(ASI) Se l'essere umano è artefice del proprio destino, è altrettanto vero che le tendenze storiche scaturite dalle sue azioni assumono direzioni proprie, spesso impensate o inimmaginabili fino a poco tempo prima. Senza abusare del richiamo al principio dell'eterogenesi dei fini, comunque sempre utile da tenere a mente, è ormai evidente che il processo di globalizzazione cominciato negli anni Ottanta ha prodotto uno scenario profondamente diverso da quello che molti strateghi ed intellettuali occidentali avevano prefigurato venti o trent'anni fa.
L'esempio più calzante in questo senso è indubbiamente la Cina. Ritrovata potenza mondiale, dopo poco meno di due secoli "bui", cui contribuì certamente anche l'aggressione coloniale europea, Pechino si appresta a sorpassare Washington entro i prossimi sette anni, diventando la prima economia mondiale per PIL nominale, senza contare il fatto che lo è già da tempo nella classifica per PIL a parità di potere d'acquisto (PPP) e in quella relativa al volume del commercio estero.
La parola-chiave del primo decennio di Xi Jinping al potere è stata "innovazione". Dopo una lunga fase di crescita a doppia cifra, il paradigma di sviluppo del gigante asiatico è quindi cambiato, passando dal binomio quantità-velocità al binomio qualità-equilibrio. Dal 2013, il lavoro di riforma e riassetto interno è stato enorme ed è tutt'ora in corso, con risultati positivi ma anche con esiti al momento incerti in tante partite ancora aperte. E su fronti decisivi: stato di diritto, welfare, sostenibilità, urbanizzazione, rivitalizzazione rurale, ricerca scientifica, curva di invecchiamento e così via.
La seconda edizione della Global Digital Trade Expo, conclusasi ieri nella metropoli di Hangzhou, provincia costiera del Zhejiang, dopo cinque giorni di svolgimento, ha fornito più di una risposta in questa direzione. Migliaia di esperti e operatori da 63 tra Paesi e regioni del mondo hanno preso parte a questo giovane appuntamento, ispirato a quella che la leadership definisce "apertura di alto livello", dedicata specificamente a prodotti e servizi di nuova generazione.
I temi toccati durante l'evento non si sono limitati alla mera dimensione dell'e-commerce ma hanno richiamato, più estesamente, i benefici complessivi dell'economia digitale, l'impatto delle tecnologie emergenti sulla società e il nuovo quadro normativo per l'accesso al mercato cinese. Nel corso degli ultimi dieci anni, il governo ha infatti ridotto di oltre l'80% la cosiddetta "lista negativa" per gli investimenti esteri e ha aperto 21 zone-pilota di libero scambio, che hanno via via preso il posto delle vecchie zone economiche speciali.
Il calo degli IDE in ingresso in Cina registrato nel corso di quest'anno, col primo deficit trimestrale dal 1998 tra luglio e settembre, potrebbe essere legato alle pressioni politiche esercitate sulle imprese da Washington e Bruxelles [Reuters], ostinate nella prosecuzione delle rispettive strategie parallele di de-risking, senza dimenticare fattori esterni come le turbolenze geopolitiche e il rallentamento globale, molto marcato in Europa.
Eppure, questo potrebbe anche essere il segnale dell'inizio di una complessiva riconfigurazione degli investimenti esteri. In effetti, nei primi otto mesi del 2023, il numero delle nuove imprese straniere operative in Cina è aumentato del 33% su base annua e i Paesi di provenienza dei flussi di investimenti a registrare gli incrementi più rilevanti sono stati Regno Unito (+132,6%), Canada (+111,2%), Francia (+105,6%), Svizzera (+59,2%), Paesi Bassi (+25,3%) e Germania (+20,8%) [Mofcom]. Numeri che evidenziano come l'attrattività del mercato cinese sia tutt'altro che scemata.
Stando alle riflessioni prodotte dal filosofo neoconservatore Francis Fukuyama all'alba degli anni Novanta, il progresso della storia umana avrebbe dovuto volgere al termine con la vittoria politica, economica, sociale e culturale degli Stati Uniti sull'Unione Sovietica nella Guerra Fredda, avviando un quasi automatico percorso di estensione della democrazia liberale e dell'economia di mercato al resto del pianeta.
Certo, restava ancora qualche "Paese canaglia" da affrontare, almeno secondo gli estensori dell'ormai celebre Project for a New American Century (PNAC), tra cui lo stesso pensatore nippo-statunitense. Ma tramite una sapiente miscela di attacchi militari, sanzioni e sostegno a movimenti insurrezionali, Washington era convinta di poter avere la meglio e chiudere i conti lasciati aperti. Oltre vent'anni dopo, gli esiti delle lunghissime ed estenuanti missioni "normalizzatrici" in Iraq e in Afghanistan hanno smentito tutto: nel primo caso, il Paese è ormai finito nell'orbita geopolitica dell'Iran; nel secondo ritroviamo al potere il vecchio movimento talebano, pur con volti nuovi.
Con l'ascesa dei BRICS tra gli anni Duemila e Duemiladieci, la storia aveva già preso una direzione diversa da quella prevista ma molti non se n'erano resi conto. Sebbene quasi tutti i Paesi emergenti abbiano assorbito, in forme e misure diverse, elementi e dinamiche distintivi del mondo occidentale, questi li hanno utilizzati per accrescere il rispettivo potenziale economico, finanziario e tecnologico, facendone (anche) un perno per ridefinire il proprio ruolo geopolitico, senza adeguarsi o allinearsi al cosiddetto Washington Consensus, anzi proponendo con enfasi sempre maggiore una revisione dei meccanismi di governance globale commisurata ai mutamenti degli equilibri internazionali.
Del resto, tornando alla Cina, era mai possibile pretendere che essa recitasse in eterno il ruolo di "fabbrica del mondo", dedicandosi interamente alla produzione e all'export di prodotti a basso costo per i Paesi avanzati? Si poteva realisticamente credere che un Paese di 1,4 miliardi di abitanti potesse accettare di infilarsi nel vicolo cieco della "trappola del reddito medio" senza ambire ad un salto di qualità per la propria economia? Era pensabile che Pechino - ad oltre cinquant'anni dall'approvazione della Risoluzione ONU 2758, che le dà ragione - non sarebbe mai più tornata a sollevare con forza la questione della riunificazione con Taiwan? Se vogliamo ragionare con onestà intellettuale, realismo e buon senso, cioè fuori dall'ingenuità, dalla banalità e da una certa arroganza, la risposta a tutte queste domande è ovviamente negativa.
Secondo l'ultimo rapporto sull'innovazione globale realizzato dall'Organizzazione Mondiale per la Proprietà Intellettuale (WIPO), la Cina è al 12° posto del Global Innovation Index con 55,3 punti [sotto la Francia ma sopra Giappone, Israele e Canada], contro il 34° del 2012, quando totalizzò appena 45,4 punti. Nell'intera macro-regione Asia Orientale - Sud-est asiatico - Oceania, il Paese di mezzo è terzo, dietro Singapore e Corea del Sud, ma è primo nella graduatoria delle economie a reddito medio-alto. Facile, perciò, ipotizzare cosa avverrà da qui al 2035. La tendenza è segnata: l'unica soluzione è il dialogo.
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia