Al via il restauro della Pietà di Michelangelo dell’Opera del Duomo a Firenze. Si tratterà di un restauro visibile al pubblico

pietamichelangeloIl restauro commissionato dall’Opera di Santa Maria del Fiore è finanziato da Friends of Florence

 La storia della Pietà degna di un romanzo:

Michelangelo non finirà l’opera e in un momento di sconforto tenterà di distruggerla

(ASI) Firenze. La Pietà di Michelangelo dell’Opera del Duomo a Firenze o Pietà Bandini sarà sottoposta a un restauro che avrà inizio il 23 novembre 2019 e terminerà entro l’estate del 2020. Il pubblico potrà vedere tutte le fasi del restauro grazie ad un cantiere “aperto”, progettato appositamente, nel Museo dell’Opera del Duomo dove il gruppo scultoreo è conservato.

L’intervento commissionato dall’Opera di Santa Maria del Fiore, finanziato dalla Fondazione Friends of Florence sotto la tutela della Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Firenze e le province di Pistoia e Prato, è stato affidato a Paola Rosa, coadiuvata da un’equipe di professionisti, che dopo la formazione all’Opificio delle Pietre Dure ha maturato una trentennale esperienza su opere di grandi artisti del passato tra cui Michelangelo stesso.

Scolpita in un enorme blocco di marmo bianco di Carrara, tra il 1547 e il 1555 circa, quando Michelangelo era alla soglia di suoi 80 anni, la Pietà dell’Opera del Duomo a Firenze, carica di vissuto e sofferenza, è una delle tre realizzate dal grande artista. A differenza delle altre due - quella giovanile vaticana e la successiva Rondanini - il corpo del Cristo è sorretto non solo da Maria ma anche da Maddalena e dall’anziano Nicodemo, a cui Michelangelo ha dato il proprio volto. Particolare confermato anche dai due biografi coevi all’artista, Giorgio Vasari e Ascanio Condivi, grazie a cui sappiamo che la scultura era destinata a un altare di una chiesa romana, ai cui piedi l’artista avrebbe voluto essere sepolto. La Pietà di Firenze, capolavoro di Michelangelo “è considerata come altre sculture del Buonarroti - afferma Timothy Verdon, direttore del Museo - opera non finita, anche se la dizione che più le competerebbe è quella del XVI secolo quando si diceva ancora opera infinita”.

Si tratterà di un restauro che sarà rispettoso della visione oramai consolidata di una superficie visibilmente “ambrata” della Pietà e rispettoso delle patine che nel tempo con il loro naturale processo d’invecchiamento hanno trasformato la cromia originaria del marmo. Il restauro, la cui fase iniziale riguarderà un’ampia campagna diagnostica, ha lo scopo di migliorare la lettura dell’opera che risulta mortificata dalla presenza di depositi e sostanze estranee alle superfici marmoree del gruppo scultoreo.

Le fonti non riportano particolari interventi di restauro avvenuti in passato, se non quello eseguito poco dopo la sua realizzazione da Tiberio Calcagni, scultore fiorentino vicino a Michelangelo, entro il 1565. Nell’arco di oltre 470 anni di vita, durante i numerosi passaggi di proprietà e le traumatiche vicende storiche, è presumibile che la Pietà sia stata sottoposta a vari interventi di manutenzione che però non risultano documentati perché considerati semplici operazioni di routine. Risulta, invece, documentato il calco eseguito nel 1882, di cui rimane la copia di gesso conservata alla Gipsoteca del Liceo Artistico di Porta Romana a Firenze. Probabilmente è proprio in conseguenza di questo intervento ottocentesco che la superficie del gruppo scultoreo si è modificata cromaticamente, soprattutto a causa dell’alterazione delle

sostanze utilizzate per l’esecuzione del calco, ma anche di quelle più aggressive impiegate per rimuoverne i residui. Si ha notizia di un trasferimento dell’opera alla Galleria dell’Accademia, dal 1946 al 1949, per studiare una collocazione migliore e in quell’occasione sembra che l’opera sia stata sottoposta a una “pulitura” di cui però non si conoscono i particolari.

L’attuale intervento si avvarrà anche dei risultati delle indagini diagnostiche e gammagrafiche, eseguite rispettivamente dall’Opificio delle Pietre Dure e dall’ENEA nella campagna di studio svolta alla fine degli anni ‘90 e pubblicate nel 2006 nel volume “La Pietà di Michelangelo a Firenze” a cura di Jack Wasserman.

