(ASI) Lucca . Al Teatro del Giglio va in scena il nuovo spettacolo scritto e diretto da Paolo Civati, David, un viaggio nella malattia del secolo.
Nel 2015, la brava Julianne Moore ha fatto incetta di premi (dal Golden Globe all’Oscar, passando per lo Screen Actors Guild Award e il British Academy Film Award) per il suo ruolo in Still Alice, film che descriveva il lento perdersi di una donna ancora giovane nei meandri dell’Alzheimer. Del resto, in una società sempre più vecchia, come quella italiana e, in generale, quella occidentale, le malattie degenerative degli anziani stanno diventando un serio problema sia a livello familiare che politico.
Il testo di Paolo Civati, splendidamente interpretato da Luigi Diberti nel ruolo del protagonista, David, affronta il tema soprattutto dal primo punto di vista, dato che la sicurezza economica della famiglia dell’anziano malato consente all’autore di approfondire i rapporti personali, tacendo sulle ripercussioni che l’assunzione di una badante o il definitivo ricovero in una Casa di riposo possono avere su una normale famiglia italiana - in tempi di crisi economica e salari ai minimi storici.
L’impianto generale, di solido teatro di tradizione, basato soprattutto sulla parola, si carica di un linguaggio più contemporaneo e, a tratti, volutamente scurrile, nella descrizione della famiglia, in quanto esponente di movimenti artistici e libertari degli anni Sessanta e Settanta. Il padre, David, e la moglie ormai defunta sono descritti dai figli come genitori che li avrebbero umiliati con i loro atteggiamenti anticonvenzionali e le loro frequentazioni in stile Factory di Warhol. Traumatizzandoli al punto da trasformare la figlia in una scrittrice fallita e in una pittrice priva di talento, che sopravvive alla depressione grazie a relazioni con uomini sposati e a una buona dose di psicofarmaci; e il figlio in un commercialista di successo, tutto casa e lavoro, privo di fantasia e forse anche della capacità di farsi coinvolgere emotivamente in qualsiasi relazione affettiva autentica. Un quadro, questo, un po’ retrivo, che ammicca a quel conformismo di ritorno che va tanto di moda e che colpevolizza i genitori di qualsiasi fallimento o mancanza, deresponsabilizzando i figli in quanto adulti consapevoli che dovrebbero essere in grado di farsi un’autoanalisi e, superando eventuali traumi (veri o presunti), assumersi la responsabilità della propria esistenza. Responsabilità ancora più importante, oggi, in un’Italia dove i quarantenni vivono ancora in famiglia, sia per ragioni di effettiva precarietà del lavoro sia per pura e semplice comodità.
Anche il mondo dell’arte è descritto utilizzando alcuni luoghi comuni che stanno sempre più prendendo piede. È dai tempi de Il secondo tragico Fantozzi e della celebre: «Per me... La corazzata Kotiomkin... è una cagata pazzesca!», in cui Villaggio/Fantozzi metteva alla berlina il capolavoro di Ėjzenštejn, La corazzata Potëmkin, che l’arte e l’intelligenza subiscono continui attacchi da coloro che fanno fatica a seguire i dialoghi del Grande Fratello - dimostrando l’ottusità di una classe media borghese che non si peritava (né perita) di capire né di informarsi né tanto meno di incuriosirsi per qualsiasi linguaggio che non fosse (o sia) di una banalità disarmante. E purtroppo, sempre più spesso, cineasti e drammaturghi (vedasi anche La grande bellezza di Paolo Sorrentino) sembrano sottoscrivere il manifesto all’ignoranza lanciato da Fantozzi.
Così, i movimenti libertari degli anni Sessanta e Settanta che hanno portato anche a conquiste importanti come l’autodeterminazione femminile, il nuovo diritto di famiglia, la scelta di una gravidanza consapevole, l’abolizione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore; e, dall’altro lato, le ricerche che hanno stravolto i codici artistici e teatrali ormai vetusti, sradicato l’estetica del bello, moltiplicato le possibilità di espressione, promuovendo riflessioni filosofiche importanti e consegnando alla storia i tagli di Fontana così come la merda d’artista di Piero Manzoni o il Pinocchio di Bene (solo per citare tre nomi a caso); ebbene tutto questo è banalizzato, sulla scena, con rimandi a orgasmi pubblici e a falli messi in mostra.
Purtroppo, la sensazione complessiva finale, è di avere assistito a uno spettacolo molto Broadway fine anni Ottanta. La battuta sugli ebrei odiati da tutti sa di establishment newyorkese; i rapporti generazionali sembrano mutuati da quelli tra lo yuppie in carriera e il padre, velleitario sognatore alla Big Fish; o tra la figlia fallita che vive nell’ombra della madre di talento, in stile Mammina cara.
Bello il finale aperto. Perché, a volte, la libertà sta semplicemente nella possibilità di scelta.
Simona M. Frigerio – Agenzia Stampa Italia
Foto di Bepi Caroli