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Storia. 10 Febbraio “Giorno del ricordo” :  Facta  non  verba
(ASI) Dal Ventennio di sviluppo socio-economico in Istria e Venezia Giulia (1922-1940) al Genocidio delle Foibe e dell’Esodo (1943-1947). La “vulgata” storica continua a descrivere con singolare pervicacia la presenza italiana in Istria e Venezia Giulia dopo la Grande Guerra di redenzione, con particolare riguardo alle condizioni del Ventennio fascista, come un periodo di oscurantismo, di ristagno e di angherie a danno della minoranza slava, in cui andrebbe cercata, di conseguenza, la matrice motivazionale delle Foibe e  dell’Esodo. Ebbene, ricorrendo 70 anni dalla prima “ondata” del Genocidio a danno degli Italiani, definito come tale alla luce di una puntuale ricostruzione in chiave storiografica e giuridica (1), è congruo formulare un giudizio aggiornato su quanto effettivamente accadde, in termini per quanto possibile oggettivi e conformi al classico imperativo di Tacito, secondo cui la ricerca della verità deve prescindere da qualsiasi strumentalizzazione di parte.

Al termine del conflitto contro gli Imperi Centrali, l’Istria versava in condizioni difficili ed in molti casi arretrate, rese più gravi dai sacrifici richiesti da un impegno militare che nel caso dell’Austria era durato cinque anni, con un lungo fardello di lutti e di sofferenze. Dal canto suo, l’Italia aveva dovuto affrontare problemi immensi come quelli dell’occupazione, reso più urgente dalla necessità di garantire un futuro agli ex combattenti, e della ricostruzione, che nelle terre invase dal nemico dopo Caporetto evidenziava una realtà drammatica; ciò, senza contare le forti tensioni sociali ed i conseguenti disordini.

 

Nonostante queste strozzature oggettive, la priorità di rilancio della Venezia Giulia e dell’Istria venne affrontata ed avviata a soluzione in modo consapevole, anche attraverso l’istituzione di apposite strutture pubbliche, non solo a livello ministeriale. I numeri lo dimostrano: nel 1940 l’occupazione industriale istriana era cresciuta di due volte e mezzo rispetto al 1921, con un aumento del 13 per cento in ragione annua, mentre le produzioni tipiche di carbone, cemento, pietra silicea e minerale di alluminio avevano fatto registrare incrementi nell’ordine medio assoluto di dieci volte, con una punta massima nel comprensorio dell’Arsa, pari al 60 per cento annuo, e complessivamente al 1200 per cento.

 

Le infrastrutture avevano visto, nel frattempo, uno straordinario salto di qualità e di volume, con la costruzione del grande acquedotto istriano che avrebbe risolto il secolare problema idrico per 140 mila persone e promosso l’industrializzazione agricola, in cui lo sviluppo fu addirittura superiore a quello dell’industria: basti dire che per tale acquedotto furono posati, fra l’altro, 260 chilometri di tubi e vennero scavati sei chilometri di gallerie. Sempre in tema di infrastrutture, furono realizzati 370 chilometri di strade ed installati 230 chilometri di elettrodotti.

 

Nella medesima ottica si deve ricordare la creazione di Arsia, nuova “città di fondazione” sorta, assieme alla contigua Pozzo Littorio, quale infrastruttura urbanistica al servizio del distretto minerario in cui, alla fine degli anni trenta, risultavano occupati circa novemila lavoratori di entrambe le etnie.

 

La politica sociale fu oggetto di contestuali attenzioni, a cominciare da quella in materia scolastica, con la costruzione di oltre 1300 aule destinate a triplicarne la consistenza iniziale ed a garantire l’istruzione ad un numero crescente di alunni (ivi compresi gli slavi) che nel 1940 avrebbero superato i 40 mila, incrementandosi del 45 per cento (2).

 

Si potrebbe continuare, estendendo l’analisi a Fiume, la cui occupazione industriale era pervenuta a circa 12 mila unità, per non dire di Trieste e della Dalmazia: dovunque, lo sviluppo conobbe momenti di accelerazione significativa, in specie nel campo cantieristico, nel trattamento dei prodotti petroliferi e nel comparto alimentare, senza dire di altri settori di nicchia a forte vocazione esportatrice. Ciò, con vantaggi analoghi per l’indotto, e naturalmente, a prescindere dal fatto che i nuovi posti di lavoro fossero destinati agli italiani od ai croati.

 

Eppure, la “vulgata” non considera l’importanza di queste cifre limitandosi a constatare, caso mai, che l’Italia fascista investiva ampie risorse nella politica coloniale sottraendole ai fabbisogni metropolitani: cosa indubbiamente vera ma da valutare assieme al sostanziale azzeramento dell’emigrazione che nel solo 1913 aveva raggiunto un massimo storico pari a circa 900 mila partenze, ed agli investimenti avviati anche sul territorio nazionale per supportare uno sforzo che, del resto, nei grandi Stati europei era pervenuto a livelli ancora più elevati. In ogni caso, resta il fatto che le terre redente istriane e giuliane, cui potrebbero e dovrebbero assimilarsi quelle delle grandi bonifiche realizzate nel Lazio, in Puglia ed in Sardegna (assieme alle 147 “città di fondazione” sorte collateralmente), ebbero modo di ascrivere uno sviluppo con coefficienti da primato.

