Si è immaginato, a volte, che egli si contrapponesse a Carducci, e non si vedeva che egli in realtà era di diretta derivazione carducciana assai più del Pascoli, e assai più di quanti si vantavano esser suoi discepoli. Per chi non si lasci trarre in inganno o deviare da certe accentuazioni dell'estetismo niente affatto essenziali alla comprensione della sua opera, Gabriele d'Annunzio non è stato meno del Carducci fedele alla sua terra, intimamente, profondamente italiano e paesano. L'estetismo era in lui un atteggiamento capriccioso e di superficie, un modo innocente per confondere borghesi e filistei. In fondo al suo essere era solido, serio, ed italianissimo. E possiamo pur dire, provinciale. Lo hanno notato immediatamente i mondani del cosmopolitismo ozioso ogni qual volta egli appariva negli ambienti internazionali. Nonostante le diverse apparenze, egli non perdeva mai quella sua "selvatichezza" degli anni giovanili di cui parlano i suoi biografi, quel ritegno che era fatto di timidezza più ancora che di orgoglio e che nascondeva una profonda inclinazione alla solitudine (quando non impegnato in altre attività al Vittoriale nell'esilio dorato). Per quanto possa sembrare in contrasto con l'opinione corrente fino a pochi anni orsono, l'avvento di d'Annunzio nel mondo della poesia ha segnato una riconciliazione dell'arte con la vita, una reazione all'accademismo, e in particolare a quello, che tante volte, specie negli stranieri, era stato rimproverato alla letteratura italiana. Sotto questo rispetto il suo apporto alle lettere italiane è incalcolabile, perché ha segnato, per così dire, il punto di trapasso dalla letteratura puramente nazionale a quella europea, come la sua vita e la sua azione politica hanno personificato in maniera stupenda la vita italiana e non.
Non senza stupore infatti, e non senza ironia, la pubblica curiosità apprendeva nel 1897, alle elezioni legislative che il d'Annunzio si presentava candidato al collegio di Ortona a Mare. Il poeta ha avuto l'audacia e l'orgoglio di presentarsi quale era e di parlare in nome della bellezza. Tuttavia, quella di cui parlava era tutta nutrita di sentimento patrio e di romanità augustea. Scriveva egli allora: «Non questo è più il tempo del sogno solitario all'ombra degli allori e dei mirti. Raccogliendo tutte le loro energie gli uomini di intelletto debbono sorreggere militarmente la causa dell'intelligenza contro i barbari, se il senso profondo della vita non si è in essi assopito. La fortuna d'Italia è inseparabile dalle sorti della bellezza». E con animo presago proclamava, contro l'avanzare del socialismo, la necessità di salvare ad ogni costo dall'onda di volgarità che si minacciava di travolgerla, la «terra privilegiata in cui Leonardo creò le sue Madonne imperiose e Michelangelo e i suoi indomabili eroi». E quale diana di riscossa è stata il discorso elettorale della «siepe». «Glorifichiamo la vita che ascende, celebriamo le verità liberatrici. Non v'è salute e non v'è bellezza fuori dallo sforzo che l'uomo compie in sua piena libertà, sprigionando della sua sostanza tutte le energie e volgendole nelle direzioni che gli indica il germe della stirpe infallibile. Come quel cadavere della gesta carolingia, il quale ereditava il vigore di tutti i guerrieri abbattuti dalla sua lancia, l'uomo degno di vivere si sente accresciuto da ogni ostacolo che egli sormonta. Giova dunque ancora una volte le verità liberatrici con alta e sicura voce: tanto l'uomo è più virtuoso, quanto più egli si sforza di accrescere l'essere suo. La fortuna d'Italia è inseparabile dalle sorti della bellezza cui ella è madre. Lo spirito latino non potrà riprendere la sua sovranità nel mondo se non a patto di ristabilire il culto della volontà una e di ritenere per sacro il sentimento che nell'antico Lazio ispirava le feste terminali. A voi certo è scarto quel sentimento, o agricoltori della mia terra, che educate con cura sollecita ed assidua sul limite del campo la siepe tenace. Io vi dico, agricoltori, che non mai abbastanza tenace e folta e spinosa e viva è la siepe onde è precluso il suolo fecondo cui il vostro ferro dirompe e il vostro sudore irriga. Afforzatela ancora: fate che ella metta radici più robuste, aculei più ferrei, perocché taluno minacci di profanarla, di abbatterla, di raderla, di non lasciarne segno, non temendo di essere votato agli dèi infernali (...)».
