(ASI) Sulla vicenda criminale della Banda della Uno Bianca (103 crimini, 24 omicidi e 102 feriti, tra il 19 giugno 1987 e il 24 maggio 1994), con la digitalizzazione degli atti si spera di poter avere nuove verità che non sono ancora venute a galla durante i vari procedimenti penali incardinati dalle Procure presso i Tribunali di Bologna, Rimini e Pesaro.
Su questa vicenda, recentemente è stato scritto da Eva Mikula, ex fidanzata di Fabio Savi "il lungo" della Banda della Uno Bianca, il libro autobiografico "Vuoto a Perdere". A tal proposito, noi abbiamo intervistato Eva Mikula ponendogli alcune domande:
1) Com’è nata l’idea di scrivere il libro vuoto a perdere?
"Più che di un’idea - ha spiegato Eva Mikula - si è trattato di un’esigenza interiore, quella di voler stabilire una volta per tutte, dopo aver subito per tanti anni la gogna derivante dalle menzogne istituzionali sui fatti della Uno Bianca, la verità sul ruolo effettivo di Eva Mikula, la vera natura e l’evoluzione dei legami con l’uomo di cui si era innamorata a 16 anni d’eta, e che solo dopo molto tempo ha scoperto essere un componente della banda che aveva gia commesso 22 omicidi.
Per meglio far comprendere all’opinione pubblica il mio vero profilo, chi era stata in realtà questa giovanissima ragazza, assolta nei 7 lunghi processi penali dalle pesantissime accuse di complicità, ma condannata a vita e senza appello alla deplorazione ed al pubblico ludibrio dalla stampa, dal mainstream, dai vertici dell’associazionismo, da qualche magistrato particolarmente ideologizzato ed incattivito, da chi ha cavalcato una falsa narrazione assurgendo immeritatamente al ruolo di eroe, sfruttando l’esigenza dettata principalmente dalla ragion di Stato, che doveva necessariamente salvare quel prestigio della Polizia di Stato,seriamente compromesso dalle gesta dei suoi appartenenti che componevano la Banda della Uno Bianca".
2) Cosa rappresenta per lei vuoto a perdere?
"Rappresenta l’unico strumento a mia disposizione attraverso il quale raggiungere la coscienza delle persone, toccare particolari corde, raccontarsi senza filtri, esorcizzare il passato e le sue paure, trascorse ed attuali; per urlare la mia verità, per puntare l’indice verso chi ha giocato sporco rovinandomi l’esistenza; insomma per farla breve, un caleidoscopio di opportunità tutte in un unico contenitore, un libro autobiografico intitolato Vuoto a Perdere. Il mio libro "Vuoto a Perdere", acquistabile online, è uscito oltre che nella edizione italiana, anche in inglese, francese e spagnolo, con traduzione disponibile in Russo e Corso; inoltre, c'è l'audio -libro in Italiano".
3) Perché decise di seguire Fabio Savi in Italia? Era mai stata prima in Italia?
"Nel libro - spiega la Mikula - è ben raccontato anche questo passaggio: seguii Fabio per amore, per un sogno, per una voglia di riscatto, per aspirare ad una vita migliore, per avere un’opportunità nella vita. No, non avevo mai viaggiato prima, ero una ragazza minorenne, fuggita da casa per le violenze che subivo e riparata a Budapest".
4) Ci parli in breve della sua vita quotidiana a Torriana vicino Rimini di cui parla nel libro....
"A Torriana - ci dice la Mikula - facevo la vita di una segregata in casa, un monolocale. Fabio usciva al mattino e rientrava la sera, io trascorrevo le mie giornate da sola in casa guardando la televisione. Il paese era di poche anime, una comunità molto chiusa, un paese arroccato su un rilievo abbastanza distante da Rimini.
Io non avevo la possibilità di uscire, non potevo prendere un autobus, non avevo i documenti, non potevo nemmeno andare a cercarmi un lavoro o farmi delle amicizie per trascorrere le giornate, ero
una clandestina in Italia.... Ben presto il mio sogno di una nuova vita all’insegna della normalità si infranse con la realtà. Stavo molto meglio prima, a Budapest, dove ero riparata dopo essere fuggita da casa e dove avevo un lavoro da lavapiatti e cameriera in un ristorante; non avevo
nulla ma ero libera".
5) Cosa vuole raccontarci della sua esperienza personale con Fabio Savi ed i fratelli?
"Ho dei ricordi travagliati di un periodo molto buio della mia vita. Alternavo - ricorda Eva Mikula - momenti di sconforto e solitudine ad altri di felicità e spensieratezza, ma solo quando nei fine settimana Fabio mi portava fuori in gita o a mangiare in qualche ristorantino o trattoria, noi due da soli o con una coppia di amici.
A volte - racconta la ex di Fabio Savi - per le feste, all’inizio ci trovavamo anche coi fratelli e le rispettive famiglie, ho un bellissimo ricordo delle giornate passate in compagnia di suo figlio di appena 3 anni. Poi col tempo tutto è cambiato, io ero cambiata, avevo iniziato a capire, Fabio si era sbilanciato troppo ed io iniziavo a rappresentare un problema per la banda. Anche le mogli sapevano, ma loro erano le madri dei loro figli, io in fondo, solo un’estranea, una ragazzina sola venuta dall’Est.....Fabio garantiva ai fratelli che lui avrebbe provveduto affinché io non rappresentassi un problema....".
