(ASI) Genova. Storico della filosofia, filosofo e filologo, a Giorgio Colli si deve anche la prima edizione critica italiana dell’opera omnia di Friedrich Nietzsche (coadiuvato dall’allievo Mazzino Montinari), in grado di rivalutarne la figura, sdoganandola da interpretazioni filo/pre-naziste per restituirla a quella “scuola del sospetto”, che potrebbe avvicinarlo a Freud e persino a Marx.
A cento anni dalla sua nascita, Teatro Akropolis organizza - con Palazzo Ducale-Fondazione per la Cultura, il Centro Studi Alessandro Fersen e la famiglia Colli - un Convegno in due giornate per riscoprire la figura del pensatore nato a Torino, e docente di Storia della filosofia antica all’Università di Pisa.
Dopo una prima giornata, il 13 aprile, in cui si è approfondito soprattutto l’apporto come filologico e storico di Giorgio Colli nei confronti della cultura italiana, con interventi - tra gli altri, di Massimo Cacciari e Carlo Sini - venerdì 14 aprile si è voluto dare maggior spazio all’apporto delle teorie nietzschiane sul teatro, analizzate e studiate con amore da Colli per un’intera vita.
Non si vuole ammorbare il lettore con disquisizioni forbite e per addetti ai lavori. Si vuole semplicemente capire cosa significhi, oggi, ritrovarsi a Palazzo Ducale (dove si è registrato un afflusso importante di spettatori in entrambe le giornate) per parlare dell’attualità di un filosofo tedesco morto nel 1900, e delle ricerche filologiche e le interpretazioni critiche di un altro filosofo, Giorgio Colli, deceduto nel 1979.
Perché dovremmo avere, oggi, bisogno di un recupero del dionisiaco - teorizzato dal filosofo tedesco - rispetto all’apollineo; ossia di una matrice emozionale, piuttosto che logico-razionale, del fare teatro?
Ma facciamo un passo indietro. Nietzsche non poneva a radice del teatro occidentale la tragedia greca bensì il coro dionisiaco, quel cerchio “magico” dove attore (cantore/danzatore) e spettatore si scambiavano i ruoli condividendo l’espressione del proprio sentire individuale e di quello che potremmo definire, citando Jung, inconscio collettivo. Un sentire viscerale che va dal mito a ritroso fino all’archetipo e, quindi, alle radici della matrice culturale europea - e, in parte, generalmente umana.
Molti sono i pensieri e gli stimoli che si sono susseguiti. Se è vero che un mare (a livello temporale e spaziale) separa noi da Dioniso, e forse non è possibile rivivere certe esperienze, ma solo comprenderle ammettendo che restano altro da noi (Sini). È Marco Martinelli, regista e drammaturgo, a ribadire che - sebbene non sia possibile ricostruire esperienze culturali di venticinque secoli fa, perché si rischia l’anacronismo (l’esperimento alla dottor Frankenstein, verrebbe da scrivere) - Dioniso non è morto. Al contrario, è vivo in qualsiasi cerchio (cerchio come quello del coro dionisiaco, ma anche quello di molte comunità tribali) dove si suscitino e vivano in prima persona emozioni, e dove parlino il corpo, il sesso, l’essere umano nella sua complessità. Ecco perché vi è ancora la necessità, umana e culturale, di un teatro che colpisca, laceri, destabilizzi (o, come diceva Carmelo Bene, che solleciti - metaforicamente parlando - “crimini, delitti e sabotaggi”) .
Un teatro, del resto, il nostro, e una cultura sempre più minacciati “da vecchi senza denti e senza gusto, [...] di fronte [ai quali] vogliamo aggrapparci coi denti ai diritti della nostra gioventù e non stancarci di difendere nella nostra gioventù il futuro contro quegli assalitori delle immagini del futuro” (F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita). Naturalmente, nessuno durante il Convegno ha difeso un’idea di attore o artista quale Peter Pan ad æternum o esteticamente giovane, bensì Martinelli (e, ovviamente, Nietzsche) ha posto al centro del discorso l’importanza di restare presenti a se stessi, al centro di una società in evoluzione, parte integrante di quel divenire ed espressione di tutte le contraddizioni che un determinato spazio e tempo pongano in essere.
Rivendicare una radice dionisiaca del teatro sembra, quindi, dare valore a un atteggiamento scettico e critico nei confronti del reale. Non un rifuggire dalla razionalità apollinea in una specie di frenesia estatica (quella sì, anacronistica). Ma un mettere in dubbio, un farsi maestri del sospetto, così da non intendere oltre il reale quale dato immutabile. Rimettendolo al contrario, continuamente, in discussione e, di conseguenza, impegnandosi in prima persona a modificarlo attraverso il proprio ruolo di individui e parte di una comunità/polis, ma anche attraverso la propria arte e, ovviamente, il proprio fare teatro.
Simona Maria Frigerio - Agenzia Stampa Italia