(ASI) Stando alle statistiche, gli incidenti stradali sono tra le principali cause di morte e di gravi lesioni. Nonostante che l’opinione pubblica sia turbata, per non dire terrorizzata dagli attentati terroristici, le cifre parlano chiaro. Effettivamente subire un evento infausto durante la circolazione non vuol dire, solo e semplicemente, il colpo di frusta.
Tra gli eventi della vita moderna quotidiana la strada è foriera di molteplici rischi. Cosa succede qualora una persona che abbia subito un grave danno in occasione di uno scontro tra veicoli, si suicidi in seguito, spinto dalla disperazione per le conseguenze permanenti delle lesioni? La dottrina e la giurisprudenza si sono impegnate da lungo tempo alla soluzione del problema e autorevoli esperti stranieri hanno affrontato la questione con rigore e serietà, rendendo conto delle decisioni più importanti anche in ordinamenti diversi dal nostro, come quelli di common law[1].
Si trattava di capire se i congiunti del soggetto deceduto per essersi tolto la vita, avessero, o meno, diritto al risarcimento del danno, come se il loro caro fosse morto nell’incidente o in conseguenza di esso. Bisognava, in pratica, indagare e comprendere se il suicidio fosse riconducibile all’evento infausto del sinistro stradale o ad altro illecito, come l’inadempimento di un datore di lavoro, per esempio. In gioco vi era la risarcibilità degli eredi o dei familiari. Facciamo alcuni esempi presi dalle sentenze della Corte di Cassazione. Un operaio, per negligenza del proprietario della fabbrica in cui lavora, rimane gravemente intossicato dal monossido di carbonio. In conseguenza della malattia permanente che ne deriva, cade in una severa depressione che, nel giro di alcuni mesi, lo spinge al suicidio. Oppure, un giovane militare della Guardia di Finanza, nell’apprestarsi a salire in macchina, viene attinto da una vettura che gli sfracella una gamba. Spinto dal dolore e dalla immediata consapevolezza della irrimediabilità della situazione, si spara un colpo alla tempia con la pistola d’ordinanza. In casi come questi la risposta della giurisprudenza italiana è stata affermativa. Sia i tribunali di merito, sia la Suprema Corte, hanno riconosciuto il nesso di causa tra l’evento, il suicidio, ed il fatto illecito, che può essere un incidente o un inadempimento. A base delle decisioni, sono state poste alcune colonne fondanti. Le più importanti sono sicuramente queste: anche se il suicidio è un evento infrequente ed eccezionale, ciò non toglie che possa essere determinato da un fatto colposo o doloso di terzi; la gravità delle lesioni subite per responsabilità di altri e la vicinanza temporale tra il danno ed il suicidio; l’assenza di patologie pregresse che, da sole, avrebbero molto probabilmente condotto il soggetto a togliersi, comunque, la vita.
L’elencazione, chiaramente, non è tassativa, tanto è vero che gli Ermellini hanno riconosciuto il nesso causale anche in un caso in cui l’evento autodistruttivo si era verificato a distanza di molto tempo. I giudici avevano riscontrato, comunque, la gravità delle lesioni e come queste avessero fatto insorgere una pesante depressione. Non alle stesse conclusioni sono giunti, per esempio, quando il soggetto, gravato da micro lesioni, si era determinato per l’estremo gesto. La Corte, con il conforto delle scienze psichiatriche, ha precisato come non sia sostenibile collegare eziologicamente il suicidio ad eventi dannosi con conseguenze irrilevanti. In casi simili, il fatto che il suicidio sia un evento eccezionale, torna ad acquisire una valenza escludente la dipendenza dall’atto illecito. In sintesi, i giudicanti non ritengo che una micro lesione abbia una tale forza da gettare nella disperazione un individuo normale, che non abbia pregresse, forti, predisposizioni all’autoditruzione.
Francesco Maiorca – Agenzia Stampa Italia
[1] D. Hodgson, The law of interventing Causation, Ashgate, Aldershot, 155-168.
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