6) Quali tasselli mancano al puzzle della verità sulla vicenda della Banda Uno Bianca?
"Ne mancano diversi di tasselli - afferma Eva Mikula - per rendere il quadro completo, ed alla fine tutti questi convergono sulle circostanze che hanno portato alla loro cattura. Mancano per una serie di interessi inconfessabili da parte istituzionale. La banda ha agito indisturbata per 7 lunghi anni, troppi. Sono stati commessi molti errori investigativi. All’epoca della cattura io ero giovanissima, sola e senza un soldo per difendermi; non avevo nessuna esperienza ed ero in balia degli eventi con avvocati, che in accordo coi P.M., mi spingevano a dichiararmi colpevole per patteggiare delle pene per fatti ai quali ero totalmente estranea.
Capii abbastanza in fretta che non vi era nulla di logico anche sul versante di chi indagava e questo aspetto non mi faceva sentire protetta da chi aveva il dovere di farlo. Nel corso degli anni - ha continuato la Mikula - ho poi raggiunto una maggiore consapevolezza sulle dinamiche dei vari processi celebrati a Rimini, Pesaro e Bologna e in quest’ultima piazza, a differenza delle altre sedi, si è giocata la parte più importante, controversa ed oscura dell’intera vicenda. Per la mancanza di chiarezza investigativa non ho vissuto tranquilla nei ultimi 27 anni. Poi ho detto basta!
Ho ripreso il passato in mano ad agosto 2020 - ha dichiarato Eva Mikula - e per mesi e mesi mi sono calata nell’oscurita dei ricordi sepolti riguardando tutti gli atti processuali, analizzandoli a fondo, leggendo le rassegne stampa dell’epoca, gli interventi dei politici, dei magistrati, ascoltando tutte le registrazioni dei processi, le testimonianze qualificate degli investigatori chiamati a rispondere delle loro indagini, del Ministro dell’Interno Maroni, dei big della Polizia di Stato di allora, da Gianni De Gennaro a scendere, Achille Serra, Rino Monaco, dei prefetti, questori e sindaci, possiamo dire che Bologna fu teatro a Castelmaggiore e poi sempre in un crescendo di fatti di sangue.
A Bologna, - secondo la Mikula - a differenza delle altre procure interessate, gli inquirenti ed i politici locali teorizzarono sui giornali l’esistenza di un disegno politico fascista, chiamato Falange Armata, volto a colpire per destabilizzare le istituzioni che amministravano la città, Provincia e Regione. Tutto veniva valutato - continua Mikula - in ragione della presunta esistenza di un preciso intento eversivo, mentre la questura era un concentrato di inefficienza e tutti gli uffici investigativi erano in competizione tra loro, ognuno con il proprio magistrato sponsor di riferimento, ognuno impegnato a nascondere le informazioni e ad impedirne la circolarità. Tutto questo non è il frutto della mia fantasia, ma fu ben evidenziato all'epoca anche nell’indagine amministrativa interna disposta dal capo della polizia al prefetto Achille Serra, la c.d. indagine Serra, - ha dichiarato la Mikula - i cui allegati sembrerebbero ancora oggi segretati.
Questo metodo di sistemico intralcio per rivalità tra uffici, si estendeva poi anche ai reparti investigativi dei carabinieri, anche loro con i propri magistrati sponsor, con i loro depistaggi: il caso Macauda, unico balzato agli onori della cronaca, fu emblematico per descrivere la situazione, andava bene qualsiasi tipo di colpevole anche se non effettivamente responsabile. Fu così per il depistaggio Macauda, fu così per i rapinatori delle coop, condannati poi scagionati, fu così per i Santagata, Motta, Medda, che furono condannati all’ergastolo con un teorema di appartenere addirittura alla “quinta mafia”, un’organizzazione criminale di carattere mafioso da art.416 bis del codice penale. Si sono rilevati innocenti in relazione alla strage dei carabinieri al Pilastro e scarcerati dopo le mie rivelazioni del 24 novembre 1994.Chissà, e qui lancio una provocazione, se anche tutto questo importantissimo materiale, che costituisce una fondamentale risorsa per una ricostruzione storica dei fatti, verrà digitalizzato e messo a disposizione di chi potrebbe nutrire un interesse per il raggiungimento della verità? Il mio pensiero - precisa la Mikula - va naturalmente alle vittime e ai loro familiari che chiedono ancora di sapere perché e come fu possibile che una banda, composta per cinque sesti da poliziotti, abbia potuto lasciarsi alle spalle una così lunga scia di sangue. Io i retroscena li conosco bene, e posso confermare quello che ha sempre sostenuto Fabio: dietro la Uno Bianca c’era solo la targa ed il paraurti, ma questa era una verità indigesta per qualcuno.