La storia della Pietà dell’Opera del Duomo di Firenze o Pietà Bandini è degna di un romanzo. Michelangelo non solo non la termina, ma tenta di distruggerla in un momento di sconforto. L’opera danneggiata è da lui donata al suo servitore Antonio da Casteldurante che, dopo averla fatta restaurare da Tiberio Calcagni, la vende al banchiere Francesco Bandini per 200 scudi, il quale la colloca nel giardino della sua villa romana a Montecavallo. Nel 1649, gli eredi Bandini la vendono al cardinale Luigi Capponi che la porterà nel suo palazzo a Montecitorio a Roma e quattro anni dopo nel Palazzo Rusticucci Accoramboni. Il 25 luglio 1671, il pronipote del cardinale Capponi, Piero, la vende a Cosimo III de Medici, Granduca di Toscana, su mediazione di Paolo Falconieri, gentiluomo alla corte fiorentina. Dopo tre anni di ulteriore permanenza a Roma, per le difficoltà incontrate nel trasportarla, nel 1674 la Pietà viene imbarcata a Civitavecchia, raggiunge Livorno, e da lì, lungo l’Arno, arriva a Firenze dove viene posta nei sotterranei della Basilica di San Lorenzo. Vi rimarrà fino al 1722, quando Cosimo III la farà sistemare sul retro dell’altare maggiore della Cattedrale di Santa Maria del Fiore. Nel 1933, il gruppo scultoreo viene spostato nella Cappella di Sant’Andrea per renderla più visibile. Dal 1942 al 1945, per proteggerla dalla guerra, la Pietà è messa al riparo in rifugi appositamente allestiti in Duomo. Nel 1949, l’opera ritorna nella Cappella di Sant’Andrea in Cattedrale, dove rimarrà fino al 1981, quando verrà spostata nel Museo dell’Opera del Duomo. La decisione di trasferirla al Museo è motivata dalla necessità di non arrecare disturbo al culto per la grande affluenza di turisti e per ragioni di sicurezza (nel 1972 era stata vandalizzata la Pietà vaticana). Dalla fine del 2015, nel nuovo Museo dell’Opera del Duomo, la Pietà viene posta al centro della sala intitolata Tribuna di Michelangelo, su un basamento che rievoca l’altare a cui era probabilmente destinata.

 

“Le opere del nuovo Museo sono state oggetto di una vasta campagna di restauro realizzata in occasione dell’apertura al pubblico alla fine del 2015 - dichiara il Presidente dell’Opera di Santa Maria del Fiore, Luca Bagnoli - mentre la Pietà di Michelangelo, capolavoro tra i più iconici della collezione, rimaneva ancora da restaurare. L’Opera ha deciso di avviare anche questo delicato intervento, con il supporto della Fondazione Friends of Florence, per migliorare la lettura del gruppo scultoreo e così permettere alle migliaia di visitatori, che ogni anno scelgono i nostri monumenti, di poter godere al meglio anche di questo straordinario capolavoro”.

“Da quando con Friends of Florence abbiamo iniziato il percorso per la salvaguardia del patrimonio di Firenze, definito da tutti patrimonio dell’umanità - afferma la Presidente della Fondazione Friends of Florence, Simonetta Brandolini D’Adda - abbiamo sempre avuto una particolare attenzione per il restauro delle opere di Michelangelo: dal David, ai Prigioni, dai disegni dell’artista, al Dio Fluviale fino al riposizionamento del Cristo ligneo di Michelangelo al centro della Sagrestia di Santo Spirito.  Stiamo per iniziare adesso un progetto affascinante che ci porta a restaurare, a fianco dell’Opera di Santa Maria del Fiore, la Pietà Bandini, un vero capolavoro che rispecchia l'anima tormentata del grande genio michelangiolesco”. 

MUSEO DELL’OPERA DEL DUOMO

Aperto tutti i giorni dalle ore 9.00 alle 19.30. Chiusura il primo martedì del mese.

Biglietto di ingresso unico per tutti i monumenti, costo euro 18.00. Ridotti di varie tipologie.

www.operaduomo.firenze.it

 

Video Allestimento Cantiere Pietà di Michelantelo


Restauro La Pietà di Michelangelo

 
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TIMELINE
PIETA’ DI MICHELANGELO DELL’OPERA DEL DUOMO O PIETA’ BANDINI

1547/1555 ca.
Michelangelo, residente a Roma, scolpisce la Pietà in un unico grande blocco di marmo bianco di Carrara.
Il gruppo è composto dalle figure della Vergine e di Maria Maddalena, che ricevono il corpo di Cristo, deposto dalla croce da un anziano incappucciato identificabile con Nicodemo, nel cui volto Michelangelo si sarebbe autoritratto.
L’artista infatti è in età avanzata e pensa di destinare quest’opera all’altare vicino il quale vuole essere sepolto.

