmente questo suo mai sopito senso d’appartenenza – accresciuto da un fervore essenziale in ogni battaglia antimondialista: l’osservanza religiosa dei padri, quella islamica nella fattispecie – a spingerlo negli anni ’70 a prender posizione in modo concreto rispetto a quanto avveniva in Afghanistan. La velleità sovietica su quella terra, sempre più minacciosa, lo portò a fare una scelta categorica, quella di abbandonare il libro a beneficio del moschetto. Egli, infatti, lasciò gli studi in architettura all’università di Kabul per darsi alla macchia, per lanciarsi in quella audace avventura condita dal costante senso di oppressione che corrisponde alla clandestinità dei nascituri movimenti di resistenza del popolo afghano. Distintosi per carisma, coscienza ed eccellente capacità di gestione militare, Massoud fondò e guidò per anni quella struttura organizzativa che seppe scrivere un’importante pagina di storia: nata ai confini con l’Afghanistan, col continuo fiato sul collo delle autorità governative filorusse che la setacciavano, seppe svilupparsi a tal punto da ascrivere il suo epico successo nel glorioso elenco delle miracolose vittorie militari. Già, perché è grazie a Massoud ed ai suoi coraggiosi uomini che anche l’Afghanistan, tra le maestose montagne dalle alte vette, possiede le sue Termopili. La nostra mente non può che condurci in quel sacro valico greco che conobbe l’antonomasia del lustro guerriero quando leggiamo di un esercito clandestino, formato da manipoli di temerari afghani poco attrezzati ma animati dal desiderio di liberare la propria terra, che seppe tener testa per dieci lunghissimi anni – ed alla fine a provocar cocente quanto inaspettata sconfitta – all’esercito forse più organizzato e fornito di quell’epoca: l’Armata Rossa. Un’impresa basata su quella forza di volontà che per primo seppe trovare Massoud, trasmettendola ai suoi uomini, ai Mujaheddin: una vita votata alla guerra, al conseguimento di un folle obiettivo che nessuno stratega militare avrebbe mai osato immaginare, la testa chinata su quei testi scritti dai teorici della guerriglia nei pochi momenti in cui la pausa si concedeva alla concitata giornata di un capo militare, la strabiliante capacità di saper riunire innumerevoli fazioni in un unico fascio capace di sferrare colpi mortali al nemico invasore. Dopo dieci anni di incessanti battaglie all’ultimo sangue, di guerriglie, di dolore e privazione, le truppe di Massoud, grazie anche all’alleanza con quegli impervi territori montani che resero e rendono tutt’oggi vita difficile ad ogni invasore dell’Afghanistan, conseguirono la loro formidabile vittoria. Era il febbraio 1989 quando le televisioni mostrarono a tutto il mondo il preludio di quanto avvenne mesi più tardi con la caduta del Muro di Berlino: l’esercito più temuto dall’occidente, capace di imprese efferate che portarono l’Unione Sovietica ad assumere un ruolo egemonico su distese geografiche enormi, ha fatto fagotto, si sta ritirando dai palcoscenici della storia. I suoi uomini, stanchi ed umiliati, abbandonano l’Afghanistan senza aver conseguito la missione di “evangelizzazione comunista”, in passato (dalla seconda guerra mondiale in poi) riuscita ovunque si fosse tentato. Volere è potere è l’insegnamento di Massoud. La sua titanica impresa fu dunque riuscita. Intorno alla sua figura venne presto costruita una retorica antisovietica di stampo americano, nel tentativo di collocare la lotta di liberazione afghana in un ipotetico intento di conversione alla dottrina liberale imposta in occidente. Nulla di più falso e strumentale. Nella realtà dei fatti, a guerra contro l’URSS conclusa, il "Leone del Panjshir" fu costretto a dover fare i conti con l’ennesima faida interna al paese. La sua tanto auspicata “strategia nazionale” venne insidiata dai Talebani del ricco ereditiere Osama Bin Laden, scaltro guerrigliero di origini yemenite che prese parte alla guerra contro i sovietici in Afghanistan nel 1984, stabilendosi fin da subito come interlocutore