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Lo sporco lavoro dell’euro
(ASI) Nel mondo esistono paesi commercialmente più o meno competitivi, ossia paesi che hanno costi di produzione e prezzi per unità di prodotto più alti, e altri più bassi. Quelli con costi e prezzi mediamente più alti, sono meno competitivi commercialmente, quindi esportano di meno e importano di più di quelli che hanno costi e prezzi più bassi. Conseguentemente, i primi s’indebitano, cioè accumulano passivi (disavanzi) commerciali internazionali, e i secondi accumulano attivi (avanzi). Per pagare i debiti, i primi possono cedere ai secondi oro o altri beni, ma alla lunga questi finiscono. Ciò che prima o poi fisiologicamente succede è che, essendo la valuta dei paesi più competitivi maggiormente richiesta di quella dei paesi meno competitivi, per la legge della domanda e dell’offerta il rapporto di cambio tra le due valute si corregge, nel senso che la valuta dei paesi meno competitivi si svaluta rispetto a quella dei paesi più competitivi. Ciò rende automaticamente meno costosi i prodotti dei primi, e più costosi quelli dei secondi, con l’effetto che aumenterà la domanda dei prodotti dei paesi meno competitivi, e calerà quella dei paesi più competitivi. Nei paesi meno competitivi, per rispondere all’aumento di domanda dall’estero, aumenteranno investimenti, produzione, occupazione, quindi la ricchezza e il gettito fiscale, gli investimenti di capitali stranieri attratti dai minori costi e dalle maggiori potenzialità di esportare, e così pure dei turisti stranieri, allettati dai minori costi. In un primo tempo vi sarà un rincaro dei prodotti importati, effetto sgradito, ma che favorirà il consumo di prodotti nazionali, sicchè anche la domanda interna ne avrà beneficio. Tutto questo è un meccanismo di bilanciamento di libero mercato, naturale, fisiologico, non perverso né scorretto, non distorcente come, in un certo senso, sarebbe il ricorso ai dazi per limitare la competitività dei prodotti stranieri sul mercato interno, o i sudditi statali alle esportazioni. L’Italia, sistema-paese diverso e in certi senso meno efficiente dei principali partners europei e occidentali, poteva svilupparsi grazie a questo meccanismo, combinato col sistema monetario precedente al 1981-1983, sopra descritto, che consentiva una costante spesa pubblica per infrastrutture, ricerca, sostegno dei redditi e integrazione della previdenza. Scientemente e al servizio dello straniero, i nostri uomini di Stato hanno soppresso questi due meccanismi e hanno fatto carriera. Della fine del primo meccanismo, cioè del divorzio della Banca d’Italia dal Ministero del Tesoro è stato già detto. La soppressione del secondo meccanismo, cioè dell’aggiustamento fisiologico del cambio della valuta, ha avuto effetti non meno devastanti del primo, ed è stata molto più lenta e laboriosa, ed è riuscita solo al terzo tentativo, ossia con l’Euro. L’Euro invero non è una moneta, tanto meno una moneta unica (perché si basa su debiti pubblici separati e separatamente attaccabili), ma è semplicemente un blocco degli aggiustamenti dei cambi tra le valute dei paesi partecipanti. E la BCE non è una banca centrale in senso proprio, perché non ha il potere-dovere di assicurare l’acquisto dei titoli sovrani, impedendo così le speculazioni e il default. Il primo tentativo di bloccare stabilmente gli aggiustamenti dei cambi tra paesi europei dopo il 1971 (cioè dopo la fine del Gold-Dollar Exchange Standard) iniziò nel 1972 e fallì nel 1979. Il secondo, noto come Sistema Monetario Europeo (SME), fu fatto alla fine degli anni Ottanta e saltò nel 1992. Il terzo, l’Euro, è in crisi dal 2010. I tre tentativi si differenziano per aspetti tecnici; solo nel terzo di essi viene introdotto un simbolo del sistema dei cambi fissi, ossia l’Euro. In tutti e tre i casi, il blocco dei cambi ha prodotto, a carico dei paesi meno efficienti, perdita di competitività e di quote di mercato internazionale, morie di aziende e posti di lavoro, incontenibile indebitamento, forte ascesa dei tassi d’interesse, fuga di capitali, imprese e cervelli, con conseguente peggioramento del rapporto di efficienza produttiva tra sistemi-Paese. In tutti e tre i casi, i paesi più forti attraevano denaro da quelli più deboli, al che, per mantenere fissi i cambi, i primi aumentavano i tassi d’interesse, e i secondi li abbassavano, con la conseguenza che poco dopo le economie deboli erano ancora più deboli, dovendo pagare di più il denaro di quelle più forti; onde le tensioni sui cambi ritornavano sempre più violente; con l’Euro, le tensioni colpiscono i rendimenti dei titoli pubblici dei paesi deboli (onde le crisi di spread), e ciò conferma che l’Euro non è una moneta, tantomeno unica; il gioco procedeva sino allo scoppio, e forse così sarà di nuovo. In tutti e tre i casi si è gridato che uscire dal blocco avrebbe causato un disastro; nei primi due casi, siamo usciti e in breve siamo ripartiti bene. Ora però abbiamo la Bundesbank, banca centrale tedesca che, violando i trattati, compera massicciamente Bund (titoli pubblici decennali tedeschi) alle aste, cioè sul mercato primario, oltre che sul secondario, per tenere alta la loro nomea e bassi i tassi. Dal fatto che alle ultime aste il 60% della domanda di titoli pubblici italiani viene dall’estero, è chiaro che vi sono governi (tra cui verosimilmente quello tedesco) che possono finanziarsi con denaro stampato a costo zero dalla loro banca centrale, per comperare non solo titoli del debito pubblico proprio, ma anche quelli italiani e di altri paesi. In tal modo abbiamo che essi, semplicemente stampando denaro, s’impadroniscono del nostro debito sovrano e del flusso d’interessi, cioè di tasse, cioè di lavoro e risparmio degli italiani. E che si preparano a fare la medesima cosa quando l’Italia dovrà vendere beni pubblici. Il primo spread tra Germania e Italia non è finanziario, ma è uno spread di diritti, di sovranità monetaria. La Germania si prende, di fatto, diritti che all’Italia sono stati tolti da astuti traditori o benintenzionati imbecilli. Dato che l’Italia non può fare altrettanto perché è troppo debole per violare i trattati e in ogni caso la suddetta riforma monetaria del 1981 glielo vieta, la prima cosa che farebbe un governo italiano non traditore, di fronte a una simile situazione, equivalente a un’invasione militare del Paese, sarebbe denunciare la violazione dei trattati, ripudiare il debito pubblico detenuto da stranieri, e rispondere alle doglianze dei detentori invitandoli a rivolgersi ai responsabili per rifarsi. Al contempo, minaccerebbe l’uscita dall’Eurosistema, la nazionalizzazione della Banca d’Italia e il ripristino dei controlli sugli acquisti stranieri in Italia. Per giustificare l’Euro e le tasse che s’imponevano per entrarci, si diceva che avrebbe messo al sicuro il nostro debito pubblico che esso sarebbe stato condiviso con i partners europei forti e che avrebbe fatto convergere le economie dei vari paesi ossia, che avrebbe reso la nostra efficiente e forte quanto quella tedesca. Queste tre promesse sono risultate completamente false, perché gli effetti dell’euro sono stati esattamente l’opposto. L’Euro, avendo un valore intermedio tra il Marco e la Lira, agevolava le esportazioni dell’economia tedesca, quindi il suo sviluppo e l’accumularsi di avanzi commerciali, cioè crediti intra-Eurozona di Berlino. Per converso l’Euro facilitava le importazioni italiane dalla Germania e ostacolava le esportazioni italiane nel mondo, inducendo o costringendo molte imprese a chiudere o emigrare (verso paesi a minor costo di produzione, come non solo la Cina o la Romania, ma la stessa Svizzera), cioè a non pagar più tributi e contributi in Italia, a lasciare disoccupati a nostro carico, e a farci concorrenza dall’estero, portando là capitali, macchinari, tecnologia, professionisti. Inoltre, l’Euro, per i primi anni ha consentito allo Stato di finanziare la sua spesa prendendo prestiti a bassissimi tassi, e la “casta” ha usato tale disponibilità per aumentare costantemente la spesa pubblica (+ 60% in 10 anni) onde arricchirsi e acquistare sostegni e voti clientelari, col risultato che, quando i piloti dei mercati finanziari hanno moltiplicato il tasso sul btp, le finanze pubbliche sono entrate in crisi. Ma ora non si può più ridurre quella spesa parassitaria perché essa è indispensabile per aver il voto dei partiti e il sostegno di ampi settori burocratici, sindacali, imprenditoriali. I bassi tassi di interesse e il reddito facile hanno indotto anche i privati a contrarre debiti, aumentando così la propria capacità di spesa; l’indebitamento delle famiglie è salito da circa il 28 a circa il 29% del Pil. Quando i tassi sono saliti e i salari si sono ridotti, è stato un massacro. Ma nel frattempo il credito facile ha mascherato i calo di capacità produttiva reale del paese, anestetizzando questo problema. I tedeschi hanno sfruttato, insomma, anche l’ignoranza e la miope voracità dei nostri capi partitici, dei nostri alti burocrati che sono stati inebriati da dieci anni di spese e furti grassi e facili, dalla possibilità di mantenere il consento attraverso aumenti di spesa pubblica anziché riforme reali e funzionali, troppo faticose e probabilmente oltre la portata dei loro cervelli e della loro formazione.

Fonte: libro “Traditori al governo?” di Marco Della Luna

Davide Caluppi  - Agenzia Stampa Italia

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