(ASI) Non sempre nella vita le qualità di un individuo corrispondono alla sua vocazione. Burak Karan per esempio aveva tutto per diventare un calciatore professionista e vivere nel lusso, ma quello che per molti ragazzini è un sogno, per lui rappresentava quasi una costrizione; la sua aspirazione era ben altra.

Nato da genitori turchi a Wuppertal l’11 settembre 1987 (ebbene sì, proprio l’11 settembre), sin da giovanissimo Karan mostra doti tecniche importanti, alle quali unisce un fisico notevole e un atletismo che gli consente di spiccare in mediana. Centrocampista di quantità che può ricoprire più ruoli, il giovane Karan viene considerato uno dei migliori prospetti del calcio tedesco nei primi del 2000, tanto da attrarre l’interesse di alcuni tra i migliori club di Germania. Comincia a militare nelle giovanili del Bayer Leverkusen, poi passa all’Hertha Berlino, successivamente Amburgo e Hannover. Questo continuo cambiare squadra, spostarsi, è lo specchio di un’irrequietezza che il ragazzo mostra, tanto che società e allenatori decidono di non puntare fino in fondo su di lui, nonostante con la palla tra i piedi ci sapesse fare. Già perché nonostante giochi a calcio e lo faccia bene, allenatori e compagni non vedono in lui quella fame, quel trasporto viscerale tipico di una giovane promessa. E’ come se il suo corpo giocasse a calcio, ma la sua anima subisse un richiamo profondo, tanto potente da crescere fino a diventare irrinunciabile, è il richiamo della guerra, della terra d’origine.

Burak è irrequieto, sente che non sta adempiendo alla sua vocazione, di essere lontano da dove dovrebbe stare, di non aiutare chi ha bisogno di lui. Sente le vittime del conflitto bellico in Siria come fossero parenti, anzi fratelli, si tormenta ore ed ore davanti al pc informandosi h24 sul conflitto. Lo sente suo tanto da non poter più reprimere la sua volontà, che giorno dopo giorno si fa sempre più chiara: vuole partecipare alla guerra in prima persona.

E se ne accorgono anche le persone che gli stanno accanto, tentando di interrompere la sua metamorfosi inesorabile. Del ragazzo gentile, solare, sempre sorridente si perdono lentamente tracce e viene fuori il suo lato oscuro, la sua malinconia.

Nel frattempo Burak trova squadra, dopo tanto girovagare si accasa all’Aachen, non il massimo date le aspettative che c’erano su un ragazzo che fin lì aveva fatto la trafila delle nazionali giovanili tedesche, ma lì c’è fiducia in lui, sia da parte della società che del mister. Karan nel mentre si era sposato, ed era diventato padre. Ma nonostante tutto ciò, nulla distoglie la sua mente da quelle che secondo lui sono le ingiustizie che sta subendo il suo popolo. Suo fratello anni dopo rivelerà alla Bild che “Soldi, carriera, non erano importanti per lui, era sempre su internet a seguire le notizie dalle zone di guerra. Era angosciato per le vittime”.

Karan, nato in Germania, ma di origini turche e religione musulmana, comincia così ad avvicinarsi al movimento Jihadista, cominciando con qualche raccolta fondi, guardando video di esponenti del Jihad su internet. Quel mondo lo affascina, ne subisce un’attrazione magnetica, fino al giorno nel quale Burak non può più resistere e decide di partire.

La metamorfosi è completa, il giovane calciatore tedesco decide di abbandonare lo sport, la Germania, e quella che sin lì è stata la sua vita ed assieme a moglie e figli (rispettivamente di 3 anni e 10 mesi) parte alla volta della Turchia, unica via d’accesso al conflitto per un europeo. Da allora se ne perdono le tracce, l’unico video che lo ritrae lo vede imbracciare un mitra, in abbigliamento bellico che ne fa supporre l’adesione al movimento Jihadista. Non se ne avranno mai le prove, anzi, sempre secondo il fratello Karan si era recato nella zona di guerra in missione umanitaria, al fine di portare medicinali che altrimenti non sarebbero mai arrivati a destinazione.

La verità non la sapremo mai, ciò che è invece certo, è il triste epilogo della storia, già perché l’11 ottobre 2013, il corpo senza vita di Burak viene ritrovato in Siria, vicino al confine turco. Ucciso per mano delle forze lealiste di Assad, durante un bombardamento; che Burak fosse lì in veste di combattente sull’altro fronte o di soccorritore, ormai non ha più importanza, perché quella che fino a qualche mese prima era una giovane promessa del calcio tedesco, fresco padre di famiglia, è divenuta l’ennesima giovane vittima della guerra civile siriana.

A ricordarlo ci penseranno nei giorni successivi alla sua morte alcuni calciatori famosi, che con lui hanno condiviso le nazionali giovanili, gente del calibro di Khedira e Kevin Prince Boateng; in particolare l’ex Milan, tramite il suo twitter dichiarerà commosso "Riposa in pace, non dimenticherò i tempi passati insieme. Eri un vero amico. Quello che è successo dopo non lo so e non posso verificarlo".

Qualche mese prima il conflitto siriano aveva stroncato un’altra giovane vita relativa al mondo del calcio, si trattava di Yussef Suleiman, 26enne attaccante della Watbah, la squadra di Homs. Il ragazzo si stava allenando con i compagni durante il riscaldamento prepartita, all’interno dello stadio Tishreen a Damasco. Pochi istanti prima dell’inizio della gara dentro il rettangolo di gioco sono piovuti 2 colpi di mortaio, uno dei quali a ferito a morte Yussef; a nulla è servita la corsa all’ospedale nel tentativo di salvarlo. Esente da qualsiasi colpa, privo di qualunque responsabilità, semplicemente l’uomo sbagliato, al momento sbagliato, nel posto sbagliato. Già perché quel bombardamento non era diretto a lui, né all’interno dello stadio, l’obiettivo era la sede del comando nazionale del partito Baath, situato nel quartiere Baramkeh, molto vicino allo stadio. Altri giocatori sono rimasti feriti, ma fortunatamente i soccorsi hanno sortito effetto. In palese stato di choc, i calciatori tornarono in fretta ed in furia in albergo, alcuni dei quali con le divise ancora sporche del sangue del compagno di squadra, un compagno che da allora in poi, non avrebbero mai più ritrovato.

Alessandro Antoniacci - Agenzia Stampa Italia

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