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Geopolitica. La missione di Pechino: riprendersi Taiwan e cambiare il mondo





Geopolitica. La missione di Pechino: riprendersi Taiwan e cambiare il mondo.

di Andrea Fais

 



(ASI) Negli ultimi anni, le cronache internazionali hanno notevolmente affievolito la luce di quei riflettori che si erano improvvisamente riaccesi alla metà degli anni Novanta sullo Stretto di Taiwan. Eppure, nel Mar Cinese Orientale la tensione militare tra le due sponde non è mai calata. La questione legata alla disputa tra Pechino e Taipei è nota, ma spesso poco conosciuta nei suoi particolari diplomatici e strategici.

La storia dell’Isola di Formosa, oggi conosciuta col nome di Taiwan e divenuta centro territoriale principale dell’illegale e sedicente Repubblica di Cina, ci riporta molto indietro nel tempo, intorno ai primi secoli dopo Cristo, quando quel territorio, quasi completamente disabitato, si chiamava Yizhou ed era oggetto di esplorazioni da parte della dinastia regnante cinese. Nel XII secolo, durante la Dinastia Song, la civilizzazione dell’isola raggiunse un livello considerevole tanto da reinserirne il territorio sotto l’amministrazione della Prefettura di Quanzhou nel Fujian. Tra il XIII e il XIV secolo, la Dinastia Yuan – sottoposta al Gran Khanato – proseguì l’opera di sviluppo abitativo ed infrastrutturale del territorio, coinvolgendo le vicine Isole Penghu (oggi conosciute anche col nome di Isole Pescadores), che ben presto divennero una roccaforte difensiva del Celeste Impero sulle acque oceaniche.

Con l’inizio delle prime esplorazioni marittime delle potenze navali europee prese drammaticamente il via anche la triste era coloniale, un’era che non avrebbe risparmiato il territorio sovrano cinese. Tra il 1624 e il 1661, Spagnoli e Olandesi si impossessarono dell’Isola di Formosa, rispettivamente da nord e da sud, dando luogo a scontri intercolonialistici al suo interno. Nel 1662, dopo anni di rivolte popolari, fu il generale Zheng Chenggong, noto anche col leggendario nome di Koxinga, a guidare la liberazione nazionale e a ripristinare la sovranità cinese sui territori usurpati.

Da allora, il valore strategico dell’area insulare di Taiwan si moltiplicò e mostrò al popolo e alle dinastie regnanti della Cina tutta l’importanza relativa all’acquisizione di capacità di proiezione navale e alla costruzione di un completo controllo militare sulle coste nazionali. Lo storico e geografo cinese Wei Yuan dedicò un’intera riflessione a questo aspetto nel XIX secolo, ribadendo la necessità di restare al passo con l’impressionante sviluppo tecnologico e militare delle potenze occidentali per non esserne schiacciati. La Dinastia Qing non lasciò scoperta questa pista e lanciò un piano di modernizzazione fondato sul principio del ty jong, una formula che in sintesi indicava la necessità di acquisire concetti occidentali in materia tecnica e pratica, pur mantenendo una salda fedeltà ai fondamenti tradizionali della Cina sul piano etico, linguistico e culturale.

Tutto questo, però, non fu sufficiente ad evitare all’Impero la catastrofe del declino, iniziato con la prima guerra dell’oppio (1839), proseguito con le umiliazioni nazionali e le alienazioni territoriali sancite dagli “ineguali trattati” (Convenzione di Pechino, Trattato di Tarbagataj, Trattato di Shimonoseki …) e concluso con la rivoluzione nazionalista del 1911 che, tuttavia, malgrado un’apparente clima di rinascita ingenerato nel primo periodo, non riuscì mai a stabilire un ordine socio-politico stabile e duraturo.