Gli agricoltori abruzzesi comprendevano il candidato della bellezza, e lo mandavano alla Camera. Ad essa, tuttavia, non ha quasi mai parlato. Era quello l'ambiente acconcio alla sua parola?
L'Italia, non ha avuto come la Francia grandi poeti parlamentari. Nella nostra abitudine la Poesia ha serbato sempre un certo carattere esotico, qualche cosa di irreale che raddoppiando forse la sua importanza, le ha tolto molto spesso una immediata efficacia sulla vita. Il poeta, anche se civile, cantava all'alba come l'allodola o di notte come l'usignolo, percorrendo gli avvenimenti o sognando dentro la loro ombra; e se una qualche fiera passione agitava l'anima nazionale, il canto vi si levava simile ad uno strido di aquila sulle vette delle Alpi percorse dalla bufera. La satira stessa, questo stridore di spasimo e di minaccia non è mai stato in Italia un commento pericoloso o fecondo di fatti politici. Il sogghigno finiva troppo presto nel riso e questo consolava troppo facilmente. Giusti, il solo poeta della satira, nasce e canta in Toscana, la sola provincia non oppressa dalla tirannide. Berchet moriva senatore e pentito delle ardenti poesie alle quali pur doveva quell'ultimo onore. Prati, un altro senatore, di fantasia più gagliarda e animo più debole, ha vissuto come un trovatore cantando alla dama, e al sire con la remissiva facilità di un'arte nata fra lo studio e le corte. La Francia invece, dopo Chateaubriand, l'incomparabile poeta della prosa che rievocando le tradizioni cristiane e monarchiche si era levato quasi rivale dinnanzi a Napoleone, aveva mandato nell'arena politica i suoi poeti a combattervi le più lunghe, difficili battaglie della libertà. Bastano due nomi tra i tanti: Lamartine e Hugo, il cigno e l'aquila secondo il linguaggio di allora, ma due fra i più splendidi oratori politici di un secolo che ha rinnovato tutte le forme dell'eloquenza.
Gabriele d'Annunzio non ha cantato alla Camera. Compiva un gesto energico ed eloquente. Un giorno che i segugi della destra correvano per i corridoi in cerca affannosa di una maggioranza, egli, gridando di andare verso la vita, si incamminava verso la vita, andava verso l'estrema sinistra. Ma i deputati socialisti non compresero la portata di quel gesto e meno ancora l'intesero le moltitudini lavoratrici. Nelle elezioni successive, portandosi candidato a Firenze, d'Annunzio non veniva rieletto. Niente di male per questo. La sua vocazione politica non era per il vecchio parlamento democratico. Si palesava per le gesta della nazione e per i suoi destini. Quando la guerra libica scoppiava, il Poeta si ergeva ad interprete del rinnovamento della coscienza popolare. Il suo vaticinio per la terza Roma cominciava ad avverarsi. Come pegno, donava le dieci canzoni delle gesta d'oltre mare che pubblicate dal Corriere della Sera, composero poi il quarto libro delle Laudi sotto il segno fausto di Merope, la sua musa navale.
Era l'alba del rinnovamento. L'ardente meriggio divampava quando scoppiava l'immenso conflitto di cui il poeta doveva essere l'incitatore e l'araldo. Ritornato definitivamente dalla Francia, ha parlato a Quarto, inaugurandosi il monumento dei Mille, vaticinando una più grande Italia, il suo più alto destino, dichiarando, in periodi forgiati a versetti biblici, «la beatitudine di coloro che hanno venti anni, un'anima casta, un corpo resistente ed una madre animosa; la beatitudine dei giovani assetati di gloria, di tutti quelli, infine, che ritornando vittoriosi avrebbero riveduto il volto di Roma, la fronte di Dante coronata di lauro, la bellezza trionfale d'Italia».
