Commemorazione di Giovanni Gentile scritta da Carlo Alberto Biggini per l'Illustrazione Italiana del 30 aprile 1944 e rivisitata da Valentino Quintana il 15 aprile 2012, nell'anniversario del barbaro assassinio di un grande filosofo
(ASI) Quando la sera del 15 aprile mi fu data la dolorosissima notizia che Giovanni Gentile era stato proditoriamente ucciso, la prima parola che dissi, tutto preso da profonda angoscia, a chi stava lontano, dall'altra parte del telefono, fu: “non è possibile, non è vero”; ma il nemico aveva voluto commettere un'infamia senza nome, aveva voluto insozzarsi di uno dei più neri delitti che la storia ricordi. Il nemico non aveva esitato a dare l'ordine di uccidere anche questo italiano, consapevole della permanente grandezza della Nazione e risoluto fin dal primo giorno del tradimento a lavorare con tutte le sue forze fisiche e spirituali perché il popolo italiano si rialzasse in piedi e marciasse di nuovo verso il suo destino. E così le mani sacrileghe che hanno colpito a morte Giovanni Gentile hanno privato la Nazione di uno dei suoi cittadini più fedeli, la cultura italiana di un grande maestro, il mondo di un filosofo tra i più profondi.
Quanti pensieri, quanti ricordi desta la sua vita di filosofo, di educatore, di cittadino e di uomo politico! Ma non è certamente con questa breve rievocazione che può illustrarsi la sua grande e complessa personalità.
Tornava dal suo lavoro, nel seno della famiglia, quella famiglia che a lui, uomo di schietta tradizione italiana era, dopo la Patria e con la scuola, ciò che e gli aveva di più caro, nella cui cordiale intima semplicità tanti discepoli erano stati liberamente ammessi e che avevano amato e da cui erano stati rianimati. Padre nel senso più nobile ed umano, fu, come padre maestro; lo sanno quanti ebbero la fortuna di essergli stati scolari, che da lui non udirono mai parola che non fosse trepida di affetto, sia che li guidasse sicura per le vie del pensiero o che amorevolmente scevra li correggesse e sorreggesse ammonendo.
Il medesimo cuore egli ebbe come cittadino, scevro sempre d'ogni passione e fanatismo di parte, sollecito sempre del bene comune dell'Italia, di questa Italia che affermava costituire tutto il meglio di noi, fuori e contro della quale non v'è se non la tragica e sterile solitudine dei disperati. Ad ogni suo appello fu presente e diede sempre incondizionata la sua opera non sottraendosi a nessun dovere e a nessuna responsabilità. Nella guerra del '15 – '18, nella rinascita del '22, nella seconda guerra mondiale di cui egli comprese le ragioni ideali e la necessità storica oggi tacciata di damnatio memoriae. Rimane memorabile, nel momento più critico, quando le armate nemiche si apprestavano a salpare verso la sua bella Sicilia, il discorso del Campidoglio, inascoltato ammonimento ai traditori, e caldo appello alla resistenza nel grido di Bixio “qui si vince o si muore”. Oggi, con scritti e con discorsi che resteranno indelebili.
Mentre egli giaceva immoto e disfatti tra i funebri lumi della camera di palazzo Serristori, quella stessa sera usciva nella rivista “Civiltà Fascista” il suo ultimo articolo dal titolo “Il sofisma dei prudenti”. In esso fra l'altro si legge:
“C'è in cotesta prudenza qualche cosa che urta il sentimento morale, come universalmente questo opera nella coscienza e chiede a ciascuno imperiosamente l'adempimento di un dovere indeclinabile. E oscuramente si sente che questa prudenza si lascia sfuggire qualche elemento essenziale della realtà che presume di toglier a norma della volontà. Si è portati universalmente a sospettare che una tale prudenza può fare dei disertori che abbandonano il loro posto di combattimento, dei disertori che si mettono al di fuori e al di sopra della lotta per vedere come questa vada a finire; in quella comoda posizione che è propria degli spettatori del dramma della vita, in cui si combatte e si muore, e si conquista, col proprio sforzo e col sacrificio anche delle cose più care, il diritto di vivere. Dei disertori che sono egoisti per eccellenza: che vogliono sì i beni e le gioie della vita, ma, se questi beni e queste gioie si conquistano a prezzo di fatica e di dolore, preferiscono che questo prezzo sia pagato dagli altri. Egoisti, dunque, che sono ladri, i quali vogliono vivere di appropriazioni indebite”.
E poi, subito dopo:
“La società è quella che noi la facciamo: attori sempre e mai spettatori”.
Quando io, Carlo Alberto Biggini, Ministro dell'Educazione Nazionale, lo pregai a nome del Duce, di accettare la presidenza dell'Accademia d'Italia, non esitò un solo istante e ricordo che quando ebbe il suo primo incontro con il Duce dopo la sua liberazione, uscì dal colloquio con le lacrime agli occhi e profondamente commosso, mi disse: “O l'Italia si salva con Lui, oppure è perduta per qualche secolo”. E quanto profetico è stato, lo vediamo ancora oggi.
Ed ecco perché il 19 marzo nel suo discorso inaugurale dell'Accademia d'Italia in Firenze, disse che quando la voce di Mussolini a un tratto, e quasi per miracolo, fu riudita e riecheggiò, questa restituiva un Capo alla moltitudine dispersa e richiamava alla riscossa, alla vita, alla coscienza di sé. Ecco perché affermo, che con Mussolini era risorta l'Italia giovane, leale, generosa, ardita, fidente nelle proprie forze, ansiosa di giustizia per sé e per tutti e che la voce di Mussolini non si era spenta perché quella della Patria immortale di cui il corpo era distrutto ma sopravviveva l'anima per rifarlo e rifarlo poteva perché con Mussolini restava per l'Italia un'idea.
Ho parlato con Gentile infinite volte, l'ho ascoltato in congressi, in convegni, al Senato, in circostanze e momenti diversi, ho lavorato con lui in devota collaborazione da Rettore dell'Università di Pisa, mentre egli dirigeva quella celebre scuola normale superiore, da ministro l'ho visto appassionarsi a tutti i più grandi come a tutti i più piccoli problemi della scuola e della vita nazionale. Mai però mi apparve così compiutamente se stesso con il suo pensiero, con la sua forza morale, con il suo carattere, come quando pronunziò il discorso del 19 marzo 1944. Chi quel giorno l'ascoltò, nelle sue parole, nel suo pensiero vide espressa la Patria nei suoi più alti valori. Parlava un grande italiano. Parlava l'Italia che non era morta e non voleva morire!
E quando disse: “Oh per questa Italia noi ormai vecchi siamo vissuti, di essa abbiamo sempre parlato ai giovani accertandoli che essa ci è stata sempre nelle menti e nei cuori (e s'è immortale?); per essa, se occorre, vogliamo morire perché senza di essa non sapremmo che farci dei rottami del miserabile naufragio”. Quando disse queste parole intorno non vidi che persone che si asciugavano gli occhi.
Egli volle che la sua voce giungesse per mezzo della stampa a tutti gli italiani con appelli e richiami invitanti alla tolleranza, al compatimento, alla concordia e stimolanti alla decisione nel nome di questa Patria comune che ormai era il supremo e unico termine di ogni suo palpito e di ogni suo pensiero. Questa prontezza e risolutezza in ogni atto, questo appassionato senso della solidarietà altamente umano, questa fedeltà incapace di calcolo e dimentica di ogni rischio, questo coraggio che è suprema moralità, era in lui non solo il tratto più rappresentativo della sua personalità di uomo, ma l'espressione concreta della sua speculazione di filosofo. “Pensiero e azione”, il motto di Mazzini può essere posto ad epigrafe della sua opera. E un'altra parola bisogna aggiungere “amore” e tutte e tre intenderle come ricorrenti l'una nell'altra a formarne una sola. In esse è la conclusione ultima dell'idealismo che egli professò e chiamò attuale, di un idealismo che unendo cielo e terra nella qualità viva della coscienza, dà sì ad ogni istante la fiducia dell'eterno, ma lo impegna in pari tempo a una responsabilità che investe tutto l'uomo e fa della vita una missione alla quale non ci si può sottrarre senza estraniarsi da sé stessi e rinunziare non tanto di essere qualcosa di cui si possa morendo fare anche a meno, ma addirittura d'essere, responsabilità e missione verso un bene non vago che sia fuori da ogni limite di tempo e di spazio, sì d'un bene volta a volta determinato dal momento storico nel quale ciascuno ha forma ed al quale deve dare forma verso un bene che l'eredità di un istante di vita vissuta pone come inderogabile dovere nella circoscritta sfera della quale ciascuno fa parte e in seno alla quale soltanto l'azione è reale. Indi l'intima religiosità da cui ogni atto deve essere animato, la solidarietà completa a cui intelletto e cuore sono chiamati, la serietà con la quale ogni opera pur minima deve essere affrontata, la dedizione con la quale ogni opera pur minima de essere affrontata, la dedizione piena, nell'assoluta intelligenza dell'oggetto; dedizione e intelligenza in cui appunto consiste l'amore.
S'intende da tutto questo come l'espressione più alta del genio di Giovanni Gentile dovesse concretarsi in una nuova pedagogia e come la scuola dovesse essere il campo della sua maggiore attività. Nella storia dell'educazione egli segna una pietra miliare, e i principi da lui posti possono essere considerati come un acquisto definitivo del pensiero umano così come la riforma del 1923 è rimasta in vigore per ottant'anni.
