A partire da Bettino Craxi: l’attualità del “socialismo tricolore”

Raffaele Iannuzzi – 16 agosto 2023

 Storia come presagio?

La modernità ha distrutto l’idea di “presagio”, che richiama lo spirito profetico, il fiuto per il futuro. Ma la storia è impastata di presagi. La morte di Bettino Craxi, ad Hammamet, in Tunisia, il 19 gennaio 2000, è un presagio. Indica il vettore della fine della politica in Italia e l’inizio della guerra civile e del cambio di regime ideato e realizzato dalla finanza internazionale in combutta con il potere giudiziario e infine con il circolo mediatico-giudiziario. Un colpo di Stato con la cifra specifica del “cambio di regime”, nel gergo CIA, “regime change”.

Muore l’ultimo politico patriota e insieme capace di visione storica, progettuale e strategica, per il bene dell’Italia, e inizia la lunga stagione della decadenza italiana, dalla quale non siamo ancora usciti.

Meno di un anno dopo la morte di Craxi, l’11 settembre 2001, ecco le Torri Gemelle, l’impero americano colpito e forse anche dall’interno, quindi, a seguire, la lunga fase di ristrutturazione del capitalismo mondiale che ha scelto la macchina bellica e imperialista a stelle e strisce per rapinare il Medio Oriente – Iraq, Afghanistan e Siria – e imporre l’egemonia della liberaldemocrazia totalitaria a popoli che di essa non sanno che farsene. Un pensiero unico e dominante, imposto con le bombe a grappolo, ferocemente impegnati in ciò, i progressisti americani, con tanto di rapporti ideologici (ma non erano finite le ideologie?) sulla “democrazia nel XXI secolo” (Madeleine Albright: dice qualcosa a qualcuno questo nome?).

L’Unione Sovietica, nata nel dicembre del 1922, lo stesso anno della Marcia su Roma, e riconosciuta da Mussolini, il 2 febbraio 1924, con tanto di relazioni diplomatiche in corso, cessa la sua tragica e molto novecentesca avventura il 26 dicembre 1991. La grancassa massmediatica si è soffermata ossessivamente sulla data-simbolo del 9 novembre 1989, ma la partita storica si gioca nel 1991, dopo il putsch del 23 agosto dello stesso anno, artefice l’uomo della Casa Bianca, Boris Eltsin. Siamo agli albori dei “ruggenti anni Novanta” (Stiglitz: https://www.theatlantic.com/magazine/archive/2002/10/the-roaring-nineties/302604/), la fase storica più rimossa dal cosiddetto immaginario collettivo, nel quale domina da un paio di secoli a questa parte “l’imbecille collettivo” (Olavo de Carvalho). Un decennio-ponte, che viene letto sbrigativamente come prodromico del Terzo Millennio. Invece, in questo tragico decennio, si è consumato, in Italia, un colpo di Stato con i fiocchi; e, sempre in questo decennio, è stato messo in soffitta il pensiero politico e la fondazione etico-metafisica del medesimo. L’età tutt’altro che aurea del “pensiero debole”, nato nei laboratori sociologici francesi e italiani, saturi di nichilismo post-ideologico, dopo la sbornia del Sessantotto e del Settantasette, acque inquinate che hanno prodotto, in Francia, i nouveaux philosophes tradotto: i cosiddetti “nuovi filosofi” (BHL, ovvero la star del Vuoto pneumatico nichilista, Bernard-Henri Lévy; André Glucksmann, Philippe Nemo, fra i più noti), l’ideologia mascherata da anti-ideologia, ossia il “post-moderno” (Lyotard): nemico principale per costoro, la politica. Il primato della politica, per essere più chiari. Craxi, in questa cordata di nichilisti postmoderni, pur non essendo esattamente un bacchettone guidato da Principi astratti, non poteva che essere la Bestia dell’Apocalisse. Non c’è nessuno più fondamentalista e settario di un nichilista risentito e pentito del proprio passato: le cordate finanziarie anglo-americane e la magistratura non aspettava che il tempo debito. Ed esso giunse. Quando? Crollato il leggendario Muro, così utile alla costruzione della macchina imperialista americana, e bestemmiata la divinità comunista dell’URSS, i nuovi dèi del nuovo pantheon avevano campo libero. Dove? Ovvio, per chi conosca la storia della Guerra fredda e voglia ancora usare la ragione per leggere la realtà storica: l’Italia è il campo di battaglia.

