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 Siria: cosa stiamo aspettando?
(ASI) Roma. Lettere in Redazione - «Non si può parlare dell’opposizione siriana come se fosse composta solo da estremisti. Non dobbiamo dimenticarci dei tanti giovani, innamorati della libertà, che chiedono più dignità, opportunità lavorative e un’onesta amministrazione del Paese». Così dichiara ad Aiuto alla Chiesa che Soffre un sacerdote siriano che per motivi di sicurezza preferisce rimanere anonimo. Nei primi due mesi del 2011 i siriani osservavano con attenzione quanto accadeva in Egitto, Tunisia, Yemen. «Era inconcepibile per noi ribellarci, perché significava rischiare tutto, in primis la vita». Poi a Daraa, nel Sud al confine con la Giordania, dei minorenni sono stati arrestati per alcune scritte sui muri che esortavano il presidente a lasciare il Paese. E i genitori dei ragazzi, andati a reclamare i propri figli, sono stati a loro volta arrestati. «Questa vicenda ha spinto altri giovani a scendere in piazza. Non chiedevano un nuovo governo, ma solo riforme. La risposta del regime è stata ancora una volta repressione: la maniera in cui il regime ha sempre trattato chiunque provasse ad alzare la testa, di qualunque religione fosse». Dopo quella di Daraa nuove proteste hanno riempito le strade delle principali città siriane, «alimentate dal profondo senso d’ingiustizia che provavamo tutti». Nel luglio del 2000 l’avvento di Bashar al-Assad, in seguito alla morte del padre Hafiz, aveva fatto sperare in una maggior apertura e modernizzazione. Tuttavia «lo status quo camuffato da cambiamento» propinato dal figlio non ha convinto il popolo siriano, ormai esasperato dagli «arresti arbitrari» e dai «soprusi commessi dalle shabiha, le milizie lealiste non governative.

 

«È vero – continua la fonte anonima – dopo i primi sei mesi le proteste non erano più totalmente pacifiche, ma l’elemento estremista è stato senza dubbio ingigantito. Le infiltrazioni jihadiste in realtà si sono verificate solo più tardi».

Il sacerdote ritiene comprensibile, ancorché non condivisibile, la posizione assunta da molti cristiani che - temendo l’avvento degli islamisti - si sono schierati dalla parte del regime. «Da cristiano non posso accettare che la libertà religiosa si fondi sui soprusi, seppure inflitti ad altri. Inoltre non dobbiamo dimenticarci dei cristiani, unitisi all’opposizione, tuttora detenuti nelle prigioni del regime».

La fonte riferisce ad ACS di giovani cristiani e musulmani arrestati in una Chiesa, mentre pregavano per il loro amico Basel Shehadeh. «Alcuni di loro mi hanno riferito di quei giorni tremendi, trascorsi in una stanza talmente affollata in cui facevano i turni per dormire. Mi hanno raccontato le torture fisiche e psicologiche subite e descritto le urla atroci degli altri detenuti». Shehadeh era un regista siriano che ha abbandonato una borsa di studio negli Stati Uniti per tornare nel suo Paese e filmare le rivolte. Dopo la sua morte, avvenuta durante un bombardamento nel quartiere di Bab Sba’ a Homs, la polizia segreta ne ha impedito i funerali e arrestato molti dei suoi amici. «Basel non era affatto un fondamentalista islamico,  era un cristiano. E non aveva armi, ma la telecamera».

Il sacerdote considera il possibile negoziato tra opposizione e regime una «finestra di speranza». «Non tutti vogliono fornire al presidente una via d’uscita, ma rifiutare il negoziato vuol dire far scorrere altro sangue. Perché Assad non si dimetterà».

E’ necessaria la «giusta ed onesta presa di posizione della comunità internazionale», prima che si arrivi alla frammentazione della Siria. «Uno sviluppo infausto che causerebbe violenze contro le minoranze di ogni area del Paese». Gli alauiti ad esempio sono in maggioranza nei villaggi della costa, ma si troverebbero in grave pericolo nelle città dell’interno. La partizione sarebbe «disastrosa» soprattutto per i cristiani che sono presenti in tutte le grandi città, ma ovunque minoranza.

Il perpetuarsi della guerra alimenterebbe inoltre il sostegno dei Paesi del Golfo agli elementi fondamentalisti dell’opposizione. «In questo modo le parti in lotta non esauriranno mai le forze, causando la somalizzazione del conflitto». E a pagarne le conseguenze saranno, come sempre, le migliaia di vittime civili, di profughi, di sfollati interni.  «Io sono un sacerdote, non so dire quale sia la soluzione migliore. Ma credo che tra l’intervenire in maniera diretta, come accaduto in Libia, e il rimanere a guardare ci siano molte altre possibilità. Siamo in piena guerra. Che cosa stiamo aspettando?».

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