MARTHA ARGERICH
Un paradigma musicale della storia dei suoni ospite della Associazione Amici della Musica di Perugia – Fondazione perugina Musica Classica.
Programma di sala
I° TEMPO
L. van Beethoven
Quartetto in fa minore op. 95, (trascrizione per orchestra di G. Mahaler).
D. Shostakovich
Concerto n.1 per pianoforte, tromba e orchestra d’archi op. 35
II° TEMPO
A . Dvorak
Serenata in mi M per orchestra d’archi op. 22.
BIS
Mozart, Allegro di molto, trascrizione.
(ASI) Gentili amici della rubrica “Le tastiere degli Amici della Musica” benvenuti ad un appuntamento certamente rilevante all’interno del calendario nazionale dei concerti di musica classica e colta, quello con la pianista Martha Argerich. Sgombriamo subito il campo da qualunque dubbio riportando un sunto di autorevoli pareri di sala ai quali io completamente mi associo: “La Argerich è la perfezione … inarrivabile. Non ci sono aggettivi per descriverne bravura e risultati. Dove arriva la Argerich, si pensi al concerto di Ravel e al lavoro svolto con Abbado, nessuno ci può più metter mano, poiché di meglio non si riuscirebbe a fare. Attraverso quei suoni sgranati, snocciolati, per esempio è il massimo del risultato che si possa ottenere per il concerto numero 1. di Shostakovich presentato durante questa serata”. Una “perla”, una “stella”, seppur breve, all’interno di un concerto tutto “moderno” e giovanile. Un “grande evento”. In questa occasione insieme alla Argerich impegnata nello Shostakovich hanno suonato un ottimo, precisissimo e “purissimo” trombettista, David Guerrier e la formazione giovanile di soli archi Verbier Festival Chamber Orchestra, diretta dall’espressivo direttore, dotato di piglio violinistico tanto quanto lo sono le sue origini musicali, Gabor Takacs-Nagy. Non sarà stato di certo basso il compenso che avrà percepito l’artista ma data la strabiliante risposta del pubblico, il livello artistico dell’interprete, la riuscita tecnica ed interpretativa del brano proposto, il lustro che certi nomi in cartellone forniscono, ritengo che l’Associazione ospitante abbia fatto la scelta giusta e come si suol dire abbia fatto veramente “centro” compiendo uno sforzo che ha prodotto un risultato altissimo in termini di piacere di ascolto e soddisfazione del pubblico. Il concerto, tenutosi giovedì 15 dicembre al Teatro Morlacchi di Perugia ha visto effettivamente una platea in delirio e che ha applaudito all’inverosimile. Fare paragoni non è mai corretto, ma da pianista mi duole ricordare il minore volume di plauso riscosso da Schiff, interprete che timbricamente e artisticamente non ha certo minor valore e che ha probabilmente pagato lo scotto di un programma impegnativo ed intellettualistico. C’è da chiedersi infatti se qualche volta non sia più il nome o l’entusiasmo del momento a dettare legge. Indiscutibili comunque sono stati i risultati pianistici ottenuti durante questa esibizione, da un paradigma del panismo mondiale che resterà nella “storia del suono”; cosa rimane del resto della musica se non la sola memoria dei timbri o l’eco mentale del suono puro? L’esecuzione è stata condotta da una Argherich che, anche a sua propria detta, si trovava in un particolare stato di grazia e vena artistica. È forse ciò oltre ad una tecnica splendida, paradigmatica (braccia ad angolo retto, una morbidezza assoluta che permette ribattutti velocissimi e a suono “uguale”, capacità di riposare la mano in nanosecondi, gestione della forza per non stancarsi mai, glissandi precisi, ecc.) e al dono del suono che il concerto ha stupito. Nello Shostakovich vari aspetti ci colpiscono, oltre alla componente pianistica, a cui comunque tutto strutturalmente ruota intorno, come il buon impasto sonoro che si concretizza tra solisti e orchestra, gli ottimi ingressi della tromba, lo slancio e la “liberazione” delle grandi spettacolari aperture armoniche, la completa assenza di stucchevolezze tanto a rischio in un brano dalla sensibilità neoromantica. Le sensazioni pianistiche che vanno da Rachmaninoff, a Chopin e Beethoven, emergono poi da un colloquio continuo, da un palese dialogo, tra i solisti e l’orchestra. Lo scopo del brano era quello di fornire la sensazione del “grottesco” ed è stata questa la chiave interpretativa assolutamente dominante in un opera dal taglio burlesco e comico, con una citazione ben palesata ad Hyden, autore ironico per eccellenza. Si è passato infatti con immediatezza da frasi struggenti, drammatiche, romantiche a quelle propriamente comiche, per giungere ad espressioni circensi, popolari e perfino militaresche. Quanto all’orchestra, questa, svela la sua maturità, più che nel Beethoven-Mahler del primo tempo, nell’unico brano del secondo. Grandi aperture armoniche e forte impronta neoromantica per tutto il corso del secondo tempo. Un pezzo ben fatto, ben presentato, giovanile per quanto giovani erano gli esecutori. Nell’organico spiccano i primi tre violini di fila. Simpatico e ammaliante per esempio il momento in cui il primo ed il secondo violino di fila letteralmente e spontaneamente amoreggiano musicalmente fino quasi a baciarsi. Belli i pizzicati dei violoncelli, verso la fine. Forse la formazione paga un eccessivo ricambio a scapito di una certa costanza e sintonia. Comunque nel complesso la padronanza esecutiva è buona. I suoni, a volte da grande orchestra, sono sicuramente dovuti anche al direttore che dimostra di avere un grande feeling con i propri esecutori. La partitura incontra evidentemente il carattere dei musicisti col risultato di un pubblico che apprezza moltissimo anche la esposizione della sola orchestra.
Giuseppe Marino Nardelli