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(ASI) Essendosi di questi tristi tempi esaurita l'idea di Stato, ed avendo abbandonato i nostri politici ogni concezione di esso, giungendo a ripudiare la sovranità nazionale per l'egemonia di altri organismi, è giusto ricordare cosa pensavano i nostri patres. E anche se vissuti più di cinquecento anni fa, possono in determinate situazioni, come quelle odierne, essere solo attuali.

Poniamoci innanzi alla statolatria vagheggiata dal Machiavelli, con la sua nettezza di linee e solidità di costruzione. Mai negli stessi scritti del Segretario fiorentino si era mai vista capacità di analisi ed esposizione (come nel Principe), in cui si presenta un pensatore chiaro, logico, sistematico, luminoso e determinato com'egli era. E per intendere davvero il suo pensiero, bisogna conquistare poi il suo punto di vista, per poter determinare non soltanto il contenuto, ma anche l'atteggiamento spirituale, tipico del suo tempo.

A titolo esemplificativo, si possono citare alcuni tratti caratteristici della concezione machiavellica. Uno è sicuramente quello della virtù, la celebre virtù, sostanza viva dello Stato nel suo sorgere e nel suo mantenersi: quella che il Buckhardt definiva giustamente unione di forza e talento, e che certamente si può anche considerare soltanto forza, se per essa s'intende non quella meccanica, ma umana: volontà (e quindi forza e talento).

La stessa antitesi che ricorre così spesso nel pensiero del Machiavelli tra virtù e fortuna, e a risolvere la quale egli indirizza la sua meditazione politica, si regge su un particolare concetto della sua forza: che non è la volontà in generale, ma la volontà dell'individuo. Si distingue così una sorta di virtù passiva da quella che fonda e ordina o riordina gli Stati, e secondo il pensatore, li crea e che dice piuttosto virtù attiva “non può essere che individuale”: cioè o di un solo individuo, o al più, di un ristretto numero di individui”. Dunque questo è un attributo di fondamentale importanza nella definizione dello Stato machiavellico: forza o virtù spirituale, ma individuale (diversissima pertanto dalla forza stessa quale tornerà a concepirla, per esempio, il Vico). Una forza astrattamente concepita, fuori dalla storia e quindi lottante sempre con il fantasma della fortuna, malgrado l'invitta fede dell'uomo del Rinascimento nell'umana libertà trionfante con l'intelligenza di tutti gli ostacoli che s'oppongano all'energia del volere. E di quest'astrattezza - caratteristica dell'individualismo del Rinascimento – bisogna tenere il massimo conto per intendere tutto il machiavellismo, poiché lo spirito come individualità particolare non è il vero spirito umano, e lo Stato che esso creerà, non potrà che rispecchiarne i limiti. Tuttavia, lo Stato del Machiavelli non può intendersi pienamente se non come la conclusione del pensiero politico del Rinascimento.

L'altro concetto, con il quale Machiavelli si sforza di superare l'astrattezza del suo Stato, è quello del valore che ha la religione in una struttura ben ordinata. L'individuo (egli vede benissimo) può dare gli ordini allo Stato, e le leggi. Costruirlo sopra certe basi, significa assegnargli organi e funzioni, prescrivere le leggi con cui l'organismo deve mettersi in moto. Tutto ciò, però, non basta. Tutta la materia della struttura deve essere viva. Alla virtù attiva deve rispondere quella passiva. Le leggi devono essere osservate, altrimenti non sono tali. E la loro osservanza non può essere effetto perciò di altre leggi. Ci vogliono i buoni costumi, e questi sono effetto di educazione; ma per il Machiavelli come per tutto il Rinascimento (Bruno e Campanella compresi), strumento essenziale di una civiltà. “Condizione imprescindibile per la libertà o la sanità dello Stato è dunque l'osservanza della religione: ed è perciò bene ordinato lo Stato, che degli ordini della religione si curi non meno che dei propri”. Un divario questo tra il pensiero machiavellico e tutta la tradizione a lui anteriore, che non concepiva lo Stato come mezzo ad un fine o ad un complesso di fini proposti dalla religione. Per il pensatore fiorentino, invece, la Chiesa diventa strumento dello Stato, e di quello Stato in particolare. Ma il Rinascimento, non si intende solo in relazione con i suoi antecedenti, bensì anche alla luce della sua crisi e delle idee maturate posteriormente. Basta cominciare a paragonare il Machiavelli col Campanella, un po' più profondamente che non abbiamo fatto molti studiosi del fiorentino; col Campanella dell'Atheismus triunmphatus che fa del machiavellismo sinonimo di ateismo. Se è vero che il sistema religioso dell'ideatore del Principe è così negativo, come pareva già al frate di Stilo, tutto il suo stato avrà buoni ordini e buone leggi, ma solo sulla carta, perché mancherebbe di buoni costumi. Sarebbe forse un gran colosso, ma con i piedi di creta. Intanto, non si può aver dubbio su una cosa: che quel modo tutto estrinseco e naturalistico di guardare la religione, proprio del Machiavelli, è perfettamente conforme allo spirito rinascimentale. Vederne il pregio ed assieme il difetto è necessario per farsene un concetto storicamente adeguato.

Valentino Quintana per Agenzia Stampa Italia

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