Giolitti, giungeva nuovamente a Roma con la formula del «parecchio». Bisognava affrontarlo da vicino, e Gabriele d'Annunzio si precipitava a Roma. Si prodigava, illimitatamente. Alimentava vigorosamente l'incendio spirituale divampato in Italia. Nei teatri, nelle piazze e al Campidoglio, la sua eloquenza squillava irresistibile. In passato, aveva già rivolto al Re un invito:
Tendi l'arco, accendi la face
colpisci, illumina, eroe latino!...
Apri alla nostra virtù le porte
dei futuri dominii!
Ora l'invito si rinnovava con la pressione nascente della sua incarnazione nella realtà. E l'Italia entrava nel conflitto. Le gesta di d'Annunzio sono passate alla storia. Forse, due episodi, due momenti sono impressi in caratteri indelebili nella memoria della Grande Guerra e la sua fine: la marcia di Ronchi e la rivendicazione di Fiume d'Italia. Il nome di Ronchi, presso Monfalcone, aveva già una risonanza storica per l'arresto avvenuto colà il 16 settembre 1882 di Guglielmo Oberdan. Altra fama si aggiungeva alla borgata per aver accolto in una corsia del suo ospedale il caporal maggiore Benito Mussolini, aspramente ferito a quota 144. Passava definitivamente alla storia con la riunione segreta dei volontari e di d'Annunzio, che di là muoveva alla conquista della città contesa. Non compresa nei possessi italiani dei patti di Londra, la città di Fiume aveva mostrato la sua fiera volontà di annessione all'Italia. Tuttavia, in seguito alle decisioni della Commissione di inchiesta presieduta dal Generale Di Robilant, i battaglioni di granatieri italiani che vigilavano Fiume unitamente alle truppe alleate, avevano ricevuto l'ordine di ritirarsi dalla linea di armistizio, a Ronchi. Fremiti di indignazione, correvano per la città e nei cuori dei granatieri che giuravano di ritornarvi. Ovviamente sotto il comando di Gabriele d'Annunzio. Ed egli, non tentennava.
L'impresa liberatrice era già nel suo spirito e dalla Casa Rossa, sul canale taciturno, nel pomeriggio dell'11 settembre, egli scriveva a Mussolini: «Mio caro Compagno, il dado è tratto, parto ora. Domattina prenderò Fiume con le armi. Iddio ci assiste. Mi levo dal letto febbricitante, ma non è possibile differire. Anche lo spirito domerà la carne miserabile. Sostenete la causa vigorosamente durante il conflitto. Vi abbraccio». E così, in due giorni, il Golfo del Carnaro era libero. Il giorno 16, una coraggiosa legionaria, Anna Pinchetti, recapitava a Mussolini a Milano un segreto messaggio: «Mio caro Mussolini, io ho rischiato tutto, ho dato tutto, ho vinto tutto. Sono padrone di Fiume, del territorio di una parte della linea d'armistizio, delle navi; e dei soldati che non vogliono ubbidire se non a me. Non c'è nulla da fare, contro di me. Nessuno può togliermi di qui. Ho Fiume, tengo Fiume finché vivo, inoppugnabilmente. Lottiamo d'attimo in attimo con una energia che fa di questa impresa la più bella dopo la dipartita dei Mille. Io ho tutti soldati qui, tutti soldati in uniforme, di tutte le armi. E' un'impresa di regolari. Dobbiamo far tutto da noi con la nostra povertà. Se almeno mezza Italia somigliasse ai Fiumani, avremo il dominio del mondo. Ma Fiume non èa se non una cima solitaria dell'eroismo dove sarà dolce morire ricevendo un ultimo sorso della sua acqua. Su, scuotetevi, io non dormo da sei notti e la febbre mi divora. Ma sto in piedi e domandante come, a chi m'ha visto. Alalà». Mussolini apriva subito dopo, nel Popolo d'Italia una sottoscrizione per assicurare i primi contributi ai legionari.
La preparazione di quella spedizione fiumana ha effettivamente tutti i caratteri della leggenda. Prima di qualsiasi altro egli aveva intuito come all'Italia, male rappresentata a Versailles, si tentasse di carpire cinicamente ogni frutto della sua vittoria. Egli aveva ripetutamente fatto sentire la sua voce ad Orlando come a Sonnino, verso la più intransigente resistenza.
