Nel 2020 e nel 2021, quando moltissime persone si ammalarono e morirono di Covid, ci si rese conto che negli ospedali non c’erano abbastanza medici e infermieri e che i medici di famiglia erano troppo pochi. Durante l’emergenza uno degli errori più grossolani, dicono sindacati e associazioni, fu discutere degli spazi più che delle professionalità. Si diede grande peso all’aumento dei posti letto in terapia intensiva e negli altri reparti senza considerare chi avrebbe lavorato intorno a quei letti.
Anche se l’emergenza coronavirus è conclusa, la carenza di personale sanitario si è aggravata perché molti professionisti sono andati in pensione, altri hanno scelto lavori meno pesanti, altri ancora sono andati all’estero: le conseguenze di una programmazione sbagliata, che ha limitato l’accesso alla professione e le assunzioni, sono molto evidenti.
Secondo le stime di uno dei principali sindacati di medici ospedalieri, negli ospedali italiani mancano 15mila medici. La Fimmg, la Federazione italiana dei medici di medicina generale, stima che entro il 2028 andranno in pensione 33mila medici di base, mentre per l’Anaao alla stessa data avranno lasciato il lavoro 47mila medici ospedalieri, per un totale di 80mila professionisti. Queste uscite, rilevano le organizzazioni sindacali, non saranno bilanciate da nuove assunzioni: senza correttivi, comunque difficili da mettere in pratica in pochi anni, nel 2028 mancheranno 45mila medici. Il declino, inoltre, sarà accompagnato dal progressivo invecchiamento del personale sanitario che avrà conseguenze difficilmente prevedibili sull’assistenza e in generale sulla salute delle persone.
Negli ultimi mesi i partiti hanno discusso molto sulla possibile abolizione delle iscrizioni a numero chiuso ai corsi di medicina con l’obiettivo di risolvere la carenza di medici e mediche. Spesso, tuttavia, chi si occupa di politica dimentica che se anche il numero chiuso venisse tolto, gli effetti di questa decisione si vedrebbero tra diversi anni. Una soluzione, almeno parziale, alla carenza attuale di medici potrebbe essere l’assunzione di professionisti stranieri. Attualmente già moltissimi lavorano in Italia, ma prevalentemente in strutture private.
Secondo l’AMSI, l’associazione medici di origine straniera in Italia, i professionisti della sanità sono 77.500, di cui 22mila medici, 38mila infermieri, 5mila fisioterapisti e 5mila farmacisti, mille psicologi, 1.500 tra podologi, tecnici di radiologia, biologi, chimici e fisici che lavorano in ambito sanitario. Il 65%, secondo l’AMSI, non ha la cittadinanza italiana, e l’80% lavora in strutture private come cliniche, centri di analisi, studi medici e poliambulatori privati, centri di fisioterapia. Molti sono arrivati in Italia per studiare medicina tra gli Anni 70 e gli Anni 80. Un’altra fase di immigrazione significativa ci fu dopo la caduta del Muro di Berlino e l’ultima dopo le cosiddette Primavere arabe, la vasta ondata di proteste e rivolte che avvennero nel 2011 in diversi paesi del Nord Africa e del Medio Oriente. Oltre ai 77.500 segnalati dall’AMSI, in Italia ci sono almeno 2.500 medici e mediche che stanno chiedendo il riconoscimento della laurea presa in paesi non europei per poi provare a iscriversi all’ordine dei medici e in seguito iniziare a lavorare.
Gli operatori sanitari laureati all’estero devono chiedere al ministero della Salute il riconoscimento della qualifica professionale ottenuta al termine del percorso di studi. Per chi ha studiato in un paese dell’Unione europea è più semplice, mentre per chi si è laureato fuori dall’Europa la procedura è più lunga. Tra le altre cose, bisogna sostenere un esame che accerta la conoscenza della lingua italiana.
«In meno di un anno e mezzo è difficile ottenere il riconoscimento», spiegano i vertici di AMSI. «Molti perdono la speranza e se ne vanno in altri paesi, dove tutto è più semplice e più veloce. Anche perché nel frattempo bisogna pur vivere in qualche modo e non tutti possono permettersi di attendere per un anno e mezzo». Da anni l’AMSI chiede al ministero della Salute di velocizzare le procedure di riconoscimento dei titoli e nel frattempo di far fare pratica ai medici stranieri negli ospedali.
Un altro problema riguarda l’iscrizione all’ordine dei medici, per cui non è più indispensabile avere la cittadinanza italiana come accadeva prima del 1989: serve però il permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Quello ottenuto per motivi di studio non basta. «È un paradosso. Chi non è iscritto all’albo professionale non può lavorare, ma per iscriversi serve il permesso di soggiorno per motivi di lavoro». Il blocco riguarda non soltanto medici e mediche che si sono laureati all’estero, ma anche persone straniere laureate in Italia. Solitamente viene consigliato loro di fare altri lavori, come il cameriere o il barista, per ottenere il permesso di soggiorno per motivi di lavoro e in seguito chiedere l’iscrizione all’ordine. È un percorso che molti ritengono inaccettabile, considerata la fatica e gli sforzi per studiare e laurearsi in medicina.
C’è poi la barriera rappresentata dai concorsi pubblici banditi dalle aziende sanitarie regionali. In moltissimi casi prevale un’interpretazione restrittiva del testo unico sul pubblico impiego, approvato nel 2001, che impone la cittadinanza italiana o comunitaria o un permesso di soggiorno permanente soltanto per le professioni che riguardano la tutela dell’interesse nazionale. Le cose non sono cambiate nemmeno dopo l’approvazione del decreto Cura Italia, nel marzo del 2020, quando il governo consentì l’assunzione «di tutti i cittadini di paesi non appartenenti all’Unione europea, titolari di un permesso di soggiorno che consente di lavorare, fermo ogni altro limite di legge». Molte regioni hanno continuato a pubblicare bandi con il requisito della cittadinanza italiana.
Qualche eccezione c’è stata: il Lazio, l’Umbria e l’Emilia-Romagna hanno sfruttato il decreto Cura Italia, così come il Piemonte, anche se in quest’ultimo caso il bando è stato corretto dopo le proteste di diverse associazioni tra cui l’AMSI. Ci sono poi situazioni eccezionali come in Calabria, dove il presidente della Regione Roberto Occhiuto, commissario straordinario alla sanità, ha firmato un accordo per portare 497 medici cubani in Calabria per i prossimi tre anni per sostenere il deficitario sistema sanitario commissariato da anni.
Oltre a tutti questi problemi, il personale della sanità straniero si trova a fare i conti con le stesse difficoltà denunciate da medici e mediche italiane. Gli stipendi sono più bassi rispetto ad altri paesi, ci sono maggiori rischi di contenziosi legali e negli ultimi anni sono aumentate le aggressioni. Amsi sostiene che in Italia sta accadendo quello che la sua associazione denuncia da almeno 15 anni: molti medici stranieri, stanchi delle scarse opportunità, se ne vanno all’estero dove in seguito all’emergenza coronavirus è aumentata la richiesta di personale sanitario. «L’emigrazione riguarda soprattutto professionisti giovani e ricercatori», continua l’Amsi «C’entra lo stipendio, ma anche le possibilità di far carriera che in Italia sono limitate».
Negli ultimi tre anni in molti paesi dell’Unione europea è stato incentivato l’arrivo di personale sanitario dall’estero. In Belgio, Germania e Lussemburgo sono state accelerate le procedure per il riconoscimento dei titoli di studio presi all’estero, mentre in Irlanda i medici stranieri sono esentati dal pagamento delle tasse. In alcune regioni della Germania, per esempio in Baviera, ai medici stranieri è stato offerto il permesso di lavorare come assistenti per un anno. In Francia gli operatori sanitari stranieri senza licenza hanno potuto lavorare come personale di supporto in occupazioni non mediche. In molti paesi, tra cui il Regno Unito, è stato prolungato automaticamente il visto.
Da decenni nel Regno Unito, in Francia e in Germania vengono promosse politiche che favoriscono l’internazionalizzazione del sistema sanitario. Oltre a risolvere la carenza di personale si favorisce lo scambio di sapere. Secondo i dati più recenti diffusi dall’OCSE, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, nel Regno Unito i medici formati all’estero sono il 31 per cento del totale, in Francia l’11,8 per cento, in Germania il 13,1 per cento. In Italia sono soltanto lo 0,9 per cento.
Foad Aodi