Intervista a Salvatore Santangelo, il futuro delle startup in Italia

(ASI) Salvatore Santangelo, è un esperto di politica economica internazionale e geopolitica con un focus sull'economia dell'innovazione e delle startup.

È tra i promotori del seminario "Se Steve Jobs fosse nato a Napoli 'non' avrebbe fatto il parcheggiatore. Comunicare l'innovazione e l'eccellenza; sconfiggere gli stereotipi". Un'iniziativa che l'Ordine dei Giornalisti della Campania ha inserito nei propri percorsi formativi. Il seminario ha visto alternarsi come relatori Marco Mastracci, Gabriella Cims, Rodolfo de Laurentiis, Alessio Postiglione e Alessandro Sansoni alla presenza di Ottavio Lucarelli e Mimmo Falco (rispettivamente Presidente e Vicepresidente Ordine dei Giornalisti della Campania).

Cosa vuol dire organizzare un seminario del genere in un momento come questo?

Organizzare questo seminario, vuol dire scegliere un altro punto di vista sul Sud, sfatare luoghi comuni e stereotipi: "siamo davvero sicuri che se Steve Jobs fosse nato a Napoli sarebbe stato solo un 'parcheggiatore' di successo?". Il Meridione è uno scrigno pieno di grandi potenzialità nel campo della moda, dell'alimentazione e del design e la comunicazione deve aiutare a scoprirli, soprattutto in un momento storico come questo che vede nell'Expo 2015 di Milano una grande opportunità per mettere in vetrina le eccellenze del Mezzogiorno d'Italia, legate in particolare all'agroalimentare, alla creatività e al patrimonio artistico-ambientale in funzione turistica. In questo senso è fondamentale sviluppare un giornalismo in grado di raccontare la complessità entrando nei processi e rendendoli fruibili a un pubblico più ampio a cui dare consapevolezza delle trasformazioni in atto anche con un'adeguata "mediazione" linguistica. L'idea è quella di costruire una riflessione compiuta - anche in senso comunicativo - sul fenomeno del momento. Quello delle startup è certamente una tendenza fondamentale che comunque presenta luci e ombre e soprattutto nel nostro Paese - in assenza di crescita e di una vera politica industriale - rischia di essere effimero.

Oggi si fa un gran parlare di startup, digitale, economia dell'innovazione ed altri temi collegati. Quanto, soprattutto nel nostro Paese, c'è di vero e quanto invece si tratta di una moda? C'è una via d'uscita dall'escamotage delle startup come propaganda? Quale?

Effettivamente il digitale con tutte le sue declinazioni - Cloud, Big Data, smart home, smart working, proliferazione dei device e disponibilità di contenuti digitali su qualunque tipo di terminale - sta creando una vera rivoluzione nell'economia. Non a caso si parla di un "Big Bang disruption". Pensiamo agli alberghi il cui modello di business è spiazzato dall'ingresso sul mercato di una startup come Airbnb o a quello che comporta un'app come Uber per i tassisti. Il problema è che l'Italia (ma anche l'Europa) occupa un ruolo marginale in questa rivoluzione. Analizzando i dati raccolti tra il 2009 e l'agosto 2014 da BrightSun - un sito specializzato in investimenti in startup - emerge che il numero totale di quelli effettuati negli Usa è il doppio rispetto all'Europa: 6.760 contro 2.537. L'economia dell'innovazione ha i suoi centri nevralgici europei a Londra e Berlino. E le startup del vecchio continente che ce l'hanno fatta si contano sulle dita di una mano: la britannica King (che si occupa di social gaming), la tedesca Zalando (portale di ecommerce), la francese Blablacar (sito per i passaggi in auto), le svedesi Spotify e Klarna (rispettivamente un servizio di streaming musicale e una società che si occupa di transizioni online), la finlandese Supercell (impresa di creazione di videogiochi). Se passiamo all'Italia le storie di successo sono ancora troppo poche e allargando lo sguardo a un livello macro, i dati ci dicono che il complesso dell'economia digitale ha un'incidenza sul Pil del 4,9% con un valore aggiunto dell'economia dell'innovazione che non supera il 2,5 per cento. Numeri che si collocano molto dietro le principali economie avanzate. Come giustamente fai notare nella domanda, la notorietà crea anche un'attenzione da parte della politica che cerca di rigenerare la propria immagine avvicinandosi a temi percepiti come "di tendenza", e così si moltiplicano i tentativi di emulare i casi di successo. Ma come ci ha insegnato lo storico studio di Vivek Wadhwa sui tentativi falliti di costruire "a tavolino" il modello Silicon Valley, il successo non sta tanto e non solo nell'università, nelle imprese, e nemmeno nei pur importanti investimenti governativi. La ragione della forza di questo modello sta piuttosto in un'alchimia originale, nelle persone, e nelle "relazioni uniche" tra i territori, le strutture accademiche e le aziende. Quindi il suggerimento è quello di creare una collaborazione sempre più stretta tra le realtà già esistenti (Italia startup e ItaliaCamp sono buoni punti di partenza) e sostenere una dinamica dal basso verso l'alto. Questo non significa che i decisori politici non debbano giocare un proprio ruolo, negli Stati Uniti, l'economia creativa è potente e diffusa perché è sostenuta da una solida infrastruttura ma più che distribuire le risorse a pioggia (prassi moltiplicata dal protagonismo delle regioni) occorre lavorare sulle "basi": diffusione delle reti, uso della "leva fiscale" per sostenere la ricerca, la formazione e le nuove assunzioni, sostenere l'accesso al credito e semplificare tutte le procedure burocratiche. Cose che in qualche modo si sta provando a fare.

