(ASI) Sono da poco rientrato da una delle missioni umanitarie che i «cattivi» volontari della Comunità Solidarista Popoli Onlus effettuano, più volte l’anno e in completa clandestinità, nello Stato Karen, nella Birmania Orientale al confine con la Thailandia. Dal 2001 ad oggi l’associazione italiana ha svolto un lavoro impeccabile per quelli che, anche per me, sono diventati gli amici e i fratelli Karen. Ma vengono considerati i «cattivi» della solidarietà.
La scelta del sentiero. Sono andato dai Karen ormai diverse volte e molti amici mi hanno chiesto cosa mi spingesse ad aiutare un popolo così (apparentemente) lontano e così diverso da noi. Ammetto che mi sono trovato in difficoltà nel rispondere, perché certe emozioni e certe visioni sono qualcosa di intimo che difficilmente si riesce a far comprendere in pieno a chi, abituato alla nostra società, preferisce la comodità e i discorsi da bar. Sia chiaro, non voglio nascondermi dietro ad un dito e le comodità, come i bar, li conosco bene anche io. Detto questo, il motivo principale che mi ha spinto a prendere lo zaino, riempirlo e iniziare il sentiero, è etico.
L’etica. Sono sempre stato convinto che la solidarietà fine a se stessa non portasse ad alcunché se non a sentirsi un qualcosa che in realtà non si è. Un benefattore del nulla. Ovviamente, e non sono certo io a dovervelo spiegare, le situazioni di bisogno dei popoli nel mondo sono moltissime e ognuno sceglie il percorso da seguire che ritiene più giusto. Personalmente però, credo che vadano privilegiati e aiutati i popoli che vivono in condizioni di sofferenza per aver fatto delle scelte che avrebbero potuto tranquillamente non fare al fine di garantirsi un’esistenza molto più agiata. Ecco, i Karen, hanno scelto la via più difficile: quella etica. Quella di non vendere e lasciar stuprare la propria terra dalle multinazionali. Quella di non piegarsi al facile e ricco business del narcotraffico. Quella di non scappare dalla terra dei propri Avi per rincorrere mete che vengono considerate (dagli occidentali) più sviluppate e ricche. Hanno scelto di imbracciare le armi per difendere il proprio territorio e la propria tradizione, per dare un futuro alla propria gente. Per continuare ad essere un popolo e non una fotocopia mal riuscita.
I Karen. Da più di 2700 anni i Karen vivono nei territori montuosi della Birmania orientale, al confine con la Thailandia, e da oltre sessanta anni combattono contro la giunta militare prima e il governo del nuovo presidente Thein Sein ora, per ottenere quello che gli era stato promesso alla fine del secondo conflitto mondiale: una forma di autonomia e il rispetto della propria identità e delle proprie tradizioni. Una guerra che negli anni ha portato morti e feriti. Una guerra giocata in maniera sporca dai militari della giunta birmana che assaltavano e davano fuoco ai villaggi civili Karen, stupravano le donne e usavano i bambini come avanguardia per la localizzazione delle mine antiuomo. I Karen, per sfuggire agli attacchi, erano così costretti a spostarsi da una parte all’altra della foresta. E i villaggi distrutti erano sempre più difficili da ricostruire.
I «cattivi» della Onlus Popoli. Gente (all’apparenza) normale come padri di famiglia, dottori, infermieri, imprenditori e studenti, costituiscono nel 2001, a Verona, la Comunità Solidarista Popoli Onlus e incentrano la loro maggiore attività proprio nei territori controllati dall’etnia Karen perché riconoscono in quel popolo un modello da seguire e aiutare. In più di dieci anni di solidarietà, i «cattivi» di Popoli, che hanno allargato la propria associazione in tutta Italia, hanno ricostruito interi villaggi, scuole e cliniche mediche, sia mobili che fisse. Popoli ha garantito e garantisce assistenza sanitaria di base a più di 15mila persone che vivono all’interno dello Stato Karen. Inoltre ha iniziato progetti volti all’autosufficienza alimentare con piantagioni di riso, mais e caffè. E non solo. Grazie ad ingegneri esperti, Popoli ha canalizzato l’acqua dei numerosi fiumiciattoli direttamente nei villaggi. Ancora Popoli ha formato e istruito medici. E tanto altro ancora. Ma tutto questo non basta, la visione etica e non omologata del mondo in cui Popoli si riconosce, ha fatto si che l’associazione umanitaria italiana venisse catalogata tra quelle «cattive». Tra quelle di cui è meglio non parlare, altrimenti «non si sa mai». Ma se proprio ne devi parlare, è meglio parlarne male, con finti scoop e non notizie.
Anche io sono «cattivo». Se scegliere una via etica anche nel decidere quale popolo aiutare vuol dire far parte dei «cattivi», allora anche io, sono orgogliosamente un «cattivo». Consapevole però, che, rispetto alle parole di molti, i fatti dei pochi «cattivi» sono molto più utili. E i sorrisi dei fratelli Karen, dall’altra parte del mondo, me lo dimostrano sempre.
Fabio Polese per Agenzia Stampa Italia