Ma per restare in tema cattura, in questo contesto di confusione, incertezza e depistaggi si arrivò comunque infine all’individuazione di Fabio Savi, al suo numero di telefono, al suo (nostro) indirizzo di Torriana. Ma sul come e sul perché ci sono ancora attualmente versioni discordanti tra i differenti portatori di interesse. Esiste la mia verità, dettagliatamente raccontata nel libro, sulle modalità attraverso le quali dalla mia casa-prigione di Torriana riuscii a chiedere aiuto al mio amico giornalista ungherese Laszlo Posztobanyi, fornendo dei indizi ben precisi: nome, numero di telefono e indirizzo, inventandomi la storia della scomparsa delle ragazze ungheresi costrette a prostituirsi e del coinvolgimento nell’organizzazione di poliziotti italiani. Non potevo dire cosa faceva la banda realmente, non mi avrebbe creduto e non c’era nemmeno il tempo per raccontare in quella breve telefonata fatta di nascosto e non volevo che subisse eventuali ritorsioni. Avevo bisogno di aiuto per salvarmi e denunciarli in piena sicurezza, questo era il mio intento e ci sono riuscita, a mio rischio e pericolo.
Informazione fu poi girata dal giornalista alle autorità ungheresi che attraverso l’interpol la trasmisero a Roma e da qui, forse, l’intervento del Servizio Centrale Operativo di Roma (S.C.O.), un intervento diretto e a gamba tesa nelle indagini inconcludenti in corso da 7 anni nelle questure interessate che fino ad allora non avevano portato a nulla.
Per inciso: S.C.O. e Interpol Roma sono due servizi che all’epoca dipendevano entrambi dalla medesima direzione centrale della polizia criminale (De Gennaro, Monaco, Serra) del Dipartimento della pubblica sicurezza – Ministero dell’interno.
Un’altra versione, quella in parte emersa processualmente a Bologna, ma in maniera molto controversa, vuole invece far risalire all’individuazione di Fabio Savi ed al suo numero di telefono,all’acume investigativo degli investigatori della polizia, così da mostrare agli occhi dell’opinione pubblica, che quella istituzione così minata al suo interno, possedeva “quegli anticorpi necessari per fare pulizia delle mele marce al proprio interno”, come disse all’epoca in conferenza stampa qualcuno dei loro vertici.
Il fatto: nel corso di una rapina a Bologna sarebbe stata notata una vettura Mercedes targata FO utilizzata dai rapinatori nella fase del cambio vettura. Nella circostanza dei testimoni notarono i rapinatori abbandonare la vettura rubata utilizzata per il colpo e salire su questa Mercedes. La loro testimonianza venne raccolta da un equipaggio delle volanti di Bologna in cui compariva la descrizione della vettura, il colore, la targa con l’indicazione della sigla della provincia di Forlì (all’epoca FO) ed i primi due numeri di targa, ne mancavano 4. Le targhe di allora erano composte dalla sigla della provincia e da 6 cifre. Però, se si ascoltano le deposizioni dei testimoni ai processi, per esempio del questore Arena, all’epoca dirigente del commissariato di Rimini, della targa della Mercedes non sapeva dire nulla, interrogato in udienza rispondeva leggendo appunti ed affermava al giudice Mancuso che la targa su cui operavano la ricerca non aveva la sigla della provincia, insomma non proprio una testimonianza coerente, trasparente ed affidabile.
Terza versione: i poliziotti del commissariato di Rimini, celebrati come eroi, gli stessi che secondo la versione precedente, in seconda istanza quando venne finalmente indicato il colore giusto dell’auto, ebbero dalla concessionaria di Sant’Arcangelo di Romagna le informazioni sul proprietario della Mercedes, raccontarono invece un’altra verità, cioè che nel corso di servizi di appostamenti davanti ad alcune banche nel riminese, avrebbero notato una Fiat Tipo con targa illeggibile e pedinato fino all’indirizzo di Torriana, individuando così Fabio Savi. Da lì tutta una serie di accertamenti finalizzati a trovare una foto di Fabio su una licenza di pesca e la comparazione con degli identikit.
La domanda sorge spontanea, ma processualmente quindi, anche volendo accantonare per un momento la mia verità, la polizia come ha trovato l'indirizzo ed il numero di telefono di Fabio Savi, con la targa della Mercedes alla concessionaria di Sant’Arcangelo o con il pedinamento di una Fiat Tipo bianca da una banca nel riminese fino a Torriana?
Quindi, quale sarebbe la verità non ci è ancora dato saperlo. Peccato solo che a discapito di certe verità, Fabio Savi pur confessando i suoi 24 omicidi, un centinaio di feriti e tutte le rapine commesse, oltre 100 assalti, non ha mai confermato, anzi nega un fatto: quel sopralluogo alla banca dove i due poliziotti eroi riminesi affermano invece di averlo pedinato ed individuato. Davvero strano, nega un sopralluogo ad una certa banca in un determinato giorno; nega un fatto che tra l’altro non costituiva nemmeno un reato.
Peccato anche che Fabio Savi non ha mai avuto disponibilità di una Fiat Tipo bianca, ce l’aveva invece un nostro vicino di casa, ma si sa, era un’auto molto comune.
Peccato che gli investigatori riminesi non sapessero nemmeno che i due fratelli Savi Fabio e Roberto avessero anche un terzo fratello di nome Alberto, detto Luca, che lavorava con loro al commissariato di Rimini che fu individuato attraverso le mie dichiarazioni.
