(ASI)  Con riferimento ai criteri di liquidazione del danno non patrimoniale da perdita del congiunto, in assenza di parametri di legge, già nella metà degli anni novanta diverse Corti di merito per scongiurare disparità di trattamento perlomeno all’interno degli stessi Fori, avevano iniziato ad organizzarsi elaborando attraverso un vero e proprio processo di autoregolamentazione, delle tabelle proprio per la liquidazione dei danni non patrimoniali in favore dei congiunti vittime secondarie.

Sennonchè questo percorso giurisprudenziale produsse significative divergenze tra Fori.

Ancora nel 2009 si trattava di scegliere tra diverse tabelle elaborate dai Tribunali (essenzialmente ridotte a tre: Milano, Roma, Venezia),

Peraltro la Corte di Cassazione, pur avendo rilevato una diffusione sul territorio nazionale dell’utilizzo delle tabelle Milanesi, aveva più volte ribadito che non fosse configurabile alcun diritto del danneggiato a vedere applicata l’una o l’altra tabella nella liquidazione del danno subito, posto che quello tabellare è un mero criterio di stima e di calcolo tendente ad uniformare l’attività liquidatoria a casi che tra di loro prospettano similitudini e che presuppone il determinante ragguaglio delle tabelle stesse alla peculiarità del caso concreto.

Questa situazione è venuta poi a mutare nel corso del 2011 con la “nazionalizzazione” da parte delle Cassazione delle “tabelle milanesi”.

In particolare, nel 2011 la Suprema Corte ritenendo non diversamente da altre Corti Europee che “fosse suo specifico compito al fine di garantire l’uniforme interpretazione del diritto fornire ai giudici di merito l’indicazione di un unico valore medio di riferimento da porre alla base del risarcimento del danno alle persone, ha nazionalizzato con convinzione le tabelle apprestate dall’Osservatorio della Giustizia Civile del Tribunale di Milano, prevedendo espressamente che nell’applicazione venissero  modulate a secondo delle circostanze del caso concreto.

La Cassazione ha elaborato, quindi, il seguente principio: “le tabelle per la liquidazione del danno non patrimoniale del Tribunale di Milano costituiscono un valido e necessario criterio di riferimento ai fini della valutazione equitativa ex art. 1226 c.c. laddove la fattispecie non presenti circostanze che richiedano la relativa variazione in aumento o diminuzione”.

E’ lecito chiedersi però come mai la Cassazione  abbia scelto le tabelle milanesi rispetto alle altre tabelle, anche forse più accurate ed idonee a garantire una maggiore uniformità di trattamento pure sul versante della personalizzazione, quali quelle  elaborate dal Tribunale romano.

In merito va evidenziato che le “tabelle romane” hanno predisposto una tabella  a punti, che coniugando l’individuazione dei parametri di base con la personalizzazione standard, tiene conto di cinque fattori:1) rapporto parentale; 2) l’età della vittima;3) l’età del superstite;4) o stato di convivenza o meno con la  vittima; 5) la composizione complessiva del nucleo familiare.

Questa impostazione consente di pervenire ad un punteggio complessivo per ciascuna vittima secondaria, da moltiplicare poi per il valore monetario di base individuato per ciascuna categoria di famigliari.

Questo modello appare quindi tale da permettere un approccio alla personalizzazione del danno non solo più preciso, ma anche più uniforme rispetto a quello milanese che di contro prevede un minimo ed un massimo entro cui liquidare il danno parentale,  a secondo delle categorie individuate.

In realtà, al quesito sopra posto si può rispondere che la preferenza accordata alle tabelle milanesi dalla Cassazione sia stata determinata dal fatto che erano maggiormente utilizzate nei Fori italiani rispetto alle altre.

Va anche segnalato per onestà intellettuale che la Suprema Corte, è ritornata spesso ad esprimere il proprio favor per i parametri ambrosiani, affermando che : “preso atto che le tabelle milanesi sono andate nel tempo assumendo e palesando una “vocazione nazionale”, in quanto recanti parametri maggiormente idonei a consentire di tradurre il concetto di equità valutativa, ed evitare al di là delle diversità delle condizioni economiche e sociali dei diversi contesti territoriali, ingiustificate disparità di trattamento che finiscano per profilarsi in termini di violazione dell’art.3 Cost., questa Corte è pervenuta a ritenerle valido  criterio di riferimento ai fini della valutazione equitativa ex art. 1226 c.c.3 Cost.”.

Francesco Maiorca – Agenzia Stampa Italia

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