(ASI) Economia - Ci risiamo, dopo settimane di incontri al vertice e prese di posizione avverse, tra i sostenitori del rigore e coloro che nella crescita trovano l’unica soluzione alla crisi, riecco spuntare nell’agenda internazionale la questione della stabilità del sistema bancario come vero nodo da sciogliere.
Christine Lagarde, direttore del Fondo Monetario Internazionale, è arrivata all’Eurogruppo (un consesso informale dei ministri dell’economia e della finanza dei paesi membri) con un memorandum di poche pagine, zeppe di vaghe ricette di politica economica ma niente di più rispetto a quanto udito fino ad oggi, in cui spicca l’unica proposta concreta e significativa: la creazione di una Unione Bancaria dotata di un fondo comune per la soluzione delle crisi di settore. Gli interventi di ricapitalizzazione degli istituti zoppicanti non devono più pesare sui bilanci nazionali ma dovranno contare sullo sforzo comune a livello europeo. Lagarde ha denunciato la pericolosità del meccanismo degli aiuti pubblici alle banche, che distraggono risorse al finanziamento dei debiti sovrani; dimenticando che sono le banche stesse a dare ossigeno vitale ai bilanci pubblici attraverso l’acquisto di titoli di Stato. Un circolo vizioso, da cui sarà difficile uscire solamente con la creazione dell’ennesimo fondo di intervento straordinario.
Un quadro sconfortante per l’eurozona la cui stabilità dipende in larga misura, dalla salute del sistema creditizio. Dinamica che trova origine nel difetto strutturale dell’impostazione economica globale, fondata sul debito.
Non è certo il momento di mettere in discussione il sistema economico nel suo complesso, risultato di un’evoluzione che si è andata caratterizzando in parallelo con il progresso della società moderna; tuttavia c’è un’anomalia che non si può tacere, se e quando i cittadini sono chiamati al sacrificio e al confronto con un futuro incerto e a tratti angosciante. Le banche, il perno su cui girano le sorti della stabilità sistemica, sono nient’altro che società per azioni, attività di puro profitto per pochi. Un tabu che andrebbe finalmente infranto dalla politica e dall’informazione generalista, che invece continuano a far finta di niente per poi interrogarsi quotidianamente e ipocritamente, sui motivi della disaffezione individuale nei confronti di quelle Istituzioni dello Stato, non dimentichiamolo, nate a tutela dell’interesse generale.
Qual è il rapporto che lega a doppio filo le microeconomie delle famiglie italiane alle sorti dei bilanci bancari, così come ci spiegano –minacciosamente-gli esperti? Vediamo: il risparmiatore, deposita i propri risparmi in una banca (che abbiamo detto, non essere un pio istituto ma una società di servizi con finalità di lucro); il risparmiatore, paga per ogni movimento del proprio conto corrente, in cambio di una percentuale di interesse che a malapena rivaluta il potere d’acquisto rispetto all’inflazione in costante crescita (il tasso di interesse minimo riconosciuto fa riferimento a parametri riscontrabili sui mercati finanziari, la percentuale eventuale oltre il minimo dipende invece dal singolo istituto); la banca a questo punto, è diventata proprietaria del denaro depositato, e inizia a prestarlo agli stessi soggetti di cui è debitrice, individui o imprese, previa garanzia a copertura del rischio, a tassi di interesse molto superiori a quelli riconosciuti al correntista iniziale; il risparmiatore può anche decidere di investire parte dei suoi risparmi sui mercati finanziari (azioni, titoli di Stato etc.) attraverso i servizi specializzati della stessa banca che intanto, continua a fare profitti sul rischio altrui.
L’art. 1834 del Codice Civile prevede che i risparmi in conto deposito entrano nella proprietà della banca la quale è tenuta alla loro restituzione, in qualsiasi momento, anche se nel frattempo ne abbia impegnata una parte altrove (vedi speculazione). A garanzia, è istituito a norma dei regolamenti comunitari, un fondo di riserva obbligatorio; la BCE è tenuta a controllarne giornalmente la sussistenza la cui entità minima è stabilità nel 2%. del capitale. Senza perderci in tecnicismi, se la banca dovesse fallire, i nostri risparmi non sarebbero garantiti nella loro interezza: sulla carta, il Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, in caso di fallimento di una banca, assicura la copertura del deposito fino a 100 mila euro, quindi non completamente. Tuttavia, in uno scenario apocalittico di un sistema così interconnesso, si produrrebbero fallimenti a catena con ripercussioni generalizzate che investirebbero tutti gli attori, rendendo inadeguata la consistenza delle risorse accantonate per l’emergenza. Ma perché pensare sempre al peggio?
Inoltre, l’adesione al Fondo era fino a qualche tempo fa solo volontaria e ancora oggi, rimane tale per le filiali delle banche estere.
In sostanza, partendo da un capitale di debito la banca diventa creditrice su tutti i fronti. Non c’è trucco e non c’è inganno, così vanno le cose.
Questa realtà che fa a pugni col buon senso da qualsiasi angolatura, è giustificata unicamente dal ricatto psicologico della sua imprescindibilità, pena la catastrofe.
Alternative non mancherebbero, ma analisti e cattedratici non osano mettere in discussione l’impianto nelle sue fondamenta, poiché a cantare fuori dal coro bene che ti vada, rischi di essere bollato come veterocomunista o parimenti, pericoloso sovversivo. Dal lato dell’informazione generalista la situazione è conforme, la retorica ufficiale legittima la realtà apparente: nei quotidiani e nei talk show nazionali non c’è traccia - per esempio- di quella banca del Nord Dakota interamente a capitale pubblico che da oltre novanta anni si finanzia con le tasse dei cittadini, svolgendo unicamente attività di credito (a tassi d’interesse popolari) essendo vietata, per statuto, qualsiasi forma di speculazione.
La propaganda neo-liberista ha confinato la parola “pubblico” nel purgatorio delle accezioni blasfeme, anche per quei settori a interesse universale come l’acqua, l’energia, e appunto il credito; efficienza e risparmio, sono le paroline magiche usate per illudere di un’apparenza che non è sostanza.
Per ora salviamo le banche, con ogni mezzo a disposizione, soprattutto con i soldi pubblici (sacrosanto l’aggettivo quando si tratta di salvare una proprietà che pubblica non è) come hanno fatto gli Stati Uniti a spese dei contribuenti, alla faccia della giustizia sociale e del bene comune. Speriamo che la crisi passi presto così da poter tornare a rimpinguare i nostri depositi bancari, inganno di una prosperità precaria e momentanea, fino alla prossima crisi.
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