(ASI) «La posizione geografica dell’Afghanistan e la particolare natura del suo popolo conferiscono al paese una rilevanza politica che, nell’ambito degli affari dell’Asia centrale, non sarà mai troppo sottolineata». A scrivere queste parole fu Friedrich Engels nel 1857, all’interno di un breve saggio destinato alla nuova enciclopedia universale americana, compilata e pubblicata da D. Appleton & Company durante gli anni della guerra civile.
Osservando le dinamiche e gli esiti della prima Guerra Anglo-Afghana (1839-1842), il filosofo tedesco aggiungeva che gli afghani «sono coraggiosi, intrepidi e indipendenti», addirittura un popolo al quale «soltanto un odio irriducibile per l’autorità e l’amore per l’indipendenza individuale impediscono […] di diventare una nazione potente».
Una nazione forse incapace di coesione, come sosteneva Engels, ma sicuramente complessa, variegata ed eterogenea, aggiungiamo noi, come quasi ovunque in Asia, dove l'idea di Stato nazionale, figlia della modernità europea, non è mai arrivata se non attraverso profonde revisioni. Sebbene le stime demografiche ufficiali debbano essere annotate con le dovute riserve in un Paese ininterrottamente in guerra dal 1979, ancora oggi il gruppo etnico maggioritario in Afghanistan, quello dei Pashtun, raggiungerebbe il 42% del totale, seguito da Tagiki (29%), Hazara (9%), Uzbeki (8%) ed altre minoranze.
La collocazione nel cuore dell'Asia, in uno dei più importanti crocevia dell'antica Via della Seta, ha fatto dei suoi territori un costante obiettivo di conquista per le più grandi dominazioni straniere degli ultimi mille anni: quella mongola, quando buona parte dell'odierno Afghanistan era compresa nell'Ilkhanato mediorientale mentre Kabul, Jalalabad, l'area del Wakhan ed altre regioni nordorientali erano sotto il comando del Khanato Chagataj, che includeva gran parte dell'Asia Centrale e dello Xinjiang; quella timuride, quando Tamerlano conquistò tutto il territorio afghano ed i suoi discendenti fecero di Herāt uno dei principali centri letterari, artistici e culturali del Rinascimento islamico, assieme a Samarcanda; infine, quella baburide, quando l'Afghanistan fu invece assoggettato alla Dinastia Moghul, di origine turco-mongola e cultura persiana, sorta dalle conquiste militari di un diretto discendente di Tamerlano, Babur che, incalzato dai guerrieri nomadi uzbeki, lasciò la natia Valle del Fergana per conquistare nuovi territori, spingendosi sino al Sultanato di Delhi ed unificando l'intero subcontinente indiano.
L'Afghanistan poté cominciare a formarsi come un'entità statuale indipendente soltanto con l'ascesa del condottiero afsharide Ahmad Shāh Abdālī, capostipite della Dinastia Durrani, un impero più ristretto sorto intorno alla metà del XVIII secolo con capitale Kandahar, dove duemila anni prima Alessandro Magno aveva fondato uno dei più importanti centri del Regno Greco-Battriano, cioè Alessandria in Aracosia.
Nel XIX secolo, quando l'Impero Durrani, sempre più indebolito, fu progressivamente sopraffatto dall'Emirato, il corso meridionale del fiume Amu Darya e il corridoio del Wakhan, un'impervia lingua di territorio circondata dalle maestose vette del Pamir a nord e del Karakorum a sud, furono individuati dai colonizzatori come linea di confine tra la sfera d'influenza britannica e quella russa nel quadro del Grande Gioco, una serrata competizione che vedeva Londra e San Pietroburgo contendersi territori, risorse e rotte commerciali in Asia.
Una sfida che in tempi molto più recenti avrebbe coinvolto prima Mosca, erede della potenza zarista, e poi Washington, erede della potenza britannica, nuovamente intrappolate nelle strettoie di un Paese già da tempo destabilizzato dall'odio politico e dalla violenza settaria, dopo la breve ma intensa stagione riformista inaugurata nel 1919 da Amānullāh Khān, ritenuto con buona ragione l'Atatürk afghano.
Il libro Afghanistan. Storia, geopolitica, patrimonio, ultima fatica dell'archeologa Maria Morigi, appena uscito per i tipi di Anteo Edizioni, si inserisce in un momento storico di sostanziale disinteresse editoriale per l'argomento in Occidente, dopo un primo decennio di ebbrezza narrativa, a seguito dagli scioccanti attentati dell'Undici Settembre, riconducibili alla rete terroristica di al-Qaeda e al regime talebano che ne proteggeva e sosteneva la leadership. Eppure, malgrado la fine della missione ISAF, sostituita sei anni fa dalla più "leggera" Resolute Support, l'Afghanistan è ancora teatro di numerosi attentati terroristici ed obiettivo di massicce operazioni militari da parte del Pentagono, ben documentate dall'autrice.
Impreziosito dalla prefazione dell'Ambasciatore Angelo Travaglini, il testo della Morigi è suddiviso in due parti: la prima presenta, pur senza rinunciare allo spirito critico soggettivo, un preciso quadro socio-culturale ed un'attenta ricostruzione storico-politica del Paese dall'era Durrani sino agli Accordi di Doha tra Stati Uniti e talebani; la seconda, quella indubbiamente più tecnica, torna indietro di tremila anni per concentrarsi sull'inestimabile patrimonio culturale, artistico e monumentale dell'Afghanistan, con particolare attenzione all'era greco-battriana e all'affascinante arte greco-buddhista del Gandhāra, sino all'era islamica.
La ricercatrice ci guida così nell'odierno circuito museale del Paese, documentando tutto ciò che è stato preservato, recuperato o restaurato ma anche soffermandosi su quanto è stato trafugato o distrutto dal fanatismo, dalla guerra o semplicemente dall'incuria.
Nessuno più di un'archeologa esperta e navigata come l'autrice potrebbe illustrare meglio la complessità e la ricchezza dell'Afghanistan, lasciando alla nostra generazione - cresciuta davanti alle drammatiche dirette televisive di troppi bombardamenti in nome della democrazia e della libertà - la speranza che un teatro di guerra permanente possa trasformarsi in un'oasi di pace, dando ai giovani l'opportunità di dedicarsi non più ai conflitti ma all'impresa, al commercio, al turismo, alla cultura e alla scienza.
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia