(ASI) Si è tenuto domenica 23 novembre scorso al Teatro Morlacchi di Perugia uno dei Grandi Eventi della stagione degli Amici della Musica di Peruigia, con la Amsterdam Sinfonietta, il cui primo violino è il maestro Candida Thompson e Isabelle Faust come violino solista.
Per prima cosa i complimenti vanno alla organizzazione e al Direttore artistico che con un sapiente lavoro preparatorio ha confermato un intento importante: quello di traghettare giovani coscienti di ciò che ascoltano ai concerti di musica classica. Una politica questa molto nobile e utile; fosse anche per uno solo degli studenti che si possa appassionare a questo ambiente musicale. Consolida un pubblico giovanissimo il quale in questa occasione ha superato le cento unità. Mi esprimo quale uditore che all’età di 10 o 11 ani costringeva i genitori ad essere veicolato, non senza qualche difficoltà, ad ascoltare i concerti del pianista Maurizio Pollini o dello storico organista bachiano Daniel Chorzempa; di giovanissimi in quel momento eravamo ben pochi. Ottima anche la scelta, sapiente ed equilibrata di portare all’ascolto di un pubblico estremamente colto e formato, come è quello del capoluogo umbro, artisti internazionali importanti che trasmettono tecnica, professionalità ed anima senza essere ricorsi ad “impalcature” impegnative che si appigliano ai grandi “nomi comuni” della musica, quelli per non esperti e “gettonati” dalla pubblica opinione.
Quello di domenica è stato un programma difficile, impegnativo, estremamente colto e collegato, effettivamente per conoscitori della musica e che di immediato ha avuto solo il bis (la Rapsodia Ungherese n. 6 di Brhams). Tutto il concerto è stato trasferito al pubblico sapientemente, lasciando la netta impressione che, chi suonasse, non fosse una orchestra ma un unico grande esecutore. Il carattere distintivo e la impronta dei musicisti restava in ogni autore ma ogni autore era ben riconoscibile. Tra romanticismo e arcaismi il primo brano fa ben sentire lo spirito baracco reinterpretato dall’epoca romantica e quindi dalla modernità (Roberti Schumann, Fuga in si bemolle maggiore sul nume di Bach, op.60 n.6, trascrizione per orchestra d’archi di Paul Angerer). Nel brano, come sarà poi anche inseguito, molto bello l’abbraccio dei bassi e delle viole oltre alla citata compenetrazione tra gli strumentisti; ottimo l’incedere schumaniano ed una chiusura organistica o meglio bordonale. Il secondo brano (Karl Amadeus Hartmann - Monaco di Baviera 1905/1963 -, Concerto funebre per violino e orchestra -1939, rev. Del 1959), eseguito con la solita Isabelle Faust, incarna una musica psicanalitica, impegnativa, che vaga nei meandri dell’anima e che è tragica ed autobiografica. Il pezzo “come lascia intendere il titolo, Concerto funebre, iniziato nel luglio 1939, è un grido di dolore per l’imminente scoppio del Secondo Conflitto Mondiale, un’espressione accorata dell’emigrazione interiore di Hartmann”. Il compositore vive nella temperie del terzo Reich ed in totale isolamento e solitudine è unico a restare e comporre in Germania nel momento della massima espansione di Hitler. La violinista si distingue per dei flautati splendidi limpidi e eseguiti benissimo. Lei è una grande violinista di padronanza e slancio, difficilmente “criticabile”. Il brano è invece una partitura sul filo della corda che richiede grande concentrazione e lascia impronte nell’anima degli ascoltatori. Una musica che guarda a stili e sensazioni d’oltre oceano, specchio dei lontani anni Sessanta (frutto della revisione del ’59?) e che propone connotazioni di ciò che sarà attinto poi dalla musica cinematografica. Eccellente il rapporto solista orchestra. Tutti sentono la partitura molto univocamente. Il largo finale è struggente, una impalcatura di bellezza sentimentale e compositiva. Poi nel terzo brano si ritorna a Schumann (op. 131). Resta una ottima opinione della violinista, che è stata molto applaudita e che contribuisce anche grazie alla qualità degli strumenti di tutta l’orchestra sottostante a non fare emergere quello spiacevole suono strappato ed aspro che spesso caratterizza alcune formazioni da camera anche rilevanti. Si segnalano qui staccati ottimi, forte connotazione romantica nelle aperture armoniche ed esaltate reminiscenze dei concerti pianistici di Schumann. Si potrebbe anche osare un giudizio affermando che il brano meglio eseguito e più riuscito sia stato il Béla Bartok finale (ma potrebbe essere personale opinione), il Divertimento per orchestra d’archi del 1939. Eseguito benissimo, perfettamente. L’intensità e la concentrazione sono alte e non ci sono mai cadute ne stilistiche ne tecniche. L’ “unico musicista” raggiunge una Egregore. Pianissimi molto belli e al fondo delle corde, penetranti, il timbro di tutti gli strumenti colpisce e talvolta impressiona.
Giuseppe Marino Nardelli – Agenzia Stampa Italia