In Italia c’è la migliore classe dirigente d’Europa. Non la più “onesta”, perché, come insegnava Croce, i politici (apparentemente) senza macchia, ma incapaci, sono la vera piaga della Nazione e dello Stato. Dall’opera Etica e politica, 1931: “Il vero politico onesto è il politico capace”. Dopo l’esperienza dei Cinquestelle al “governo”, ogni commento è superfluo. Rimanendo sugli anni Novanta, Craxi citava spesso questo insegnamento crociano e i moralisti un tanto al chilo li disprezzava per ciò che erano, farisei ipocriti e, nel tempo, i corrotti del domani.

 

Mani pulite, un colpo di Stato?

 

Nei “ruggenti” anni Novanta, a un anno esatto dall’implosione dell’URSS, arriva Mani pulite, l’inchiesta giudiziaria della procura milanese contro la corruzione, che “becca” Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, socialista milanese di spicco: 17 febbraio 1992. Le date sono i segnavia della storia. Segnate le due date: 1) fine dell’URSS, 26 dicembre 1991; 2) inizio di Mani pulite, 17 febbraio 1992. Giusto il tempo di definire bene il progetto con i capi delle cordate di potere che contano…bomba a orologeria. Si spalanca la bocca dell’inferno e vi cadono dentro tutti, da Forlani a Craxi, passando per 40 suicidi e migliaia di innocenti. Eppure, missione compiuta: sospensione di ogni diritto costituzionale per gli accusati, di fatto già condannati, dopo l’avviso di garanzia (che serve a tutelare l’indagato, qui rovesciamento completo: ti ammazzo, dopo le prime carte); tortura praticata con la legittimazione popolare: se non confessi, non esci di galera; 3) istigazione al suicidio; 4) innalzamento di funzioni di “ordine” (art. 104 della “più bella (e meno letta) Costituzione del mondo”) a funzioni di potere effettivo e integrale, giudiziario, inquirente, poliziesco, ecc. Leggere Cossiga, a distanza di decenni, è ancora salutare per la mente e l’anima: fu fra i primi a denunciare quanto sopra descritto (anche grazie a lui).

Craxi non ci sta, resiste e insiste: il finanziamento illegale dei partiti data 1948. Lo spiega a Di Pietro, da lui soggiogato in una leggendaria udienza per il processo Cusani (28/01/1994): https://www.youtube.com/watch?v=l_ud8dXY2HE (i commenti dei fruitori di questa lectio magistralis a Di Pietro aiutano a capire quanto da me affermato circa la qualità della nostra classe dirigente pre-Seconda Repubblica).

Craxi è l’uomo di Sigonella (venerdì 11 ottobre 1985), non teme certo Di Pietro, ma forse continua a sottovalutare la furia della plebe o folla ignorante e manipolata nonostante l’episodio di fronte al Raphael (30 aprile 1993: https://www.huffingtonpost.it/video/2023/04/28/video/2804craxi-11948442/). Ciò detto, rimane l’unico politico a difendere, perfino fisicamente, il primato della politica, da intendere non come dominio del politico sull’economico, ma come pensiero strategico orientato al bene dell’Italia, secondo principi e ideali inverati nella realtà.

Come aveva difeso l’industria italiana dai Prodi e dagli Andreatta, che volevano svendere tutto per un piatto di lenticchie, parlo della vicenda Sme, in quota Iri. Poi Prodi torna al governo con Ciampi, nel 1993, e la mattanza economico-sociale, rimandata sotto Craxi, viene puntualmente realizzata. Insomma, fatta fuori la “vecchia” politica, ritorna al governo la comunità dei privatizzatori e la tendenza neogiolittiana, sempre calda sotto la cenere, riemerge con nuova e più dirompente forza.

I comunisti italiani rimangono in sella, perché utili idioti di questa causa. Non a caso, fior di intellettuali comunisti come Guido Carandini, ad esempio, si sono spesi per la causa del post-moderno come post-ideologico con uno zelo quasi missionario: Il nuovo e il futuro, Laterza, Roma-Bari, 1990 e Il disordine italiano. I postumi delle fedi ideologiche, Laterza, Roma-Bari, 1995.

