(ASI) Camaiore . Al Teatro dell’Olivo per la ripresa de L’Avaro di Molière, incontriamo Alessandro Benvenuti per parlare della sua lunga carriera suddivisa tra cinema, televisione e teatro; del suo fruttuoso sodalizio artistico con il drammaturgo e regista Ugo Chiti e con Arca Azzurra Teatro; e dell’ultimo spettacolo, attualmente in tournée, impastato dello humour nero di Chiti ma lievitato dalla vitalità tragicomica di Benvenuti.
Com’è nata la collaborazione con l’Associazione Arca Azzurra Teatro e con Ugo Chiti?
Alessandro Benvenuti: «Ho visto nascere la Compagnia, ai tempi in cui fece un laboratorio con Ugo Chiti a Tavarnelle Val di Pesa. In quegli anni Ugo e io diventammo amici e mi piaceva seguirlo perché il suo lavoro sulla drammaturgia toscana era molto interessante, dato che tentava di far rinascere la nostra lingua. Nel mentre io, con i Giancattivi (trio comico composto anche da Athina Cenci e, nell’ultimo periodo, da Francesco Nuti, n.d.g.), lavoravo sulla nuova satira in quello che è oggi il Teatro di Rifredi, a Firenze. Di conseguenza, le attinenze tra le nostre ricerche sul linguaggio erano molto precise. In seguito, dopo due anni di tournée con Benvenuti in Casa Gori, che avevo fatto per un produttore fiorentino, decisi di proseguire, nelle successive Stagioni, con Arca Azzurra Teatro, contribuendo anch’io alla loro crescita a livello ministeriale. Negli anni successivi, però, ci siamo persi di vista e, solo nel 2000, ci siamo incontrati nuovamente quando abbiamo deciso di coprodurre, come Benvenuti S.r.l. e Arca Azzurra, Nero Cardinale. Un’esperienza meravigliosa, con un testo straordinario di Ugo Chiti, che avrei sempre voluto interpretare ma ho dovuto aspettare l’età giusta per farlo e, per fortuna, non avendo Chiti trovato altri, lo ha affidato a me (ride). Un progetto produttivo importante per il quale unimmo le nostre forze e risorse e che rimase in tournée per quattro anni. E infine, circa cinque anni fa, quando decisi di chiudere la mia Casa di produzione e dopo aver intrapreso strade diverse, sia al cinema sia in televisione, bussai nuovamente alla porta di Arca Azzurra, che mi fu - devo dire - prontamente aperta. L’Avaro è stato lo sbocco naturale di questo nostro sodalizio».
Quali ragioni l’hanno spinta a dedicarsi principalmente al teatro negli ultimi anni?
A. B.: «Ho sempre lavorato in teatro. Solo qualche anno fa ho vissuto un momento di grande stanchezza, derivata da un inverno oltremodo stressante, trascorso girando con ben dieci spettacoli, compreso Fahrenheit 451, diretto da Luca Ronconi. Terminati gli impegni, sentii la necessità di staccare, e per due anni mi dedicai alla musica, mettendo insieme due piccole band. Così mi rigenerai e, solo alla fine di quel periodo, decisi di tornare alla prosa».
Cinema. Televisione. Teatro. Qual è l’anima più autentica di Alessandro Benvenuti?
A. B.: «Io nasco in teatro e, come attore, credo di dare il meglio di me in questo ambiente. Soprattutto perché faccio le cose che sento e affronto le tematiche che mi interessano. Per me, recitare in Un comico fatto di sangue o Chi è di scena, è un’autentica goduria fisica e intellettuale. Per quanto riguarda la televisione, ho fatto delle cose interessanti quando ho avuto la libertà di seguire i miei interessi. Al contrario, ho chiuso con le regie di fiction quando mi sono accorto della miopia degli editor. Gente strana e infelice che, a sua volta, rende infelice gli altri, e in primis gli artisti, mettendo i bastoni tra le ruote ai progetti migliori, semplicemente perché detiene il potere di farlo. Altro discorso quando ho lavorato in Rai, dove ho sempre collaborato con persone intelligenti che mi hanno lasciato libero di esprimermi. Per quanto riguarda il cinema, penso sia il giocattolo più bello al mondo. E quando lavoro in un film, preferisco firmarne la regia, dato che è un viaggio incredibile dentro al senso delle cose. Mi spiego meglio: posizionare la macchina da presa non è un semplice atto fisico, bensì una scelta intellettuale. Non c’è niente di più gratificante che trovare l’angolazione giusta perché il pubblico veda e, di conseguenza, comprenda esattamente quello che si vuole comunicare».