In tutto ciò che egli presuppone nell'ambito particolarmente tecnico dei problemi dell'individualismo germanico e non in quanto questo sia stato uno dei sistemi escogitati dai filosofi che uno possa scegliere ad arbitrio secondo i suoi gusti ma in quanto esso era prima di lui l'ultimo momento veramente essenziale nello svolgimento di quel pensiero di cui la filosofia greca, il cristianesimo e il rinascimento italiano costituiscono le tappe secolari, egli rimane pur sempre il più fido interprete e continuatore della tradizione italiana, non solo dei filosofi specificamente tali, come Bruno, Campanella, Vico, Rosmini, Gioberti, Spaventa, ma dei mistici, dei poeti e dei politici nei quali il genio d'Italia ha trovato la sua più singolare espressione San Francesco, Dante, Machiavelli, Manzoni e Mazzini, pur considerando sempre Vico come il centro di tutto il pensiero italiano. Soprattutto di Manzoni e di Mazzini egli fu l'erede più diretto e per essi di quanto di più grande contrassegnò il nostro Risorgimento di cui solo i motivi ideali ma anche la profonda umanità che fu la maggiore gentilezza dell'animo, l'equanimità con cui trattò sempre i suoi avversari guardando in loro ai moventi più nobili e il cuore, che ebbe grande, un grande cuore italiano aperto a tutte le voci (ricordo, a titolo esemplificativo, la lettera all'antifascista Lazzeri, ndr), prodigo di simpatia, giovane sempre nella fiducia della propria forza e in questa animato sempre dalla speranza.
In un libro di cui stava correggendo le bozze e che doveva aspettare un po' per vedere ancora la luce, scritto a sollievo dell'animo, in giorni angosciosi per ogni italiano, e per adempiere ad un dovere civile, il lettore trovava l'eco di molte cose esposte in precedenti volumi, ma anche del nuovo che, come egli ha scritto in un'avvertenza, “non era stato mai detto né da me né da altri e non mi pare privo di importanza”. E difatti il libro riprendeva tutti i grandi problemi della sua filosofia: l'etica come legge, l'individuo, il carattere, la categoria etnica e l'esperienza, lo Stato in genere, lo Stato e la religione, lo Stato e la scienza, lo Stato e gli Stati, la storia, la politica, la società trascendentale o la morte e l'immortalità. Come Ministro l'ho letto in bozze in questi giorni. Esso non solo segna un approfondimento del suo precedente pensiero, già così coerente e organico, ma anche nuovi orientamenti, nuovi sviluppi intorno ai problemi che appassionano la coscienza umana. Appunto in questo suo libro acquista singolare definitivo valore il rapporto tra Nazione e Stato. La Nazione non è data dal suolo, né dalla vita comune e conseguente comunanza di tradizioni, di costumi, di linguaggio, religione, ecc. Tutto ciò è la materia della Nazione, la quale non sarà tale se non avrà la coscienza di questa materia e non l'assumerà nella sua essenza spirituale con il contenuto costitutivo e quindi non ne farà oggetto della propria volontà. La quale nella sua concreta attualità è lo Stato. E poco dopo, Gentile precisa: “Non è la nazionalità che crea lo Stato, ma lo Stato crea, suggella e fa essere la nazionalità e conquistando la propria indipendenza celebra la sua volontà politica realizzatrice dello Stato”.
Profondo l'abisso in cui la nostra Patria è stata travolta l'otto settembre 1943, ma egli non disperò. Nulla sentiva ch'è perduto se la volontà non si abbatte, se l'amore non inaridisce, tutto si può riconquistare se si riconquista la fiducia, se si riprende la via del dovere, tutto pur nella distruzione di tanti beni che ci sono cari se si riconquista quell'onore che altro non è se non il riconoscimento della fedeltà a noi stessi, quell'onore senza di cui non solo gli individui, ma i popoli vengono cancellati dalla storia.
La sua fedeltà egli l'ha consacrata col sangue: alla gloria delle opere ha aggiunto la palma del martirio gappista. L'Italia immortale da lui invocata e fatta presente a tutti i cuori nelle ore della prova e della tribolazione, lo accoglie nel cielo degli eroi, il Fascismo che egli intese nel suo spirito più profondo e amò nella persona del suo creatore facendo fino all'ultimo momento professione aperta della sua fede, lo iscrive fra i suoi martiri. Alla sua vita e al suo pensiero si ispirino in quest'ora tutti gli italiani e in modo particolare gli educatori e i giovani ai quali chiediamo fede e volontà di agire di creare, in ogni momento ed in ogni epoca.
Più tardi, anche coloro che oggi non sentono, sentiranno che il soffio vivificatore dello spirito non ha cessato di avvolgere e animare la Patria. Più tardi anche coloro che oggi non vedono e non credono che la Nazione possa e debba rivivere una nuova vita trasfigurata, vedranno e crederanno ai propri occhi. Nel 1944 come nel 2012.
Carlo Alberto Biggini, Ministro dell'Educazione Nazionale della Repubblica Sociale Iitaliana
Valentino Quintana, nell'anniversario dell'uccisione di Giovanni Gentile per Agenzia Stampa Italia