 

Tutto sistemato: dopo l’assalto al cielo, proponiamo, compagni, l’assalto alla politica “ideologica”, per favorire l’avvento del Mondo Nuovo del Capitalismo modello T.I.N.A., Thatcher docet. La “fine della storia” era già scritta, prima che ci pensasse Fukuyama. D’altra parte, come cant-ava De Gregori, “la storia siamo noi”. Appunto, “noi”, ieri marxisti, oggi “mercatisti”. Il titolo di un bel libro di Giuseppe Cantarano rende bene l’idea: Immagini del nulla (Bruno Mondadori, Milano, 1998).

 

Il “compagno G.” rimane in carcere, non parla, si chiama Primo Greganti ed è anche gregario, ma di ferro. E sia, il nuvo Comintern finanziario gli sarà stato grato.

 

Intanto, Craxi, ad Hammamet si ammala, cerca di guarire, non lo curano, gli negano la possibilità di curarsi in Italia, D’Alema è il regista di questa azione da vero komunista (la “k” non è un refuso), e, sul sangue di Bettino, la sinistra c’ha lasciato le penne: la Schlein era già presagita da questo crimine perpetrato con la patente di Stato.

 

 

Il “socialismo tricolore”

 

La felice e suggestiva formula è di Giano Accame: dopo il Midas (1976), che vide Craxi balzare alla guida del nuovo corso socialista, il socialismo diventò patrimonio nazionale e comunità di destino, in qualche modo. L’interesse nazionale, così come eroi nazionali come Cesare Battisti, tornò ad essere l’oggetto e lo scopo della politica. Le alleanze internazionali, anche con gli USA, non sono dogmi, ma condizioni di libertà dell’azione strategica del governo politico. Abbiamo detto di Sigonella, che fece infuriare Reagan, come undici anni prima, nel 1974, si infuriò Kissinger nei confronti di Moro, giungendo perfino a minacciarlo (il “compromesso storico”, l’alleanza con i comunisti).

Craxi costruisce alleanze strategiche con i ceti medi emergenti, intuisce la proletarizzazione di tanto lavoro privato, indica la via del merito e del bisogno, come mappe culturali di una politica volta a far rinascere l’economia nazionale, che infatti galoppa, giungendo fino al quarto posto nel mondo, superando l’Inghilterra a trazione liberista della Thatcher. Dunque, il “socialismo tricolore” faceva bene, eccome, all’economia.

Né è tutto. Perché Craxi inizia a pensare il socialismo non come anticlericalismo o laicismo di maniera, ma come pezzo del grande mosaico culturale della Nazione, chiamato a realizzare le sue promesse oppure a lasciare la scena della storia. Il riformismo craxiano è tanto laico quanto fondato sul crociano “non possiamo non dirci cristiani”.

A conferma di questa lettura storico-culturale, si legga il libretto di Craxi, Cristianesimo e socialismo, Marsilio, Venezia, 1983. Siamo negli anni Ottanta, il decennio della cosiddetta “Milano da bere”, in realtà, della grande anima di una comunità di destino nazionale in grado di costruire alleanze e dialogo produttivo e fecondo con tutti, anche con la destra fino a quel momento esclusa dalla considerazione delle altre forze politiche, il Movimento sociale italiano.

Il socialismo così impostato ha sempre guardato alla geopolitica come apertura allo sviluppo ed alla civiltà, come la nomina di Craxi a rappresentante del segretario generale dell’Onu per il problema del debito dei Paesi in via di sviluppo (8 dicembre 1989) ha ampiamente dimostrato. Quattro anni dopo l’importante nomina, Craxi viene considerato dalle folle urlanti davanti al Raphael il Cinghialone ladro e corrotto, il nemico principale del bene dell’Italia. “Deus amentato quos perdere vult”. “Dio toglie il senno a coloro che vuole perdere”. Ma, in realtà, costoro, campioni di autosabotaggio, fanno tutto da soli. Salvo poi lamentarsi del presente, affermando che prima sì che si stava meglio, svalutazione della “liretta” inclusa. Troppo tardi. Fu Gianni De Michelis, nel 1992, a firmare il Trattato di Maastricht. La sindrome di Stoccolma, sotto schiaffo della pressione massmediatico-demagogica, interviene sovente, nella storia. Da allora, addio al “socialismo tricolore” e avanti tutta con le carriere e le pensioni d’oro degli ex “dottori sottili”.

 

Raffaele Iannuzzi per Agenzia Stampa Italia

 

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