con la CIA, che lo utilizzò come tramite per far pervenire ai ribelli afghani armi e finanziamenti. Lo scontro frontale tra due filosofie di vita si fece inevitabile; tra chi, desideroso di poter finalmente un giorno vedere un Afghanistan affrancato dal giogo delle potenze imperialistiche, faceva capo a Massoud e chi, avvezzo ad oscuri intrighi finanziari mascherati dietro la patina del fondamentalismo religioso da imporre omogeneamente in Afghanistan e negli altri paesi di fede musulmana (in barba ad un complesso mosaico culturale qual è quello islamico). Massoud ed i suoi uomini, sempre più sfiancati dal continuo stillicidio avversario, foraggiato dai finanziamenti stranieri, si trovarono braccati e disperatamente pronti all’ultima raffica di mitra prima dell’eroica dipartita sul campo di battaglia. Sul finire degli anni ’90 e agli inizi del 2000, in una città assalita dai Talebani, il destino di Massoud sembrò ormai segnato. Scampato a diversi agguati, il Leone venne infine trafitto per mano di un vile inganno. Il 9 settembre del 2001, due giorni prima di quei fatti di sangue e mistero che in una latitudine lontana segnarono la storia del suo paese, Massoud venne convocato per una presunta intervista da due terroristi fintisi – evidentemente in modo verosimile – giornalisti marocchini di un’emittente con sede a Londra ma in possesso di passaporti belgi. L’esplosione di una bomba nascosta nella telecamera provocò la sua morte. E’ da supporre che gli attentatori, malgrado mai avvenne una rivendicazione, siano da ricondurre ai Talebani. Probabilmente su commissione di qualche potenza straniera, di chi sempre ha garantito a questa ambigua formazione terroristica finanziamenti ed appoggi logistici, fin dall’apparizione di Bin Laden nel lontano 1984. Riguardo alle connivenze tra Talebani e USA, Massoud ebbe sempre le idee piuttosto chiare. Questo il suo pensiero, a cui va dedicata attenzione soprattutto nella parte finale: “Contro tutte le aspettative, noi, ossia i popoli liberi e gli Afgani, abbiamo arrestato e abbiamo dato scacco matto all’espansionismo sovietico. Ma il vigoroso popolo del mio paese non ha saputo conservare i frutti della vittoria. Al contrario e’ stato spinto in un vortice di intrighi internazionali, inganni, strapotere dei grandi e lotte intestine. Il nostro paese e il nostro nobile popolo e’ stato brutalizzato, vittima di avidità mal riposta, disegni di egemonia e ignoranza. Anche noi afgani abbiamo sbagliato. La nostra povertà è risultato di innocenza politica, inesperienza, vulnerabilità, vittimismo, liti e personalità boriose. Ma in nessun caso questo giustifica quello che alcuni dei nostri cosiddetti alleati nella Guerra Fredda hanno fatto per minare proprio questa vittoria e scatenare i loro diabolici piani per distruggere e soggiogare l’Afghanistan”. Per comprendere quanto scomodo fosse questo eroe nazionale afghano rispetto agli interessi americani su quella terra, è utilissimo riportare questo racconto di Kako Jalil (collaboratore di Emergency) risalente al 2002, pochi mesi dopo l’intervento americano in Afghanistan: “Quando il segretario di Stato Usa Madeleine Albright venne in Panjshir per parlare con Massoud e per chiedergli come avrebbe visto un intervento militare americano in Afganistan per cacciare i talebani, lui rispose che non avrebbe mai consentito a nessuno straniero, per nessun motivo, di entrare militarmente in Afghanistan; poi si tolse dalla testa il suo pakul e lo lanciò a terra dicendo che se mai fosse avvenuto avrebbe difeso l’indipendenza del suo paese combattendo fino alla fine, fino a che fosse rimasto anche solo un fazzoletto di terra libera da difendere grande come il suo pakul. Se il ‘Leone del Panjshir’ fosse ancora vivo oggi l’Afghanistan sarebbe molto diverso. Non ci sarebbe un pashtun al potere e soprattutto non ci sarebbero gli americani”… E non ci sarebbero neanche gli italiani, risparmiando a noi il dolore dei lutti nazionali.
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