In quel periodo, il destino di Taiwan è rimasto appeso a quello dell’intera nazione e, proprio a conclusione dell’attacco navale sferrato dal Giappone tra il 1894 ed il 1895, l’Isola di Formosa e le Isole Penghu furono occupate e usurpate da Tokyo. Quella colonizzazione rispondeva in realtà a precisi piani di aggressione che ben presto avrebbero coinvolto anche le isole e le coste estremo-orientali della Russia Zarista e la Penisola Coreana, sancendo definitivamente la genesi di uno dei più aggressivi imperialismi moderni: quello nipponico. Se Olanda, Spagna, Portogallo, Gran Bretagna e Francia avevano fino ad allora tentato di penetrare – con successi alterni – il territorio sovrano cinese da Ovest, il Giappone ne avrebbe minato l’integrità da Est, sino all’invasione terrestre della Manciuria, avviata nel 1931, e proseguita con il piano di totale annessione del territorio nazionale avviato nel 1937. L’adesione del Giappone all’Asse con Germania e Italia inserì, giocoforza, la guerra di liberazione nazionale cinese nel più vasto meccanismo della Seconda Guerra Mondiale, chiamando in causa alleanze e tatticismi più o meno utili alla sua causa. Al Cairo, nel 1943, l’incontro tra la delegazione del Kuomintang e i rappresentanti di Stati Uniti e Gran Bretagna mise in luce la volontà delle due potenze occidentali di impegnarsi per restituire alla Cina tutti i territori usurpatile dal Giappone nei decenni precedenti alla guerra. L’intenzione fu ribadita anche due anni dopo a seguito dei colloqui della Conferenza di Potsdam, dove gli Stati Uniti ribadirono la volontà di impegnarsi a restituire l’Isola di Formosa e le Isole Penghu alla Repubblica di Cina.

Il 25 ottobre 1945, dopo cinquanta anni di dominazione straniera, queste isole tornarono ufficialmente sotto la sovranità dello Stato cinese. Quando, però, il crescente clima di insurrezione sociale e popolare portò alla scontata riacutizzazione della guerra civile, soltanto lasciata in sospeso negli anni della guerra nazionale, la situazione tornò a farsi incandescente. Con il fallimento delle trattative di pacificazione nazionale nel 1946, in Cina, ben tre anni prima della costituzione della Nato e nove anni prima della formazione del Patto di Varsavia, si scatenò uno dei primi scontri strategici della Guerra Fredda. Nel 1947, l’Esercito Popolare di Liberazione – appoggiato dall’Unione Sovietica – diede il via alla Campagna di Liaosen, che garantì al Partito Comunista il controllo della Manciuria, per poi proseguire le operazioni a sud della Grande Muraglia. Tra la fine del 1948 e l’inizio del 1949, le milizie rosse lanciarono la Campagna dello Huaihai che assicurò a Mao Zedong e Zhu De il controllo della Cina centrale. Nel gennaio del 1949 la Campagna di Pechino portò alla conquista della Cina settentrionale e alla definitiva presa della capitale storica. Nell'aprile dello stesso anno, le milizie comuniste varcarono il fiume Yangtze, conquistando la città di Nanchino, capitale amministrativa della Cina nazionalista. Fra il settembre e il novembre del 1949, l’Esercito Popolare assunse definitivamente il controllo della Cina meridionale e riconquistò pacificamente la provincia autonoma dello Xinjiang, nel nord-ovest del Paese, completando, con la campagna del Tibet nel 1951, la ricomposizione di grandissima parte del territorio nazionale perduto nel secolo precedente.