Ad un telegramma di Federzoni che lo aveva invitato una volta a Roma aveva risposto: «Le parole sono femmine ed i fatti sono maschi. Oggi il mio posto è sul mio campo, accanto ai miei apparecchi fino a nuovo ordine. Sono felice che il popolo di Roma abbia trovato il suo ardore di maggio e tutto l'orgoglio dei suoi secoli. Il grido di allora sale oggi a maggiori altezze ed a maggiore potenza. Viva Roma senza onta». E il nuovo ordine era stato l'appello dei granatieri rivendicanti il diritto di non abbandonare la città contesa, vale a dire, a non disertare. L'audacia dannunziana ha avuto il suo facile coronamento. La Carta del Carnaro documenta la coscienza storica del Comandante, la sua intuizione delle necessarie trasformazioni sociali nella temperie della guerra.
«Per ogni gente di nobile origine la cultura è la più luminosa delle armi lunghe. Per la gente adriatica di secolo in secolo costretta ad una lotta senza tregua contro l'usurpatore incolto, essa è più che un'arma, è una potenza indomabile come il diritto e come la fede. La dominazione morale è la necessità guerriera del nuovo Stato. L'esaltazione delle belle idee umane sorge dalla sua volontà di vittoria. Lo Stato è la volontà comune e lo sforzo comune del popolo verso un sempre più alto grado di materiale e spirituale vigore. Soltanto i produttori assidui della ricchezza comune e i creatori assidui della potenza comune, sono nella repubblica i compiuti cittadini e costituiscono con essa una sola sostanza operante una sola pienezza ascendente. Qualunque sia la specie del lavoro fornito, di mano o di ingegno, di industria o di arte, di ordinamento o di eseguimento, tutto sono per obbligo iscritti in una delle dieci corporazioni costituite che prendono dal comune l'immagine della loro figura ma svolgono liberamente la loro energia e liberamente determinano gli obblighi mutui e le mutue provvidenze».
Così d'Annunzio instaurava a Fiume quel regime corporativo che doveva trovare la più perfetta elaborazione nel Fascismo. Il volatore su Vienna, che non ha perduto nei momenti più drammatici della guerra il senso molteplice della vita politica oltre che militare, intravedeva le nuove linee costruttive dell'Italia rinata.
Il poeta d'oltremare, doveva essere anche il Vate e il messaggero dell'Impero. Quando, alla presenza dei sovrani, si inaugurava il nuovo anno accademico, il Presidente Gabriele d'Annunzio, indirizzava al Re (divenuto anche Imperatore) un messaggio alato, che esprimeva i suoi sentimenti al cospetto della Patria e dei suoi destini. «Colui che osa indicare a Voi questa parola di fede, già vi fu prossimo nel fuoco della guerra e da voi sopravanzato credette egli vedere nel vostro pugno una fiaccola di luce ferma e limpida che pareva accendere gli sguardi dei combattenti e bandiera l'ombra della fronte dei vittoriosi. Una certezza mentale simile ad una illuminazione del futuro li accompagnava nella corsa immune da ogni affanno e da ogni turbolenza. Noi sentivamo le più belle cose umane, le più eccellenti essenze operare nelle profondità, convertirsi in profonde radici. Sentivamo di sotto al grido dei soldati una specie di canto effuso non interamente modulato eppure già tanto eguale che non poteva più essere interrotto. Ora io dico, Sire, che voi medesimo portavate con voi quel canto ad esso persiste e perdura così che oggi determina ed esalta la forza dell'evento. La nostra guerra non ha deposto le armi, sibbene afforzate le ha e dirette. Siamo pronti, sicuri siamo nella risolutezza dell'uomo che ci conduce: nato di popolo, balzato su da un dei più fervidi solchi del vomere sanguinoso e della fortuna costretta. Solo il canto vince i secoli e attinge le costellazioni ». Forse l'unico errore di valutazione di d'Annunzio è stato proprio su Vittorio Emanuele III, visto il futuro schifoso che riserverà al Paese.
D'Annunzio e la Guerra; la Passione di Fiume; d'Annunzio e la Francia; Il Poeta, l'oratore, il romanziere; la tragedia: tutto questo è stato, e sarà. Nel coronamento di una vita, sicuramente, opera d'arte, ove il motto principale, non può e potrà che esser questo: «E che m'importa d'esser vinto nello spazio se sono destinato a vincere nel Tempo? ».
Valentino Quintana per Agenzia Stampa Italia