1560/1649
La Pietà, ancora incompiuta, è abbandonata e danneggiata dallo stesso Michelangelo e viene da lui regalata al suo servitore Antonio da Casteldurante. Questi, dopo averla fatta restaurare da Tiberio Calcagni, scultore fiorentino vicino a Michelangelo, la vende al banchiere Francesco Bandini per 200 scudi.
L’opera viene da questi collocata nel giardino della sua villa romana di Montecavallo.

1649/1650
Nel 1649 la Pietà viene venduta dai Bandini insieme alla proprietà di Montecavallo al cardinale Luigi Capponi e portata nel suo palazzo a Montecitorio a Roma.

1653/1671
Il cardinale trasferisce la Pietà nel Palazzo Rusticucci Accoramboni a Roma e il 25 luglio 1671 Piero Capponi, suo pronipote, la vende a Cosimo III dè Medici granduca di Toscana per 300 scudi, su mediazione di Paolo Falconieri, gentiluomo alla corte fiorentina.

1674/1722
Dopo tre anni di ulteriore permanenza a Roma per le difficoltà incontrate nel trasportarla, la Pietà viene imbarcata a Civitavecchia, raggiunge Livorno e poi, lungo l’Arno, arriva a Firenze. Benché il Falconieri suggerisca di collocarla nella Sagrestia Nuova di San Lorenzo la Pietà viene portata nei sotterranei di quella basilica.

1722/1933
Cosimo III fa posizionare la Pietà sul retro dell’altare maggiore di Santa Maria del Fiore, al posto delle statue di Adamo ed Eva di Baccio Bandinelli.
L’opera viene collocata su una base marmorea, opera di Giovan Battista Foggini, sulla quale viene riportata un’iscrizione composta da Filippo Buonarroti, discendente di Michelangelo.

 

 

1933/1942
La Pietà viene spostata nella Cappella di Sant’Andrea, nel Duomo fiorentino, dov’è più visibile, perché meglio esposta alla luce.

1942/1945
Per proteggerla dalle offese belliche la Pietà viene messa al riparo in Duomo.

1946/1949
Il 22 maggio del 1946 la Pietà viene portata alla Galleria dell’Accademia per studiarne una collocazione migliore e nell’occasione viene ripulitura.

1949/1980
La Pietà ritorna in Santa Maria del Fiore, nella Cappella di Sant’Andrea, sopra un basamento annesso all’altare.

1980/1981
La Pietà viene esposta nella Chiesa di Santo Stefano al Ponte in occasione della mostra “Firenze e la Toscana dei Medici nell’Europa del Cinquecento”. Il trasferimento in mostra, nonostante i rischi di trasporto, è dettato dall’esigenza di non sottrarla al pubblico nel periodo dei lavori di restauro nel presbiterio di Santa Maria del Fiore.

1981/2013
La Pietà viene collocata nel Museo dell’Opera del Duomo in una sala al mezzanino.
La decisione di trasferirla dalla Cattedrale al Museo è motivata dalla necessità di ovviare al disturbo arrecato al culto dalla grande affluenza di turisti, nonché da ragioni di sicurezza (nel 1972 era stata vandalizzata la Pietà “vaticana”).

2015
Nell’allestimento del nuovo Museo dell’Opera del Duomo, la Pietà viene posta al centro della sala intitolata “Tribuna di Michelangelo”, su un basamento che rievoca l’altare a cui era probabilmente destinata.

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PERCORSO DI OSSERVAZIONE PER LA CONOSCENZA CONSERVATIVA E PRINCIPI GENERALI DELL’INTERVENTO
A cura di Paola Rosa, restauratrice