Nel frattempo la cricca di Chiang Kai-shek, sostenuta dagli Stati Uniti, aveva trovato rifugio proprio sull’Isola di Formosa, dove proclamò la formazione di uno Stato indipendente, dichiarandosi come unica soluzione di continuità politico-costituzionale della Repubblica di Cina, caduta pochi mesi prima con la presa di Nanchino da parte dei comunisti. Taipei ne diventò la capitale ed il contemporaneo avvio delle ostilità della Guerra di Corea consentì a Washington di giustificare l’invio della VII Flotta della Marina degli Stati Uniti sull’isola, onde evitare che potesse essere coinvolta da Pechino nel conflitto coreano. Poco dopo, il presidente statunitense Harry Truman inviò anche il XIII Battaglione Aereo dell’Aviazione Nazionale fornendo al Kuomintang un primo decisivo appoggio strategico, poi sancito in modo definitivo con la ratifica del Trattato Sino-Americano di Mutua Difesa e Protezione tra Washington e Taipei nel 1954. Dopo tre anni di guerra, minacce e operazioni di contenimento giustificate agli occhi del mondo attraverso la pesantissima campagna anticomunista lanciata dai maccartisti, gli Stati Uniti ottennero così l’alienazione e la riconversione ad avamposti statunitensi di altre due entità illegittime nella regione Asia-Pacifico: la Repubblica di Cina di Taiwan e la Repubblica di Corea.

Senza voler ripercorrere tutte le tappe della disputa sullo Stretto di Taiwan, dei 136 incontri andati in scena tra il 1955 e il 1970 nessuno fu realmente utile a sancire una svolta nei rapporti sino-statunitensi in merito a Taiwan. Soltanto con il ponte diplomatico voluto da Richard Nixon tra la fine del 1971 e l’inizio del 1972, gli Stati Uniti iniziarono ad accettare la linea politica di ‘una sola Cina’ pretesa da Pechino, in base alla quale riconobbero la Repubblica Popolare come unico rappresentante dello Stato cinese. Alla luce di questa improvvisa inversione di tendenza, Pechino entrò così a far parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite occupando proprio il seggio fino a quel momento garantito ai delegati del governo di Taipei. Tra il 1979 e il 1982 Washington ratificò altri due protocolli d’intesa con Pechino (Taiwan Relations Act), accettando le richieste cinesi di riconoscere in modo permanente ed assoluto la sovranità della Repubblica Popolare sui territori insulari alienati, di considerare definitivamente concluso il Trattato di Mutua Difesa siglato con Taipei nel ’54 e di limitare progressivamente le forniture di armamenti alle forze separatiste di Taiwan sia dal punto di vista qualitativo sia dal punto di vista quantitativo.

Eppure questi accordi non furono mai rispettati. Essi restano ancora oggi carta straccia per Washington. Soprattutto con la conclusione della Guerra Fredda, il Pentagono è tornato a rifornire in maniera significativa di armamenti le Forze Armate di un governo, come quello di Taipei, che dal 1972 è considerato a tutti gli effetti illegale ed illegittimo persino dalle Nazioni Unite.

Cosa era successo dunque? In realtà, la normalizzazione dei rapporti sino-statunitensi avviata nel 1972 rientrava a pieno titolo all’interno del piano che Henry Kissinger aveva pensato per inserirsi nella crescente crisi sino-sovietica e per frammentare definitivamente il campo geopolitico dei Paesi comunisti, portando Mosca e Pechino allo scontro e alla reciproca ostilità internazionale, come poi effettivamente accaduto in Albania, in Romania, in Mongolia, nel Vietnam e in Cambogia. In sostanza, a quarant’anni di distanza dall’avvicinamento tra Washington e Pechino, la Repubblica Popolare Cinese non soltanto non ha mai potuto riaffermare concretamente la sua sovranità su Taiwan ma, scomparsa l’Unione Sovietica, si è addirittura trovata a dover fare i conti con una crescente instabilità lungo in confini con le repubbliche dell’Asia Centrale e col Pakistan (terrorismo wahabita, narcotraffico e contrabbando) e con un pericolosissimo vuoto strategico determinatosi proprio nella porzione settentrionale della regione Asia-Pacifico, dove spuntano ancora minacciosi il cono d’ombra prodotto da Taiwan ed il triangolo navale che questo compone con Giappone e Corea del Sud.