Che ruolo possono avere le startup italiane nella geoeconomia mondiale?

Quella delle startup non è più una nicchia, non è un mondo fine a se stesso. È un fenomeno che racchiude profonde trasformazioni che stanno mutando il modo di fare impresa, di produrre valore economico e generare occupazione e benessere sociale. Negli ultimi venti anni, le startup sono emerse come il più potente ingrediente per "importare" innovazione all'interno dei sistemi economici avanzati. In questo senso è possibile sostenere che la startup economy rappresenta il nuovo paradigma della politica industriale per i Paesi avanzati nel XXI secolo. È il "Grande gioco dell'innovazione globale". Farne parte significa assicurare una prospettiva vitale al futuro dei settori economici di un Paese. Esserne esclusi li condanna all'estinzione. Per i settori dove l'innovazione è operata con minimi apporti di capitale si deve spingere principalmente su strumenti di sviluppo very early stage, che favoriscano la proliferazione di piattaforme di generazione imprenditoriale, come incubatori, acceleratori, scuole di imprenditorialità innovativa. Invece, per i settori dove l'innovazione si fa con apporti di capitale maggiori, occorre concentrare le risorse in poche iniziative con dotazioni importanti, realizzate in collaborazione con i principali player industriali di settore. Il problema dell'Italia si può riassumere in tre parole: innovare, crescere, e internazionalizzarsi. Le aziende che soccombono alla crisi sono proprio quelle di piccole dimensioni, incapaci di aggregarsi con altre e di esportare i propri prodotti. Quindi possiamo affermare che, sebbene le start-up non risolvano i problemi dell'imprenditoria italiana, sono però una componente senza la quale non è possibile pensare a un rinnovamento. Negli ultimi anni, il sistema-Italia ha generato un importante sforzo per favorire lo sviluppo di un'offerta di startup. Si tratta di un impegno sia per promuovere l'importanza dell'innovazione nello sviluppo dell'economia nazionale, sia come risposta alla crescente crisi che interessa le giovani generazioni e la forza lavoro più qualificata. Se tuttavia vogliamo evitare che questo importante investimento vada disperso a beneficio di altri sistemi nazionali, e che l'Italia possa pienamente occupare un ruolo attivo nel "Grande gioco dell'innovazione globale", è giunta l'ora di investire anche sullo sviluppo della domanda di startup". È ora di innovare la Corporate Italy.

L'Italia ha un ambiente ottimale per la nascita e la crescita delle startup? Quali opportunità ci sono?

È evidente che nel nostro Paese si respira un certo fermento sul fronte culturale e comunicativo, ma sul versante normativo e su quello dell'azione di governo, dopo il discreto lavoro svolto da Corrado Passera solo nelle ultime settimane si è fatto un ulteriore passo avanti. Infatti nell'investment compact approvato il 24 marzo dal Senato assistiamo a un profondo cambiamento della disciplina sulle startup e sulle pmi innovative, attraverso l'introduzione di strumenti pionieristici: agevolazioni fiscali, semplificazioni normative, vita prolungata e possibilità di autofinanziarsi attraverso piattaforme di equity crowfunding. Sono misure che possono avere un impatto significativo. Oggi le pmi innovative sono stimate poco più di 7000 ma come ci ha ricordato Riccardo Donandon di H-farm: "Creare una startup non basta. Bisogna anche fare in modo che cresca e si sviluppi, andando a integrare il tessuto produttivo. Le imprese innovative devono aiutare le Pmi a essere competitive in un mondo in continuo cambiamento". Il problema certamente è il difficilissimo contesto in cui ci troviamo a operare, dove una tripla crisi (istituzionale, economica e politica) sta schiacciando il nostro Paese che appare sempre più incapace di innovare e competere in modo sistemico. Per non parlare poi dell'emergenza educativa fotografata dai dati Ocse. Dobbiamo essere tutti pervasi da un senso di urgenza, con la consapevolezza che chi non si rassegna a lasciare l'Italia deve fare i conti con la dura legge evidenziata dal'economista Enrico Moretti: "nel panorama economico attuale non conta tanto cosa fai o chi conosci, ma dove vivi".

Cosa sbaglia la comunicazione quando si tratta di startup?

Proviamo a girare in positivo la domanda. Cosa può fare la comunicazione per le startup? Saper raccontare i prodotti, le origini, l'ambiente, le donne e gli uomini che sono gli attori di questo tentativo di dar vita a un nuovo rinascimento italiano: in una parola fare storytelling. Questo termine che in Paesi privi del nostro significativo passato industriale, manufatturiero, artigianale può avvicinarsi di più al concetto di "inventarsi una storia", da noi assume senso più concreto e reale: quello di recuperare i racconti che contribuiscono a spiegare l'eccezionalità dei nostri prodotti, per promuoverli.

Guglielmo Cassiani Ingoni - Agenzia Stampa Italia

 
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