Peccato in ultimo, che il viaggio disposto dalle autorità per accompagnare il giornalista Laszlo Posztonyi, per testimoniare in Italia sui fatti relativi alle circostanze dell’individuazione di Fabio Savi, fu revocato, non si sa da chi, il giorno prima della data fissata per la partenza da Budapest.
Improvvisamente nessuno era più interessato ad ascoltare la sua testimonianza, nemmeno la testimonianza di Tamas Somogyi, il trafficante d’armi che venne condannato in contumacia e su questo aspetto ci sarebbe molto altro da raccontare.
Abbiamo poi pensato che I motivi della decisione di non ascoltarlo più erano almeno 2 miliardi.
Si, come due miliardi di lire della taglia che il Ministero dell’Interno aveva all’epoca messo sulla testa della banda a beneficio di chi avesse fornito le informazioni per la loro cattura. Se si, chi li ha incassati?
Potrei andare avanti - ha affermato la Mikula - ancora ad elencare molti dettagli interessanti sulla vicenda, dettagli riservati di cui sono venuta a conoscenza nel corso di tutti questi anni, durante i quali non ho mai smesso di cercare i veri motivi per cui si è voluta nascondere la verità, rendendomi di conseguenza così invisa all’opinione pubblica. Ognuno può documentarsi sulle fonti che ritiene più opportune e farsi una propria idea su chi racconta la verità.
Ma non è questa la sede più indicata per nuove rivelazioni. So che esiste ancora un patto tra un allora P.M., già censurato dal C.S.M., ed alcuni investigatori, oggi pensionati, che condiziona tutt’ora l’estensione della verità, un patto che si rinnova tra rimpatriate ed incontri sulla riviera romagnola e marchigiana le cui eco però giungono fino in Ungheria tra la leggerezza dell’essere e la potenza dei social".
7) Quando i fratelli Savi stavano per essere scarcerati per insufficienza di prove, cosa ha fatto lei per collaborare nelle indagini degli inquirenti?
"Ho vissuto - racconta la Mikula - in prima persona tutte le fasi della cattura dei due fratelli Roberto e Fabio, le ho vissute dalla prospettiva del fuggitivo, ma sapevo che la parola fine era già stata scritta, atteso che avevo lanciato la mia richiesta di aiuto nell’unico modo che mi era possibile, rivolgendomi all’amico giornalista Laszlo Posztobanyi, e stavo solo aspettando che la polizia venisse a bussare alla nostra porta. Io ero con loro quel giorno quando Roberto fu arrestato alla sera nella centrale operativa di Bologna. Per tutta la giornata avevamo osservato la polizia appostata sotto casa a Bologna e non riuscivamo a capire cosa stessero aspettando ad intervenire. Gli investigatori invece attendevano di intervenire in flagranza di reato con le donne costrette a prostituirsi e altre scomparse, avevano soltanto l’informativa Interpol come indizio.
Roberto fu fermato senza un mandato di cattura , vennero trovati dei soldi in casa sua, poi lui spontaneamente portò gli investigatori in un garage di cui aveva disponibilità, e venne trovato l’arsenale della banda. Con Fabio tornammo da Bologna verso Torriana, ma trovammo la polizia apostata davanti all’abitazione. Così iniziammo il nostro girovagare, una fuga non pianificata e priva di senso, fino al tentativo dopo qualche giorno, di attraversare il confine con l’Austria per riparare in Ungheria, dove Fabio riteneva di poter contare sull’aiuto di qualcuno. Se avesse scavalcato il confine, - riflette la Mikula - avrei avuto poche possibiltà di denunciarlo quindi mi rifiutai di proseguire con lui, ho rischiato la vita nel oppormi, se non mi avesse amata, sarei gia morta.
All’area di servizio dell’autostrada - continua la ex fidanzata di Fabio Savi - praticamente si consegnò ad una pattuglia della polizia stradale. Subimmo il processo per direttissima a Tolmezzo, perché Fabio aveva con sé una pistola senza matricola con numerosi caricatori e munizioni. Dopo l’udienza sono stata accompagnata dalla polizia stradale a Rimini presso il commissariato laddove ho saputo che intanto avevano perquisito la nostra abitazione.
Erano trascorsi diversi giorni dalla cattura di Roberto, lui la sera del suo arresto era stato prelevato a forza dallo s.c.o. e Criminalpol di Roma e portato a Rimini dal P.M. Paci, sottraendolo così agli investigatori ed ai P.M. bolognesi, ma non aveva confessato nulla, se non di essere il depositario di armi ed esplosivi per conto della criminalità comune a cui le affittava. Anche Fabio non collaborava con gli inquirenti di Rimini, in pratica non sapevano nulla di due fratelli e di lì a breve avrebbero dovuto lasciarli liberi. Fui io che, pur con le opportune cautele, dopo aver capito che potevo fidarmi di questi poliziotti, sapevo infatti che il terzo fratello Alberto lavorava al commissariato e rappresentava un pericolo, decisi comunque giocandomi il tutto per tutto, di dirgli chi fossero in realtà quelli che avevano fermato, i poliziotti cercavano ancora le informazioni sulle ragazze ungheresi costrette a prostituirsi, quelle della storia che mi ero inventata per far intervenire il mio amico giornalista ungherese, fu allora che rivelai loro che quelli erano della banda della Uno Bianca, chi erano i loro complici e di quali fatti si erano resi responsabili.