La sedicente Repubblica di Cina è, analogamente al Kosovo, uno Stato fantasma e privo di legittimità internazionale ed è, ancor più del Kosovo, privo di qualsiasi fondamento teorico-costituzionale, tanto dal punto di vista storico quanto dal punto di vista etno-linguistico. Ad oggi, il governo taiwanese è riconosciuto soltanto da 22 dei 193 Stati membri dell’ONU, ai quali si aggiunge il Vaticano che, come suo solito, non manca di intromettersi con arroganza e prepotenza negli affari interni degli Stati non-cattolici ed in particolare della Repubblica Popolare Cinese. Questa situazione ai limiti del paradosso sta producendo uno scenario di crescente tensione che, per meri interessi di opportunismo strategico da parte di Washington, rischia di condurre ad una guerra fratricida tra connazionali.

Dopo la fine della Guerra Fredda, la crisi di più vasta portata tra gli Stati Uniti ed un Paese comunista è stata proprio quella andata in scena tra il 21 luglio 1995 e il 23 marzo 1996, quando la Repubblica Popolare Cinese diede il via ad una serie di quattro sessioni di esercitazioni militari consecutive nelle acque dello Stretto di Taiwan, a pochissimi chilometri dalle coste insulari. Nel 1993 il governo cinese era stato già piuttosto chiaro attraverso la divulgazione di uno dei primissimi Libri Bianchi, pubblicati con frequenza sempre più assidua soprattutto a partire dal 1998 quando, con l’uscita del primo Libro Bianco della Difesa, Pechino presentò per la prima volta al mondo in modo chiaro e definito le sue principali concezioni geostrategiche e difensive.

La risposta di Washington a quelle esercitazioni così “azzardate” di fronte all’Isola di Taiwan non si fece attendere e Bill Clinton assunse personalmente la decisione di inviare due portaerei della Marina degli Stati Uniti a difesa di Taipei, che da mesi ne richiedeva l’intervento, costringendo la Cina a desistere dal suo chiaro tentativo di mettere sotto pressione la “provincia ribelle” per convincere le classi dirigenti dell’assurdità di un simile atteggiamento separatista e della necessità della riunificazione politica alla Terraferma.

Quello smacco non fu mai accettato da Pechino che comprese immediatamente la netta disparità delle forze in campo nel confronto militare con gli Stati Uniti, a partire dal settore aeronavale. I principali teorici militari della Repubblica Popolare decisero così di intraprendere una strategia d’attesa di durata ventennale, provando a fare del punto di debolezza costituito dalla condizione asimmetrica di un confronto così sproporzionato, un punto di forza in proprio favore. Se nella logica della Guerra Fredda, gli strateghi sovietici sarebbero probabilmente corsi ai ripari ordinando un massiccio sviluppo navale, quelli cinesi, al contrario, hanno potuto avvantaggiarsi delle politiche di riforma e apertura economica per guadagnare tempo e pianificare una serie di contromisure strategico-militari finalizzate alla neutralizzazione delle minacce statunitensi, da realizzarsi pienamente entro il 2025.

Le caratteristiche geografiche e politiche della Cina ne fanno un’“isola terrestre”, circondata da montagne e fiumi, ed incastonata come una foglia d’acero nel cuore dell’Asia Orientale. La storia della civiltà sinica, sin dalle origini imperiali, ha quasi sempre dimostrato – con pochissime eccezioni – un approccio geopolitico tradizionalmente poco incline alla proiezione marittima, sviluppando un grande potenziale terrestre, spesso insormontabile ed imbattibile, volto a garantire la composizione e la solidificazione di uno spazio di coprosperità compreso tra il Tien Shan, il Deserto del Gobi, il Fiume Amur, il Mar Giallo, il Golfo di Tonchino, il Fiume Mekong, l’Himalaya, il Karakorum, il Pamir e il Trans-Alay, capace di coinvolgere, a vario livello, tutti i popoli e i gruppi etnici che lo abitassero.