Scolpita in un enorme blocco di marmo bianco di Carrara, la Pietà Bandini mostra tutti i segni, le cicatrici, i depositi e le patine acquisite artificialmente e naturalmente nell’arco dei suoi quasi quattrocentosettanta anni di vita. Gli eventi traumatici avvenuti al momento della sua realizzazione, le vicende collezionistiche legate ai vari passaggi di proprietà e le numerose movimentazioni che ha affrontato, ne hanno inevitabilmente segnato e compromesso la facies originaria. Le fonti non riportano particolari interventi di restauro avvenuti in passato sul gruppo scultoreo, se non quello eseguito poco dopo la sua realizzazione da Tiberio Calcagni entro il 1565. Anche la descrizione di alcuni “pezzetti staccati”, accennata nel contratto di acquisto dell’opera da parte di Cosimo III nel 1671, potrebbe far pensare ad un secondo intervento che, tuttavia, non ha un riscontro documentario. Le esaustive indagini diagnostiche e gammagrafiche, eseguite rispettivamente dall’Opificio delle Pietre Dure e dall’ENEA nella campagna di studio svolta alla fine degli anni ‘90 e pubblicate nel 2006 nel volume “ La Pietà di Michelangelo a Firenze” a cura di Jack Wasserman, hanno individuato l’utilizzo di vari tipi di stucco e tre diversi sistemi di collegamento dei perni tra le parti integrate e ricomposte, che potrebbero avvalorare la pratica di interventi eseguiti con tempi e modalità diversi. L’intervento di restauro offrirà nuovamente un’altra importante opportunità conoscitiva. Si potrà confermare o proporre una più ampia lettura dei prodotti di alterazione e delle patine presenti sulle superfici, con ulteriori risultati oltre a quelli già conseguiti nelle precedenti indagini.
Senza entrare, in questa fase progettuale, nel merito delle ipotesi che riguardano la paternità dei vari frammenti presenti sul gruppo scultoreo, ma facendo tesoro dei dati conoscitivi già acquisiti in passato, è ragionevole soffermarsi ad osservare e valutare, attraverso un attento esame autoptico, l’aspetto delle superfici e quello che ci possono raccontare.
I risultati delle indagini insieme a tutti i dati raccolti con l’osservazione puntuale delle problematiche, legati sia alle condizioni conservative che alle caratteristiche di lavorazione dell’opera, saranno significativi per l’individuazione della specifica metodologia di intervento.
L’approccio all’opera sarà quello di un intervento “minimo”, volto a non stravolgere la visione ormai consolidata nell’immaginario collettivo di una superficie “ambrata”. Infatti, l’immagine che si deve comunque mantenere è quella di un gruppo scultoreo non in “bianco e nero” ma sottilmente modulato e “colorato” dal variare della “pelle” della materia e dalle tracce di lavorazione, probabilmente già patinate in origine allo scopo di raggiungere effetti armoniosamente differenziati.
Con questo intervento si vuole anche recuperare la maestosa tridimensionalità dell’opera, attualmente mortificata dalle scure patine sovrammesse, e che invece è stata valorizzata nell’allestimento museale che invita il visitatore a girarle intorno.
Il criterio su cui si intende basare l’intervento di restauro è quello di rimuovere tutte le sostanze sovrapposte che interferiscono nella lettura della superficie, per spessore o per squilibrio cromatico, alleggerendo senza però eliminare del tutto le patine e le patinature con cui l’opera è arrivata a noi. Alcune patologie superficiali, che una volta venivano percepite come degradazioni e quindi totalmente rimosse dalle superfici, sono oggi ritenute alterazioni storiche dei materiali e non essendo dannose sono diventate parte integrante per la lettura dell’ opera. Quindi, alla luce di questa considerazione, quelle che potrebbero essere identificate come pellicole ad ossalato di calcio, per quanto possibile, devono essere rispettate e alleggerite con cautela.
La Pietà, ormai da tempo accolta in ambiente museale, è ammirata da centinaia di migliaia di visitatori che ogni anno sostano davanti a lei divenendo così il principale fattore di degrado. Infatti, transitando in flussi massicci, le persone portano con sè notevoli quantità di polvere, di particellato atmosferico, di laniccio e, quando piove, di umidità.
L’accumulo di questo particellato, che contiene anche piccole e dannose quantità di gesso si deposita in maniera differenziata in rapporto alle superfici, alla loro inclinazione e tecnica di lavorazione. La scultura, attualmente oggetto di una frequente spolveratura, non presenta vistosi ed antiestetici depositi di polvere incoerente ma, soprattutto sulla base e sulla parte tergale, mostra una cromia grigiastra dovuta alla polvere infiltratasi nella porosità del marmo e nelle sottili scagliature createsi con la lavorazione, macchiandole in profondità.
