Con l’etnia Karen che da oltre 60 anni è in lotta contro il regime birmano
di Fabio polese
(ASI) Seconda parte – Ci svegliamo presto, questa mattina, raggiungeremo un posto localizzato dai Karen per fare una nuova piantagione di riso.
Ci mettiamo in marcia verso le sei del mattino, con noi, ci saranno circa quaranta uomini della KNLA che ci scortano lungo il percorso. Ogni trenta minuti facciamo una piccola sosta, fa caldo e, dentro la giungla, in alcune zone, l’aria riesce a filtrare pochissimo. Il periodo delle piogge è finito da circa un mese, il clima di giorno è caldo, mentre di notte, la temperatura scende.
Le nuove piantagioni e la difesa di quelle già esistenti, sono la base per il ripopolamento di queste zone di guerra. In sessant’anni, attraverso il terrore, gli stupri sistematici e la schiavitù, i militari birmani hanno cercato di destabilizzare la cultura e le tradizioni del popolo Karen e vorrebbero dirigere più gente possibile nei campi profughi che si trovano nel vicino confine thailandese. Diverse organizzazioni che si definiscono “umanitarie”, soprattutto statunitensi e nord europee, vorrebbero risolvere il problema dei Karen inviando i profughi in altri paesi con permessi di immigrazione garantiti e biglietti di sola andata. La Comunità Solidarista Popoli, in accordo con il Karen National Union (KNU), al contrario, sostiene che i Karen devono rimanere nei loro territori e lottare per vivere nella loro terra da uomini liberi. Proprio per questo, con tutte le difficoltà che ne derivano, l’attività della onlus italiana si svolge quasi esclusivamente all’interno delle zone controllate dai Karen.
Dopo un paio d’ore di marcia, siamo arrivati al punto stabilito. Prima di iniziare il disboscamento per fare la nuova piantagione, sistemiamo le nostre amache e i volontari Karen costruiscono un tavolino e delle panche usando il numeroso bambù che la giungla offre. E’ uno spettacolo vederli al lavoro, sono velocissimi e, in pochi minuti, tutto è pronto. Davanti a noi le piante e gli alberi sono fitti, va tutto tagliato e ripulito in modo che possa essere piantato il riso che servirà per sfamare diversi villaggi del distretto di Dooplaya. Anche noi siamo pronti a dare il nostro contributo e armati di guanti, maceti, roncole e seghe, iniziamo il disboscamento.
E’ sera e, mentre stiamo parlando con il Colonnello Nerdah Mya, un soldato delle Special Black Forces della KNLA, si incammina verso la fitta vegetazione per andare a caccia di serpenti. Saranno circa le dieci di sera, sono sull’amaca che sta dondolando e, nonostante la stanchezza dovuta al lavoro di oggi, non riesco a dormire. Ascolto i suoni della giungla e penso a quanto è assordante il rumore della società moderna. Da qui riesco ad assaporare gli atavici e sani sapori della vita. Lontano dalla ricerca dell’inutile e dall’indottrinamento mediatico. A notte inoltrata il soldato è tornato, la caccia, come sempre, è andata a buon fine. Con se ha un grande pitone dai colori bellissimi, catturato con tenacia e a mani nude.
Passiamo qui due giorni e due notti, davanti a noi, il panorama è cambiato visibilmente, sembra irriconoscibile. Gli uomini della KNLA dovrebbero riuscire a finire il lavoro in circa due settimane. La mattina seguente, zaino in spalla, ci rimettiamo in marcia per raggiungere il villaggio di Pawbulahta non lontano da una base militare birmana.