Quando iniziai a parlare - afferma Mikula - sbiancarono in volto, non sapevano nulla delle rapine, degli omicidi, non sapevano ancora che quelle armi che avevano trovato erano quelle legate ai più gravi fatti di cronaca degli ultimi 7 anni. Attendemmo quella notte l’arrivo
di tutti i magistrati interessati, da Bologna, da Rimini e da Pesaro e si iniziò a verbalizzare le mie dichiarazioni, non tutte, solo quelle nuovamente ripetute alla presenza dei magistrati di risposta alle loro domande. Delle mie dichiarazioni fatte prima del loro arrivo alla sola presenza dei poliziotti non vi è traccia, quindi ogni riferimento alla ricerca delle ragazze finì nell’oblio insieme alla verità sulla cattura.
Il tempo passa ma non cancella. Fu così che Fabio e Roberto poterono così essere trattenuti. Gli consegnai tutta la banda, anche gli altri quattro poliziotti, tutti su un vassoio d’argento nella speranza di chiudere in fretta quella vicenda e riacquisire la mia indipendenza e la mia libertà. Mi sbagliavo, - constata la Mikula - era il 24 novembre 1994, sono passati 27 anni da quella sera, ma per me le ferite sono rimaste ancora aperte per tutto quello che mi accadde in seguito".
8) Qual’ è la sua verità sulla cattura dei Savi? Che ruolo avrebbe avuto il giornalista ungherese Laszlo Posztobanyi?
"La mia verità è nei fatti che ho raccontato nel libro e che ho rivelato nelle interviste. Io ero una clandestina in Italia, senza documenti, totalmente dipendente dal legame con Fabio. Non potevo certamente svegliarmi un mattino e andare a bussare alla porta di un commissariato di polizia o dai
carabinieri per raccontare cosa? Che vivevo con un rapinatore omicida che assieme ai suoi fratelli poliziotti, più altri poliziotti ancora, avevano ucciso 24 persone e compiuto più di 100 rapine? Dovevo trovare un modo per denunciarli in sicurezza, non potevo espormi, sapevo benissimo di cosa erano capaci. Avevano legami anche in Ungheria con la criminalità del posto dove vivevo io, e poi potevano avere anche altri complici o coperture a me sconosciuti.
Fornii a Laszlo Posztobanyi il numero di telefono di casa dove mi trovavo, l’indirizzo ed il nome di Fabio Savi. Questo convinse il giornalista a rivolgersi alle autorità ungheresi riportando la storia. Le autorità ungheresi attraverso l’Interpol segnalarono il fatto alla polizia italiana e per quello che ne so, l’utenza telefonica di Fabio a Torriana venne messa sotto intercettazione. Chi e perché dispose l'intercettazione non mi fu dato saperlo, nemmeno come imputata ai processi, non è un atto che
entra nei fascicoli processuali. Dove sta?
Il giornalista ungherese ebbe il merito di allertare le autorità. La cosa strana e che l’autorità giudiziaria italiana, dopo aver disposto l’interrogatorio in Italia del giornalista, il giorno prima della convocazione dello stesso, con tanto di viaggio e soggiorno già prenotati, ne dispose la revoca. Non era più necessario sentire a verbale questa versione.
Chi decise che non era più necessario verbalizzare queste dichiarazioni, non ci è ancora oggi dato saperlo, quindi il mistero resta: come furono individuati i Savi? Non ci è dato sapere nemmeno questo, ci sono sempre quei due miliardi di validi motivi per domandarselo.
Comunque ad agosto dello scorso anno (2020), sia io che il giornalista abbiamo depositato un esposto all’Ambasciata Ungherese a Roma in cui abbiamo ripercorso tutti i fatti accaduti ed anche ciò che stava succedendo in quel periodo. Si stava ridestando a certi livelli istituzionali un certo interesse sulla vicenda. Era infatti dal 1994 che non avevo avuto più contatti con lui, fino all’estate del 2020 quando ci siamo rimessi in contatto grazie ad internet e ai social ed abbiamo così scoperto i depistaggi di quel periodo, di cui fummo entrambi vittime inconsapevoli.
Dopo l’uscita del libro realizzato anche con la collaborazione del giornalista Marco Gregoretti e la pubblicazione di molti articoli al riguardo, è ancor più aumentato l’interesse verso la nostra storia, tanto da aver avuto notizia certa, che persino qualcuno dell’intelligence italiana è tornato a farsi un viaggio in Ungheria per avere notizie fresche. Inoltre mi è capitato di aver notato inusuali presenze nei dintorni della mia abitazione" ha rivelato Eva Mikula.
9) Secondo la sua ricostruzione, gli inquirenti non indagavano inizialmente sulla Banda della Uno Bianca ma su altro…Cosa esattamente?
"Glielo ho già spiegato, quando mi sentirono in commissariato a Rimini quella notte, prima che giungessero i magistrati in seguito alle mie dichiarazioni e quindi prima che si verbalizzassero le dichiarazioni, i poliziotti del commissariato mi chiesero espressamente delle altre ragazze, quelle che secondo la storia che mi ero inventata col giornalista, venivano costrette a prostituirsi".
10) Quando è partita la sua denuncia verso i crimini della Banda della Uno Bianca?
"Parlai dei crimini della banda quella notte al commissariato di Rimini, prima coi poliziotti e poi con i magistrati quando vennero avvisati dei contenuti delle mie dichiarazioni e si precipitarono lì".
11) In una intervista alla giornalista France Leosini in Storie Maledette, Fabio Savi parla di una telefonata di una donna che avrebbe dato la soffiata agli investigatori per l’arresto della Banda della Uno bianca, sarebbe lei questa misteriosa donna?
"Non sono in grado di rispondere a questa domanda, - ha commentato Eva Mikula - mi spiego meglio, non posso sapere ciò che i poliziotti raccontarono effettivamente a Fabio. Ovviamente gli investigatori sapevano da dove ha avuto origine la cattura: una telefonata fatta da una donna in Ungheria che ha fatto il giro delle varie istituzioni passando per Budapest, Roma e Bologna.
Posso solo dirle che ad un certo punto i fratelli Savi mi accusarono falsamente di essere stata una loro complice attiva in alcune rapine, non in tutte, ma solo quelle più cruente in cui vi erano stati i
morti: a Pesaro e a Bologna. Interessante, no? Malgrado la loro successiva ritrattazione, io ho subito 7 processi in tutti i gradi di giudizio fino alla Cassazione e sono sempre stata assolta da queste pesantissime accuse. Assolta dai tribunali di ogni ordine e grado, ma condannata a vita dall’opinione pubblica....".
12) Secondo lei la cattura dei Savi sarebbe avvenuta in virtù della sua denuncia e non in base all’investigazione eseguita dai due poliziotti Costanza e Baglioni? Dunque secondo lei, la versione ufficiale sarebbe un depistaggio?
"Guardi le rispondo molto francamente. Premesso - dice la Mikula - che il depistaggio può essere utilizzato per scopi anche positivi. Inizialmente pensavo che la storia sulla cattura fosse stata diffusa ad arte per preservarmi da eventuali ritorsioni. Nel senso che ritenevo che la polizia avesse diffuso quella storia per non espormi a rischio. Poi mi sono dovuta ricredere quando invece mi hanno ostinatamente perseguito come complice della banda. Di certo le posso confermare che Fabio Savi ha sempre categoricamente smentito i poliziotti riminesi circa il sopralluogo presso la banca, in cui Baglioni e Costanza dicono di averlo notato a bordo di quella Fiat Tipo bianca che non ha mai avuto. Poi ci sarebbe la versione dell’individuazione avvenuta attraverso lo sviluppo delle indagini sulla targa della Mercedes, come ho spiegato in precedenza. Quindi lascio al lettore farsi un’opinione sulla vicenda. Ripeto la mia verità è un’altra, non coincide affatto con la narrazione dei poliziotti riminesi".
13) Secondo Fabio Savi, come dichiarato nell’intervista con Franca Leosini su Storie Maledette, la polizia venne da sola all’autogrill ai confini con l'Austria, capolinea della vostra fuga…ci spieghi meglio...
"Si, la polizia si fermava sempre ad inizio turno poco dopo l’una di notte a prendersi il caffè, era un loro rituale. Non erano venuti in seguito ad una richiesta, erano passati come di prassi. Fu la mia
visibile condizione disperata, gli occhi gonfi dalla stanchezza e tanto pianto a insospettire il barista il quale ha percepito la tensione che c’era fra me e Fabio, che poi fece notare ai poliziotti che c’era qualcosa di strano in quella coppia seduta li da un paio d’ore" ha affermato Eva Mikula.
14) Perché decise di chiamare il 113 della Polizia e non il 112 dei Carabinieri se sapeva che i fratelli del suo compagno Fabio Savi lavoravano nella Polizia di Stato?
"A quei tempi, io non sapevo la differenza tra l’Arma del Carabinieri e Polizia, per me erano forze dell’ordine come erano anche i componenti della banda. Non dimentichiamo la mia provenienza, l’eta che avevo e tutte le ciarle che Fabio mi ha raccontato mischiate con la verità, pur di confondermi e inculcare paura".
15) Perché la sua verità non è venuta a galla prima sugli organi di informazione?
"Perché ero sola ed ho sempre avuto tutti contro: i giornalisti, l’associazione delle vittime, i familiari, poi i P.M. di Bologna che con le mie testimonianze videro crollare i loro teoremi: il processo per la strage dei carabinieri al Pilastro fu azzerato per effetto delle mie dichiarazioni che portarono a scagionare gli imputati che rischiavano l’ergastolo dopo aver subito una lunga carcerazione preventiva. I processi sulla banda delle coop, tutti da rifare.
Insomma, un bel po’ di “certezze” vennero messe in discussione. La stessa Polizia di Stato come istituzione evidentemente mi detestava, una volta sfruttata la mia testimonianza, avrebbero voluto vedermi rinchiusa in compagnia dei Savi. Poi l’opinione pubblica che non vedeva di buon occhio le mie interviste, le mie comparsate in televisione, negli spettacoli. Dicevano che io sfruttavo il dolore ed i lutti delle famiglie delle vittime per raggiungere il successo e la notorietà. Si certo, peccato che nessuno si preoccupava di cosa vivevo, che lavoro avrei potuto fare con la notorietà che mi ritrovavo: la cameriera? Non avevo scuola fatta e per difendermi nei vari processi di quel peso servivano i soldi, tanti soldi che io non avevo.