L’immagine che percepisce l’occhio guardando l’opera è quella di un manufatto coperto ed offuscato da un sottile film disomogeneo, dovuto soprattutto alla presenza di prodotti di alterazione di varia natura, che contribuiscono ad annullare la corretta lettura dell’opera.
Questo evidente squilibrio cromatico, con ogni probabilità, è la conseguenza dell’ossidazione di cere o sostanze di natura proteica ed oleosa, applicate intenzionalmente sia al momento dell’esecuzione delle integrazioni con l’intento di uniformare la cromia delle superfici, sia durante l’esecuzione di calchi o probabili manutenzioni passate, di cui però non si hanno documentazioni. Nel tempo, queste sostanze che erano inizialmente trasparenti, modificandosi a causa del loro naturale processo d’invecchiamento, hanno cambiato notevolmente l’aspetto originario del marmo, conferendogli la vistosa colorazione di tonalità ambrata che noi oggi vediamo. La formazione di pellicole ad ossalato di calcio, probabilmente presenti su parte della superficie marmorea al di sotto della patina più superficiale, ha trasformato la cromia delle superfici originarie, assumendo una tonalità più intensa e scura sui rilievi soggetti al deposito della polvere, ed una più chiara e luminosa nei solchi più profondi degli strumenti di lavorazione e sulle zone più lucide e levigate. L’impatto visivo quindi è quello di un chiaroscuro delle superfici offuscato e mortificato, forse diverso da quello pensato o voluto da Michelangelo ab origine. La ricerca ed il carattere pittorico che Michelangelo imprimeva alle sue opere, attraverso un magistrale uso degli strumenti di lavorazione nelle zone a “non–finito” e di lucidatura nelle zone portate a finitura, permettendo al marmo di assorbire e di riflettere la luce in modo differenziato, sono stati annullati dalle sostanze e dai depositi che nel tempo si sono sovrammessi sulla superficie. Oltre all’evidente colorazione ambrata, la superficie mostra schizzi, residui di inerti di varia natura e leggere incrostazioni sul bordo della base che con ogni probabilità sono i sedimenti del blocco originario di marmo lungo le facce della rottura e della lavorazione in cava. La staffa metallica visibile sulla base è stata sicuramente inserita in tempi remoti, sia perché ha un impatto invasivo sulla scultura, sia perché è presente anche nella copia realizzata in gesso nel 1882 e conservata all’Istituto d’Arte di Porta Romana di Firenze
L’esecuzione del calco, da cui è tratta la copia sopracitata, sicuramente eseguito direttamente sull’originale, potrebbe aver lasciato sulla superficie del gruppo marmoreo tracce, graffi, residui di gesso, sostanze oleose e proteiche come la colla animale, che attualmente, non sono visibili ad occhio nudo, ma che sono state in parte rintracciate nelle analisi eseguite alla fine degli anni ’90. In genere, al di sotto delle patine superficiali, queste sostanze lasciano macchie ed aloni irreversibili. L’operazione di calcatura, con ogni probabilità ha imposto la necessità di eseguire una pulitura prima ed una patinatura successiva che, con il tempo, si è nuovamente alterata. Anche il calco esposto all’Istituto d’Arte mostra una colorazione giallo-scura, molto simile a quella che ritroviamo sulla superfice marmorea. Ciò fa supporre che il calco, al momento della sua realizzazione, sia stato patinato per renderlo il più somigliante possibile all’originale.
L’esecuzione di una pulitura è citata ma non descritta in un articolo del 1982 (Settesoldi), a proposito dell’esposizione della Pietà alla mostra allestita a Santo Stefano al Ponte nel 1980 per le Mostre Medicee. In quest’occasione, l’opera dopo la pulitura potrebbe aver ricevuto un’altra patinatura per riequilibrare le differenze cromatiche affiorate su alcune zone della superficie.
La permanenza della Pietà, per quasi un centinaio di anni, sotto una loggia nel giardino della proprietà Bandini a Roma, potrebbe aver influito sul suo stato conservativo. Anche se protetta, si può ipotizzare che la scultura abbia risentito delle variazioni climatiche e dell’azione degli agenti atmosferici con la conseguente formazione di patine biologiche su parti più esposte della sua superfice. Allo stato attuale, non è possibile verificare tracce di eventuali fenomeni di attacchi biologici pregressi, a causa della presenza diffusa delle patine e dei depositi già ampiamente descritti.
Nell’arco della sua esistenza, durante i numerosi passaggi di proprietà, dalle prestigiose dimore private fino all’ultima collocazione nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore e poi nel Museo, è ipotizzabile che la Pietà abbia comunque ricevuto vari interventi di manutenzione, anche se l’attuale ricerca documentaria non ne riporta traccia.

 

 

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