La storia insegna, però, che una potenza mondiale non possa dirsi tale senza una flotta adeguata ed una visione marittima ben precisa. Come aveva già ricordato il generale Wang Zhiyuan nel 2006, lo sviluppo di una portaerei in seno al programma militare cinese si presenta come un passaggio fondamentale per la protezione degli interessi oceanici di una nazione come la Cina. Il carattere tellurocratico della potenza cinese, dunque, non può implicare l’assenza di una strategia navale, anche qualora essa si appalesi per scopi strettamente difensivi o di esclusivo sea-denial, come sancito già nel progetto anti-nave del 2003 e come definito più nitidamente nei programmi di sviluppo tecnologico-militare inseriti nell’XI piano quinquennale (dotazione di sistemi missilistici a gittata di 1800-2000 km) e nel XII piano quinquennale (miglioramento della gittata e della manovrabilità).

A questi obiettivi strategici sembra andare incontro il progetto DF-21D, variante antinave del programma missilistico DF-21, di cui si fa un gran parlare da almeno un anno e al quale spesso ci si riferisce come il poker d’assi che Pechino potrebbe improvvisamente calare sullo Stretto di Taiwan, annullando in un solo colpo l’intero potenziale di qualunque portaerei statunitense si presenti nuovamente davanti alle sue coste.

Dopo il suo recente ingresso in servizio, la nuovissima Liaoning – complesso risultato finale di un progetto di riconversione e modernizzazione del modello sovietico Varjag, acquistato dall’Ucraina nel 1998 – è diventata ufficialmente la prima portaerei nella storia della Cina. Il significato militare di questo debutto è senza dubbio importantissimo, ed il fatto che al fianco dei nuovi caccia navali J-15 (derivati dal modello russo Su-33) sia comparso anche il prototipo del cacciabombardiere stealth di ultima generazione J-31, indica che l’Esercito Popolare di Liberazione considera questo come il primo passo verso un progressivo potenziamento del settore aeronavale che ormai procede speditamente almeno dal 2004. Tuttavia, la Marina statunitense può contare su undici portaerei in servizio (Enterprise, Nimitz, Eisenhower, Vinson, Roosevelt, Lincoln, Washington, Stennis, Truman, Reagan e Bush) e tre in costruzione (Ford, Kennedy e il modello in fase di definizione CVN-80): una forza navale impressionante che contribuisce in modo evidente a “giustificare” le abnormi spese militari del Pentagono (689 miliardi di dollari nel solo 2010, pari al 43% dell’intera spesa militare mondiale).

Ecco dunque che, in questa particolare asimmetria oceanica, Pechino potrebbe aver individuato un mezzo che, con un solo colpo, potrebbe distruggere completamente la potenza di fuoco e la capacità radar di una portaerei. Cosa accadrebbe se il missile balistico DF-21D rispettasse le consegne tecniche per cui è stato creato? La capacità di deterrenza di questo missile raggiungerebbe un livello così alto da sopperire ad una differenza di potenziale strategico navale per ora così vasta? Se così fosse, la macchina militare cinese potrebbe aver costruito un ordigno in grado non soltanto di compensare alle mancanze patite quindici anni or sono e dunque di risolvere definitivamente la disputa su Taiwan con una pressione politico-militare di fronte alla quale gli Stati Uniti questa volta sarebbero impotenti, ma anche di dare il via ad una nuova rivoluzione negli affari militari che annullerebbe una parte significativa dello strapotere navale di Washington sull’intero pianeta.

Come scriveva il leggendario Sun Tzu, il livello più nobile dell’arte della guerra è proprio quello di vincere una guerra senza dover combattere. I Cinesi sembrano non essersene mai dimenticati.

Andrea Fais per Agenzia Stampa Italia

 
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