Lei ricopre spesso il doppio ruolo di attore e regista. Come si sente a essere diretto da Ugo Chiti in questo Avaro?
A. B.: «Più di una volta sono stato diretto da altri. Come attore, ho sperimentato regie straordinarie. Fra tutte cito Davide Iodice, con il quale ho lavorato in Costruttori d’Imperi di Boris Vian. Ricordo l’esperienza come un viaggio affascinante nella mente del regista perché Iodice è un uomo di grande intelligenza, poesia e sensibilità. Mi ha letteralmente sedotto. Ho avuto dei rapporti più democratici quando sono stato diretto da Fortunato Cerlino in My aunt and me, al fianco di Barbara Valmorin - entrambi quarantenni della nouvelle vague napoletana. Anche Cerlino è persona di grande livello e davvero bravo, sebbene non affascinante quanto Iodice. Al contrario, a volte mi sono ritrovato in situazioni in cui ho dovuto difendermi dai registi. Con tutto il rispetto, Luca Ronconi, che è stato un eccezionale lettore e interprete dei testi, non sapeva dirigere. Ricordo che Mariangela Melato mi disse: “Si è bravi con Ronconi, quando si è già bravi”. La recitazione ronconiana è qualcosa che non ho mai sopportato. Indubbiamente Ronconi, a tavolino, apriva dei mondi e, quindi, chapeau; ma sulla scena, l’ho trovato veramente arido. Venendo a Ugo Chiti, premetto che lui, per me, è un maestro. Ma è anche un attore che non ha il coraggio di farlo, forse perché è un po’ timido e si vergogna (Benvenuti sorride amabilmente). Essendo, quindi, un attore, peraltro molto bravo, che non ha il coraggio di salire sul palco in prima persona, il suo tentativo è quello di esprimersi attraverso gli altri. E questa è una condizione non eccellente per un interprete come me. Alla base del nostro sposalizio un po’ complicato, c’è però un grande rispetto reciproco. Io ho le mie musicalità, pur riconoscendo che il suo è un disegno lucidissimo. Io rido, ci scherzo - se nel riportare le mie parole si potesse sentire la leggerezza del sorriso con il quale le pronuncio sarebbe importante... Il risultato finale è sempre eccellente, ma il percorso è di macerazione e d’angoscia terrificanti (e sorride di nuovo). Del resto, Ugo, come regista, non è uno che metta allegria! Con Ugo regista, devi difenderti da Ugo attore, che vorrebbe parlare con la tua bocca, ma dalla tua bocca esce la tua e non la sua voce. In breve, tormento ed estasi» (e la risata si fa contagiosa).
La comicità nera di Ugo Chiti, ancora poco frequentata in Italia, si sposa molto bene alle sue corde. Quali sono le vostre assonanze e dissonanze?
A. B.: «In questo genere di comicità siamo fratelli. Con un distinguo. Ugo è nero. Io sono bianco-nero. Nel senso che siamo una coppia vincente e non devo dirlo io, sono i fatti che parlano. Ma perché? Perché alla sua visione cupa della vita, si aggiunge quella leggerezza che mia madre, Graziella, mi ha infuso. Se Chiti dimostra una comicità irresistibile soprattutto quando descrive l’universo femminile, da parte mia regalo un tocco di free jazz. Al suo nero si sovrappone il mio biancore e il risultato è un’alchimia perfetta. Anche ne L’Avaro, si nota questa fusione. Ugo, il primo giorno delle prove a tavolino, vietò assolutamente il comico. Nel prosieguo, però, il personaggio di Arpagone rivelò la sua comicità e io, che da sempre lavoro su tutte le sfaccettature del comico, partendo dal dramma - dato che non esiste comicità senza un dramma alla base - aggiunsi il mio tocco lieve. Ecco perché il nostro connubio funziona. Pur rispettando tutto il suo nero, in quanto fondamentale, mi rifiuto di farlo diventare piombo fuso, stemperandolo con tonalità meno forti. Come, del resto, avviene nella vita».
In Italia si divide ancora il teatro in generi: quello alto, tragico; quello basso, comico. Come ovviare a questa dicotomia che, nella realtà, dovrebbe essere superata?