Fino alla pubblicazione del mio libro "Vuoto a Perdere", ogni mio intervento sulla stampa veniva travisato ed era sempre utilizzato per offrire agli altri la possibilità di replica attraverso le invettive più infamanti. Ora non sono più sola a combattere per la verità ed i risultati iniziano a vedersi".
16) Se lei non ha mai partecipato alle azioni delittuose della Banda della Uno Bianca come mai è finita sotto processo?
"Per effetto delle dichiarazioni dei fratelli Savi, che ad un certo punto mi hanno chiamato in correità per alcuni dei fatti criminosi più efferati sia a Bologna che a Pesaro, per una sorta di vendetta per
aver collaborato con la giustizia. Malgrado poi abbiano ritrattato le loro accuse, io ho dovuto affrontare tutti i gradi di giudizio previsti dall’ordinamento, malgrado le assoluzioni, fino alla sentenza di Cassazione. Ad oggi mi chiedo: se avessero saputo che oltre a collaborare, sono stati fermati grazie ai miei indizi che hanno portato gli investigatori sulle loro tracce, come avrebbero reagito? Ora sono passati 27 anni, alcuni sono gia in libertà, altri contano i giorni" commenta Eva Mikula.
17) "Si è parlato spesso di traffici illeciti di armi tra l’Italia e l’Ungheria portati avanti dagli esponenti della Banda della Uno Bianca, che ne pensa?
"Sono fatti acclarati dalle sentenze dei processi, Fabio e Roberto acquistavano armi dal loro contatto Tamas Somogyi" afferma la Mikula
18) Gli inquirenti hanno sostenuto una certa sua dimestichezza nell’uso delle armi che si desumerebbe dal contenuto dei suoi interrogatori quando ha parlato dei rapporti tra Fabio Savi e Tamas Somogyi, che ne pensa? Lei ha mai sparto al poligono?
"Non è esatto, - ha spiegato l'autrice di "Vuoto a Perdere" - io ho, anzi avevo una conoscenza teorica sulle armi, conoscevo le tipologie delle armi, i nomi dei marchi, le caratteristiche e questo perché Fabio era un appassionato di armi, parlava spesso di armi, erano la sua passione più grande. Da qui a dire che io avessi dimestichezza sul loro uso questo no, assolutamente. A me le armi procuravano disagio, tanto che avevo costretto Fabio a toglierle dalla vista in casa. E un reato sparare al poligono?".
19) Ci spieghi veramente come stanno le cose sulla vicenda della doppia Mikula: Eva Edit Mikula cittadina rumena 1975 e Edit Mikula ungherese di 5 anni più grande....
"Mi verrebbe da sorridere a ripensarci, se non ci fosse da piangere per tutto ciò. Un ex giornalista RAI che lavorava anche per i servizi segreti italiani e per l’M I 6 di sua Maestà, il Secret Intelligence Service britannico, venne incaricato da una delle tre procure interessate alla vicenda Uno Bianca di indagare a fondo su di me sia in Romania che in Ungheria.
Questo perché nella casa prigione di Torriana vennero trovati dei miei documenti autentici, passaporto rumeno, permesso di lavoro ungherese, richiesta di soggiorno ungherese, oltre a dei passaporti e patente di guida di ragazze ungheresi maggiorenni che erano stati falsificati con la mia fotografia. I passaporti falsificati erano serviti, molto banalmente, per consentire a Fabio di portarmi in Italia senza il visto e l’autorizzazione dei miei genitori in quanto minorenne. Mentre la procura di Rimini - spiega la ex di Fabio Savi - aveva già compiuto tutti i suoi accertamenti presso l’anagrafe rumena e stabilito correttamente la mia reale identità, un’altra procura alla ricerca di elementi a supporto del teorema terroristico destabilizzante, voleva approfondire l’argomento, affidando il compito a questo agente segreto part-time che poi relazionò formalmente sia ai servizi segreti italiani, sia alla procura mandante, l’esito delle sue indagini.
La relazione con la sua firma è agli atti processuali, ci tengo a sottolinearlo. Secondo le informazioni raccolte da questo 007 in prestito, io sarei stata una spia al servizio di qualche Paese del Patto di Varsavia, già amante di un generale dell’esercito ucraino e tante altre amenità. Questa “goliardata” che si bevvero tutti: lo 007 e tutto l’apparato di intelligence italiana, gli investigatori, il magistrato, i giornalisti, mi costò poi molti anni dopo il diniego in ingresso negli USA in quanto segnalata come spia. Quando questo magistrato mi interrogò non volle credere né alla mia versione dei fatti, né alla mia età dichiarata, tanto che mi fece sottoporre a specifico esame radiologico al poso per stabilire la mia età certa. Per loro io non avevo 19 anni ma almeno 5 in più; c’erano testimoni dei carabinieri che lavoravano sull’omicidio Valenti, che giuravano di avermi conosciuta molti anni prima in un bordello dell’Est Europa, altri che mi avevano visto compiere il sopralluogo per più giorni. Quindi per loro ero spia, prostituta, assassina, rapinatrice. Fu così che mentre mi trovavo sotto questo pressante interrogatorio - rivela l'autrice di "Vuoto a Perdere - ebbi un sussulto di indignazione. Avevano bisogno di un’altra Mikula di 5 anni più grande per supportare le loro tesi? Bene, gliene confezionai subito una Pret- à- porte. Raccontai che Fabio mi aveva parlato che conosceva una certa Edit Mikula di 24 anni che per un periodo aveva
lavorato in un night a Riccione, che non era più in Italia e che se ne era andata. Immediatamente interrogarono Fabio Savi, che pur non sapendo nulla di quello che mi ero inventata lì per lì, confermò immediatamente la mia versione circa l’esistenza di quest’altra Mikula. Non fecero altre ricerche su questa evanescente Edit, classe 1970, improvvisamente questa figura non era più indispensabile. Poi dagli esami emerse che effettivamente io avevo solo 19 anni, quindi era un po’ difficile per loro voler continuare a sostenere che io all’età di 16 anni ero Nikita, la spia assassina protagonista del film di Luc Besson (1990). Ecco raccontata in tutta la sua banalità la storia delle due Mikula".