 

La storiografia contemporanea, che pure ha conosciuto un’ampia fioritura circa le questioni del “confine orientale” in specie dopo l’avvento del “Giorno del Ricordo” grazie alla Legge 30 marzo 2004 n. 92, si guarda bene, salvo eccezioni marginali, dal memorizzare il ruolo dello sviluppo socio-economico dal punto di vista delle relazioni italo - jugoslave, che dopo la Convenzione di Nettuno del 1924 con cui venne risolto il problema di Fiume andarono relativamente migliorando fino a trovare un importante sbocco formale nel patto del 1937, che consolidava i precedenti rapporti di collaborazione e che sarebbe rimasto in essere fino alla primavera del 1941, quando venne vanificato dal colpo di stato e dall’improvviso cambiamento di campo compiuto da Belgrado ai danni dell’Asse.

 

Si insiste con ricorrente diffusione, invece, sulla persecuzione italiana a danno degli slavi, che, per dirne una, si sarebbe “manifestata particolarmente violenta nei confronti delle popolazioni slovena e croata” provocando reazioni inconsulte ma giustificabili “nella coscienza e nell’animo” di chi era stato “sopraffatto” dagli Italiani (3). Al riguardo, si fa riferimento alle cinque condanne capitali che erano state comminate dopo adeguato processo ad altrettanti slavi responsabili di atti di terrorismo (Vladimir Gortan dapprima - ed i cosiddetti “quattro di Basovizza” poi), alla politica di “genocidio culturale” connessa all’italianizzazione dei cognomi, alle restrizioni dell’insegnamento in lingua slovena e croata ed a quelle adottate nei confronti della stampa: fatti conformi, non solo in Italia ma più o meno dovunque, allo spirito dell’epoca, e con tutta evidenza sproporzionati rispetto al delitto contro l’umanità perpetrato nella plumbea stagione delle Foibe.

 

Conviene aggiungere che si è insistito parecchio sulla scarsa partecipazione civile italiana, in specie a Fiume ed a Pola, ma anche a Trieste, ai movimenti di resistenza nei confronti dell’occupatore tedesco, sebbene non certo tenero, lasciando la quota più importante di detto contributo ai militari che dopo l’armistizio dell’otto settembre non ebbero scelte all’infuori di un’adesione al movimento partigiano di Tito, verosimilmente necessitata. E’ una constatazione pertinente che deve far pensare, perché sottintende un giudizio di valore peggiorativo su quanto sarebbe accaduto ad opera degli slavi (e dei comunisti italiani), rispetto al carattere non certo dolce di una presenza germanica che non aveva fatto mistero delle proprie mire sul Litorale. E che puntualmente accadde.

 

Nelle maggiori città della Venezia Giulia e dell’Istria l’apporto “patriottico” delle squadre partigiane alla lotta contro l’occupazione fu certamente limitato, diversamente da quanto accadde in alcune regioni dell’Italia settentrionale e centrale macchiandosi di delitti efferati come l’uccisione di Giovanni Gentile. Diversamente da quanto è stato affermato, non si tratta di un “limite” e ciò per una ragione molto semplice: dopo la prima “ondata” dell’autunno 1943, il ritorno tedesco era stato visto con favore, nonostante la naturale durezza ed i frequenti rastrellamenti, perché costituiva un deterrente decisivo contro l’iterazione delle violenze slave. In effetti, il carattere prevalente dell’esperienza politica giuliana e dalmata dopo l’otto settembre fu l’attendismo: cosa tutto sommato comprensibile anche sul piano etico, perché riferita ad un popolo privo di tradizioni istituzionalmente sovrane ma contraddistinto dal rifiuto della violenza dovuto a salde radici cristiane (4).

 

I fatti hanno un linguaggio chiaro, talvolta crudo, ed il pregio di imporsi, assai meglio delle parole, all’attenzione di chi voglia giudicare “con mente pura”, secondo l’assunto sempre attuale di Giambattista Vico. Se non altro per questo e per il tempo ormai trascorso dagli eventi, è auspicabile che nel campo della cultura storica si possa pervenire a valutazioni meno partigiane, seppure non necessariamente condivise: presupposto necessario di un confronto politico in cui sia possibile riconoscere meriti e limiti di chiunque in un’ottica di giustizia, e prima ancora, prevenire il rischio di declassare i valori per cui si immolarono tante Vittime incolpevoli.

Carlo C. Montani per Agenzia Stampa Italia

 

Giorno del Ricordo - 10 febbraio 2013

Legge 30 marzo 2004 n. 92

Annotazioni

 

(1) - Italo Gabrielli, Istria Fiume Dalmazia: Diritti negati - Genocidio programmato, Edizioni Lithostampa, Trieste 2011, pagg. 160.

 

(2)  -  Per queste notizie, cfr. “Il Grido dell’Istria - foglio della resistenza istriana” (7 novembre 1946 - anno II, n. 45), Reprint a cura dell’Unione degli Istriani, Trieste 2007.

 

(3)  -  Cristiana Colummi, Guerra, occupazione nazista e resistenza, in “Storia di un Esodo”, a cura dell’Istituto Regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli - Venezia Giulia, Trieste 1980, pagg. 37-38.

 

(4)  - Carlo C. Montani, Venezia Giulia e Dalmazia: Sommario storico, III edizione, Associazione Amici e Discendenti degli Esuli, Trieste 2002, pagg. 20-22.

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