A. B.: «Per me esiste solo il teatro della morte o quello della vita. Il primo annoia mortalmente. Non credo nella divisione in generi. Faccio un esempio. Vengo dall’esperienza di Tutto Shakespeare in 90 minuti, una cavalcata cabarettistica nelle opere del Bardo, e da una commedia brillante come Odio Amleto, con Gabriel Garko, che tornava al teatro dopo anni di lontananza, avendo lui fatto un’esperienza con Luca Ronconi quando era molto giovane. Entrambi, ottimi spettacoli che hanno riscosso un grande successo. Per me, esiste la pochezza dei produttori e di certi attori che non capiscono che quello che conta è come si affronta il genere e non il genere in se stesso. Esistono tragedie tragiche e commedie ridicole. Quando si dovrebbe, al contrario, trovare una via di mezzo dettata dall’intelligenza e dalla professionalità. Bisogna essere seri quando si affronta questo mestiere, sia che si voglia far ridere o piangere. Mai prendere in giro il pubblico».
A quali spettacoli assiste Alessandro Benvenuti spettatore?
A. B.: «Vado a quanti più spettacoli possibili anche perché sono direttore artistico. Purtroppo, visti i ritmi del mio lavoro attorale, non ho la possibilità di vederne tanti, per cui spesso guardo degli spezzoni su YouTube, pur sapendo che è un succedaneo. Cerco di capire dove c’è la vita e dove la morte. Se tenti di trasmettere qualcosa, puoi star certo di arrivare allo spettatore. Ma se comunichi solo noia, inutilità, presunzione o narcisismo, metti la parola “fine” a questo mestiere. Io dico sempre ai miei attori che noi non saliamo sul palco per noi stessi, bensì per il pubblico. Dobbiamo essere in grado di far vivere agli spettatori un incanto e, perché ciò accada, non dobbiamo creare, dietro le quinte, un inferno sul modello Ronconi, bensì una situazione di armonia che permetta al pubblico di sentire il respiro dei fiori di primavera. Questo è il teatro che amo».
Ci sono tanti bravi attori giovani in teatro. Come mai il panorama cinematografico e, soprattutto, televisivo, langue?
A. B.: «Ci sono due nemici dei giovani di talento. Il primo è il produttore, il secondo è il regista. Io ho fatto il regista di fiction e devo dire che ho lavorato con una quantità di attori e attrici, da Alida Valli a Manuela Arcuri. Uno dei problemi è quello che i registi non “intonano”. Mi spiego meglio. In televisione, ogni attore riceve il proprio copione e si prepara da sé. Quando si arriva al ciak, se il regista non ha orecchio musicale e non capisce che non conta la faccia dell’attore, ma quello che dice; e se non ha il tempo per intonare i vari interpreti fra loro, perché il produttore non glielo concede, il risultato sarà disarmonico. Anche se un attore è bravo, preparato e fa a casa il lavoro sul personaggio ma poi, davanti alla telecamera, si confronta con un collega “stonato”, il risultato sarà mediocre».
I problemi del teatro italiano. Dalla difficoltà di affermazione delle Compagnie meno conosciute ai fondi pubblici che sembrano favorire il teatro commerciale piuttosto che la contemporaneità e la ricerca. Il suo parere?
A. B.: «Io dico sempre ai giovani: “Siete assolutamente sicuri che sia necessario per voi intraprendere questa carriera?”. Noi siamo un popolo che ha dato il meglio di sé molti secoli fa. Stiamo vivendo un declino che, per la storia, è una frazione di secondo; ma per noi è una caduta al rallenty. Nessun altro Paese può vantare un patrimonio culturale come quello italiano. Lo Stato Pontificio è ricchissimo perché sa sfruttare le opere che possiede, traendone guadagno. In Gran Bretagna è la stessa cosa. Vogliamo dire che abbiamo una classe politica che non si interessa del patrimonio culturale? Faccio un piccolo esempio personale. Io sono direttore artistico del Teatro Tor Bella Monaca, unico teatro di Roma che ha chiuso in attivo per due anni. Ebbene, per problemi burocratici, nel 2015, il teatro è stato chiuso e così è rimasto per quasi un anno. È stato fatto un nuovo Bando, lo abbiamo vinto, e a oggi possiamo dire di avere staccato 15.000 biglietti, proponendo ogni genere teatrale, dai nuovi linguaggi all’ospitalità di Compagnie nazionali. Esistono direttori artistici che vedono il teatro come la propria rocca, producendo quasi esclusivamente i propri lavori e promuovendo gli scambi. Io, al contrario, non scambio - perché il teatro non è una merce. E non pretendo riconoscenza, tanto meno forzata. In Italia ci si salva solo a livello individuale e, comunque, queste scelte non incidono sulle problematiche generali. Non è più il tempo di attendere risposte dal sistema».
Simona M. Frigerio – Agenzia Stampa Italia