20) Come ha cercato di allontanare da lei l’icona di Eva Mikula della Banda della Uno Bianca?
"Solo attraverso l’oblio, - sostiene la Mikula - ma non è servito. Vi racconto un aneddoto. Roma, terzo millennio, sono passati ormai molti anni dalla fine dei processi della Uno Bianca. Eva Mikula non è più solo la fidanzata del 'lungo" della Banda della Uno Bianca come la presentano sempre i giornali. Eva Mikula ha la sua vita, un figlio frutto dell’unione con un professionista romano e un’altra figlia in grembo. Intanto due disgraziati sopraffatti dai vizi e oberati dai debiti di gioco, stanno organizzando una rapina in banca.
Uno di questi è una persona di buona famiglia della borghesia romana, l’altro un impiegato della banca. Non certamente due criminali. Il rampollo di buona famiglia è stato il primo marito di Eva Mikula, il mio primo marito sposato da giovanissimi. Tentano questo colpo in banca ma vengono subito arrestati dai carabinieri. Una notizia di cronaca di poco conto che però il marketing dei
carabinieri trasforma in notizia sensazionale: TG 5 edizione delle 13:00 - arrestato rapinatore di banca, è il marito di Eva Mikula, la ex della Banda della Uno Bianca!!!. E giù di nuovo il mondo addosso. Tutti chiamano il padre di mio figlio: "ma che ti sei impazzito hai fatto una rapina?" Vai a spiegare a tutti che lui non centrava nulla. I carabinieri mica avevano dato le generalità dell’arrestato di buona famiglia, avevano speso solo ed esclusivamente il nome di Eva Mikula incuranti che a distanza di 10 anni una persona poteva essersi ricostruita una vita, nuovi affetti. Niente, il loro “diritto di cronaca” era superiore a tutto. Poco o nulla importava se una notizia data con non curanza crea a qualcuno un disagio immeritato. Capite il male che ho dovuto subire dall’opinione pubblica? Questo è solo un esempio, di fatti discriminatori ne ho subiti a decine".
21) Ci parli dei suoi rapporti con l'associazione delle vittime della B
anda della Uno Bianca....
"Lo definirei un rapporto conflittuale a senso unico. Nel senso che loro, o meglio, la loro presidente mi detesta, non perde occasione per ribadire sempre che mi devo vergognare e li devo lasciare in pace. Ma in fondo io ho solo tentato un avvicinamento per spiegare le mie ragioni raccontando la verità. Non ho avanzato pretese nei confronti dell’associazione, ho solo chiesto comprensione per come mi hanno sempre trattata e per le difficoltà ed i disagi che la loro condanna morale messa in pubblico mi ha sempre provocato. Nel corso dei anni non si sono mai fatti la domanda: perche la
Mikula non si da pace? Cosa ci vuole dire? Ora ho dovuto scrivere un libro per portare a conoscenza tutto cio che mi creava disagio, paura e indignazione" ci dice la Mikula.
22) Cosa si sente di dire alle istituzioni italiane?
"Proprio niente,- afferma Eva Mikula autrice di "Vuoto a Perdere - sono già inguaiate di loro. Non cerco nulla nemmeno da questa parte, non ho chiesto nulla all’epoca, non chiedo niente nemmeno ora. Mi sono sempre arrangiata e posso dire di essere soddisfatta di ciò che ho realizzato sino ad ora. Mi piacerebbe solo che aprissero ad un’operazione di trasparenza e verità. Alcuni dei protagonisti di quegli anni sono passati a miglior vita, altri non
rivestono più le loro cariche politiche, molti sono andati in pensione. Sarebbe bello se qualcuno di lor signori decidesse di alleggerirsi pubblicamente la coscienza".
23) Cosa non va secondo lei nel sistema giudiziario italiano?
"Non sono tra le persone più indicate a rispondere a questa domanda, forse potrei sembrare eccessivamente di parte; di certo mi colloco affianco a quella percentuale di cittadini italiani che dichiara di non aver fiducia nella magistratura. Un recente sondaggio indica un cittadino su due. Ci sono persone più qualificate ed autorevoli di me ad esprimere un giudizio sul funzionamento della magistratura italiana, il dott. Palamara, tanto per citarne uno".
Cristiano Vignali - Agenzia Stampa Italia
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