(ASI) Uno spettro si aggira per l'Europa. Non si tratta del comunismo descritto da Marx ed Engels nel Manifesto del 1848. Parliamo della "Russia". Virgolettata, perché più che al Paese, sconosciuto ai più nella sua essenza storica e geografica, ormai ci si riferisce ad un concetto: quello della democratura, cioè della "dittatura democratica", neologismo dal retrogusto coloniale usato dalla stampa d'élite per definire, genericamente, quasi tutti i sistemi politici diversi dal nostro.
Attualmente, nessuno più della Russia di Vladimir Putin incarna, nella retorica liberale, lo stereotipo del pericolo imminente, del nemico alle porte pronto a minacciare la pace e i diritti garantiti dall'Unione Europea. Come ai tempi del maccartismo, insomma, la paranoia generale verso il Paese dei Cremlini sembra aver raggiunto livelli molto elevati.
La faccenda dei presunti finanziamenti russi alla Lega, che vede coinvolto il presidente dell'Associazione Culturale Lombardia-Russia, Gianluca Savoini, è al vaglio della magistratura che, dopo aver preso atto del file audio, quasi del tutto incomprensibile, diffuso dalla piattaforma digitale americana BuzzFeed, ha deciso di aprire un'inchiesta. Non sappiamo come andrà a finire. Staremo a vedere. Al momento, ciò che è certo è che ci troviamo di fronte all'ennesimo vespaio di strali contro Mosca, accusata da anni di condizionare o addirittura indirizzare l'opinione pubblica dei Paesi occidentali attraverso le presunte attività di hacker informatici che, creando profili fake e divulgando bufale in rete, sarebbero in grado di manipolare il pensiero comune per rivolgerlo contro l'Unione Europea.
Una tesi, quella dominante presso certi think-tank europei, che, dopo la vittoria di Donald Trump, si è estremizzata sino a diffondere la percezione dell'accerchiamento totale: Stati Uniti, Russia, Cina e India, infatti, non esiterebbero a fare un sol boccone dell'Unione Europea, appena questa dovesse minimamente scalfirsi dall'interno. Di conseguenza, chiunque osi mettere in discussione qualche parametro o qualche direttiva, sfidando i pareri della Commissione o del Consiglio, potrebbe essere responsabile - intenzionalmente o meno - di indebolire l'Unione a vantaggio dei suoi competitori internazionali, pronti a minacciare il benessere e la democrazia del Vecchio Continente per costruire nuovi sistemi globali di controllo totalitario attraverso muri fisici (barriere anti-migranti, campi di detenzione ecc. ...) o virtuali (5G, riconoscimento facciale, realtà aumentata ecc. ...).
Insomma, un paranoico scenario post-apocalittico orwelliano da film cyberpunk anni Ottanta che non avrebbe alcuna ragione di essere temuto dall'establishment in un'Europa davvero prospera, sicura, inclusiva e partecipata. Un'Europa, cioè, dove non si dovrebbe nemmeno pensare di poter sacrificare sull'altare della stabilità il benessere sociale dei cittadini o la loro stessa sopravvivenza, come avvenuto in Grecia negli ultimi anni. Ricordate la tesi in base a cui, anche se costretti a subire lo smantellamento di numerosi presidi pubblici o ammortizzatori sociali, i nostri cugini d'Oltre Adriatico stavano espiando la colpa di aver «vissuto sopra le loro possibilità»? Tirare la cinghia alle fasce più deboli della popolazione, fin quasi a soffocarle, per soddisfare il rientro nei parametri prestabiliti a Maastricht ventisette anni fa. Ecco, qualcosa del genere, prima o poi, è destinato ad implodere.
Cosa c'entra la Russia? Niente. Chi per anni ha avuto il controllo su strati sociali e ceti produttivi che oggi sta perdendo completamente di vista, sbraita contro una società a suo dire impazzita, rea di non seguirlo più e di lasciarsi incantare da ideologie pericolose o da potenze straniere ammalianti. Si tratta del più antico dei vizi umani, quello della superbia. Nella nostra mente, non siamo mai noi stessi ad aver fallito o ad aver sbagliato. Deve esserci sempre, per forza, un fattore esterno ad aver generato la nostra sconfitta.
Così, ad un'Europa autoreferenziale, incapace di definire sé stessa, priva di un'identità davvero comune e quasi imbarazzata dalle proprie radici storiche, annichilite da un cosmpolitismo che ha ben poco di kantiano, non resta altro che individuare un nemico esterno, qualcuno cui attribuire le ragioni del proprio insuccesso. In realtà, quando una fase di trasformazione diventa una bandiera, uno slogan elettorale o il simbolo di una fazione (o di una nazione) ai danni di un'altra, significa già che ha fallito. Da processo, più o meno riuscito, di integrazione politica, economica e finanziaria, l'europeismo oggi, specie in Italia, è diventato uno stemma, una retorica di parte, qualcosa che - per definizione - è fazioso, divisivo.
