(ASI) I fatti dell’Ilva di Taranto e la drammatica vicenda della miniera sud-africana di Marikana presentano diverse analogie, tenuto conto delle debite proporzioni e la diversità delle circostanze. Attori principali e vittime di un destino scritto nelle fondamenta della società moderna, la vita degli operai è sempre in bilico appesa al filo instabile delle condotte altrui.
Non è attraverso Marx che si palesa tale evidenza ma con gli occhi della storia che si ripete in ogni fabbrica, in ogni rapporto di lavoro dipendente de-umanizzato e ridotto a pure logiche di aritmetica economico-finanziaria. La mattanza avvenuta in un Paese che all’improvviso tradisce un carattere intimo non emancipato da un passato troppo recente, può apparire un evento eccezionale di una società immatura perché, come si è detto, appena risvegliata da un lungo sonno. Invece, le implicazioni della vicenda che ha visto ammazzati come cani trentaquattro padri di famiglia che protestavano, violentemente, per chiedere migliori condizioni di lavoro -si fatica a dubitare della fondatezza delle loro rivendicazioni- sono le medesime che a Taranto rendono incerto il destino degli operai dell’Ilva. I minatori di Marikana hanno trovato la morte per difendere il lavoro, gli operai di Taranto difendono un lavoro che mette a rischio la loro stessa vita: una situazione paradossale già descritta in un articolo precedente. La proprietà della miniera minaccia licenziamenti di massa nei confronti dei colleghi sopravvissuti, in sciopero dal giorno della strage; in Italia si sventola lo spauracchio della cassa integrazione se la produzione non tornerà presto alla normalità, come i colleghi dell’Alcoa in Sardegna e quelli di tante altre realtà industriali italiane, anche loro sulla graticola da mesi. Gli operai, quei lavoratori che nell’era comoda dei servizi sono ancora indispensabili a svolgere le mansioni più dure, vuoi per sforzo fisico vuoi per la stancante ripetitività dell’azione specializzata, sempre in balia delle fluttuazioni dei mercati, soggetti passivi delle politiche industriali e dei tavoli di concertazione, vittime del profitto a tutti i costi, mai padroni del proprio lavoro, in un mercato economico che è libero quando si tratta di licenziare ma un po’ meno quando si tratta di colmare con le finanze pubbliche i vuoti di bilancio creati da gestioni dissennate o incompetenti, dove flessibilità è sinonimo di precarietà e non di garanzia occupazionale come dovrebbe. Certe volte, sembra di tornare indietro di duecento anni, alle prime rivendicazioni operaie per la riduzione delle ore di lavoro e per migliori condizioni igieniche nelle fabbriche. Poi, a pensarci bene, ci si accorge di quanti passi avanti siano stati fatti e come il sacrificio e il duro lavoro di tanti uomini e donne sia servito a qualcosa: l’operaio moderno non sarà più sfruttato e oppresso, non più costretto a turni infiniti e massacranti, dopo due secoli avrà raggiunto e conquistato finalmente il traguardo che lo renderà libero per sempre: il diritto ad essere licenziato.
Fabrizio Torella Agenzia Stampa Italia