«La fine di una civiltà non è quasi mai avvertita da coloro che la vivono direttamente», scriveva Giorgio Gaber ne I Barbari, brano del 1998, incluso nel profetico album Un'idiozia conquistata a fatica, dove le orde barbariche pronte a distruggere la nostra società - ben inteso - stavolta saremo noi stessi. Né gli unni, né i visigoti, né tanto meno i russi, i cinesi o gli indiani. Gli americani, poi, ce li abbiamo in casa già dal 1945, una presenza militare talmente abituale da non farci nemmeno più caso, pensando addirittura di poter costruire un nuovo sistema di difesa europeo senza dover fare i conti con la NATO, a cui abbiamo delegato l'intero spettro strategico per decenni, svegliandoci soltanto due anni fa, quando Donald Trump ci ha ricordato che le alleanze non sono eterne e, soprattutto, che gli interessi statunitensi e quelli europei non sempre coincidono, anzi.
La cortina di ferro oggi è quasi invisibile. Non è più delimitata da un muro col filo spinato, ma c'è ancora. Si è spostata in linea d'aria verso Est di circa 1.190 km lungo la fascia settentrionale e di 790 km lungo quella meridionale. Nel primo caso, da Berlino si è trasferita direttamente a Narva, ultima città dell'Estonia, nazione che ospita il Cooperative Cyber Defence Centre of Excellence della NATO, costruito nei pressi di Tallinn, a circa 200 km dal confine russo. Nel secondo caso, da Tirana si è catapultata a Costanza, sulle acque romene del Mar Nero, a circa 211 miglia nautiche (391 km) dal porto di Sebastopoli, in Crimea.
Proprio con l'intervento di cinque anni e mezzo fa nella penisola contesa, a maggioranza etnica russa, Vladimir Putin ha messo un punto, chiarendo a Washington e Bruxelles che, dopo il golpe filo-occidentale a Kiev e la fuga dell'ex presidente Viktor Janukovic, non sarebbe stato tollerato alcun ulteriore avanzamento delle frontiere dell'Alleanza Atlantica. Senza aggrapparsi a frasi di circostanza, in Crimea Putin ha fatto ciò che avrebbe fatto qualunque altro leader di una grande potenza minacciata da un'alleanza militare pronta, dopo vent'anni di costante espansionismo verso Est, ad inglobare l'unico Stato cuscinetto rimasto (assieme alla Bielorussia) sul bassopiano sarmatico, la grande pianura già ripetutamente sfruttata nella storia dagli eserciti stranieri per invadere il Paese: dai Cavalieri Teutonici (1240-1242) alla Confederazione Polacco-Lituana (1610-1612), da Carlo XII di Svezia (1707-1709) a Napoleone (1812), fino a Hitler (1941-1945).
Quando parliamo della Russia dobbiamo essere consapevoli che abbiamo a che fare con lo Stato più grande del mondo, con una nazione che ha le dimensioni di un continente e con una forma di civiltà nata in Europa ma cresciuta nella Steppa asiatica, con tutto ciò che ne consegue. Non c'è nulla da idealizzare, né in un senso né in un altro.
Per sua stessa impronta culturale e volontà politica - e il fallimento decabrista del XIX secolo è lì a dimostrarlo - la Russia non sarà mai un Paese né occidentale né liberale, tanto meno dopo aver vissuto l'esperienza della deflagrazione sovietica negli anni Novanta, quando la "democrazia" fu imposta da Eltsin cannoneggiando la Duma e sparando ai contestatori per le strade di Mosca. Nessuno al Cremlino sente il bisogno di essere strappato dalle braccia della Cina, con la quale permane una partnership strategica ricostruita a partire dal 1996, con la fondazione del Gruppo di Shanghai (oggi Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai), dopo le crisi e i rancori della Guerra Fredda. Né si pensi che l'intervento russo in Siria sia stato motivato dalla mera conservazione della base navale di Tartus: l'appoggio di Mosca al presidente Assad e agli Hezbollah libanesi è un altro punto messo da Putin nel Vicino Oriente, un avvertimento a chiunque pensasse di aggredire l'Iran.
Detto questo, Mosca rimane un partner importantissimo per l'intera Europa, non solo per quanto riguarda le forniture energetiche. Da tempo, la Russia è infatti impegnata a costruire una sua Unione, quella Eurasiatica, che - sul modello integrativo europeo - sta dando vita ad un mercato comune nello spazio post-sovietico: un potenziale enorme anche per le nostre imprese, se solo la politica, con la sua retorica fuori dal tempo, non tarpasse loro le ali.
Se c'è una grande sfida di politica estera che attende il governo Conte è quella di riuscire a convincere l'Europa ad allentare sanzioni, ostilità e diffidenze nei confronti della Russia. Non è in gioco soltanto l'interesse delle aziende su entrambi i lati, ma anche la capacità stessa dell'Europa di porsi in modo proattivo ed efficace di fronte alle questioni apicali del nostro secolo. Il Novecento è finito diciannove anni fa. Sarebbe ora di rendersene conto.
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia