(ASI) A poche settimane dalla chiusura degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale e dopo la conferenza stampa che il Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha tenuto, il 14 maggio, nella Casa di reclusione di Massa per la presentazione del progetto Arte dal carcere: verso il futuro, siamo entrati in questo istituto penitenziario, una tra le eccellenze nel panorama delle strutture detentive italiane, per ascoltare le voci dei reclusi, dei volontari e del direttore, la dottoressa Maria Martone.
LA VOCE DEGLI OSPITI DELLA CASA DI RECLUSIONE DI MASSA:
«Non è stato Dostoevskij a dire che “il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”?», è Massimiliano a chiederlo, recluso che sta studiando economia a livello universitario e che, in questa struttura, ha trovato un luogo e un tempo da dedicare a se stesso e alla propria crescita come essere umano: «Da quando partecipo alle attività culturali mi sento cambiato, ho avuto un’evoluzione interiore anche grazie al gruppo, nel quale ci sono persone dalle quali ho imparato molto. Ognuno di noi ha competenze diverse e le abbiamo messe a disposizione per riuscire a migliorare come gruppo e non solo come singoli, ottenendo alla fine un risultato credibile. Perché oggi i detenuti sono ai margini della società ma questo non è giusto dato che, terminata la reclusione, dovremo tutti reinserirci e la società dovrebbe facilitare questo percorso, iniziandolo in prigione». Intorno a lui, altre voci raccontano la loro esperienza. Interviene Mario: «Nel momento in cui partecipiamo a un’attività culturale, sportiva o lavorativa usciamo dalla cella ed è come se potessimo avere una seconda vita. Ci mettiamo in gioco come individui, in quello che scriviamo. Il teatro, in particolare, è un mezzo per evadere con la fantasia, s’interpretano altre realtà. Mentre il trimestrale, per me, è un ponte tra il carcere e la vita al di fuori di queste mura». Sempre sull’importanza di scrivere su Il Ponte interviene Francesco: «Per me, è uno strumento per raccontare e raccontarmi. A volte, su un qualsiasi argomento, il punto di vista di una persona reclusa può far comprendere a chi non vive questa esperienza, che siamo tutti esseri umani, uguali. Dentro e fuori». Un altro argomento scottante è il diritto al lavoro, su cui interviene Massimiliano: «Purtroppo in carcere si fa ancora poca formazione. Spesso il lavoro è quello dello “scopino”, lo “spesino”, la cucina. Non c’è modo di reinserirsi all’esterno e riqualificarsi con queste attività. Avremmo bisogno di un tavolo intorno al quale riunirci e discutere delle nostre problematiche e di come riabilitare il detenuto. Fare arrivare le nostre voci alla politica. Al momento, l’unico canale che ci manda in diretta, senza filtri, è Radio Radicale - e ne approfitto per ringraziarli». Recentemente, a Massa, è stata pubblicata anche una raccolta di racconti e poesie, Impariamo a volare! ed è Mario che parla delle ore dedicate alla scrittura creativa: «Per me l’importanza della cultura, delle attività artistiche, della scrittura di racconti o articoli, sta nel fatto che, quando uscirò dal carcere, tutto ciò che ho imparato, qui dentro, mi permetterà di essere un cittadino che cammina a testa alta». L’istruzione è anche al centro del pensiero di Emanuele: «Io vengo da un lungo percorso carcerario e non mi vergogno di dire che al momento in cui sono stato arrestato - a 23 anni - avevo solo una quinta elementare. In carcere ho preso la licenza media, poi mi sono diplomato geometra e ho fatto anche tre anni di liceo artistico. Lo studio mi ha cambiato molto e mi ha aperto nuovi orizzonti. Il teatro, per me, non è un momento di evasione, ma un modo per conoscere me stesso, alcuni lati del mio carattere che non sapevo di avere. Mi ha aiutato a confrontarmi con le persone, ad avere un approccio diverso rispetto agli anni in cui soffrivo di una grande carenza culturale». Francesco, in carcere, ha persino intrapreso un proprio percorso artistico: «Ho cominciato a produrre le mie opere circa un anno e mezzo fa e da allora ho visto aprirsi molte porte. Un progetto che è cresciuto fino a permettermi di fare delle mostre e di stabilire dei contatti. E questo è molto importante». Sergio è il grafico che impagina Il Ponte, ed è tra i suoi redattori: «La cultura è necessaria, soprattutto in un ambiente che è sempre stato considerato degradato, come il carcere. Il fatto di accrescere il proprio sapere non è un voler conoscere qualcosa che prima si ignorava, bensì se stessi. Perché capire il mondo che ci circonda, porta poi a riflettere su di noi, sul nostro passato; e questo è molto importante per il futuro, in quanto ci consente di vederlo in maniera positiva. Una volta usciti non si cercherà una qualche vendetta, come avviene quando si è semplicemente ristretti e privati della possibilità di esprimersi. In strutture come questa, fortunate sia dal punto di vista dell’organizzazione sia del gruppo di detenuti, ci si può impegnare per una crescita che ci permetta di riabilitarci non tanto agli occhi della società, quanto ai nostri». Anche per molti altri detenuti il trimestrale è diventato un punto fermo nella loro crescita come individui. Per Anthony: «Il Ponte è stato un momento di svolta nella mia vita. Perché mi ha aiutato ad accrescere il mio bagaglio culturale. Il carcere non può essere solo un luogo negativo. Deve essere un luogo dove si possa diventare persone migliori, che potranno reinserirsi nella società. Grazie al trimestrale abbiamo potuto riunirci, quasi come fratelli, aiutandoci a vicenda. Ciò che coniuga la vita là fuori a quella qui dentro, è il fatto che siamo tutti esseri umani. L’ambiente è diverso ma il modo di ragionare delle persone è il medesimo: siamo tutti uguali, al di qua o al di là del muro». È Stefano a fare una considerazione tanto inaspettata quanto profonda: «Ogni attività che si segue in carcere, se è vissuta nel modo corretto, ossia il più seriamente possibile, ti mette in condizione di renderti conto di quanto scorra velocemente la vita là fuori. E, di conseguenza, della velocità alla quale tu stesso eri abituato. Qui hai il tempo di focalizzarti sugli ostacoli che non hai visto, gli errori che hai commesso; inizi ad analizzarli, con l’intento di non tornare a commetterli. Là fuori non ti rendi conto di dove hai sbagliato e del perché. Qui hai la possibilità di ricostruirti in un modo diverso e ogni attività ti aiuta nel percorso. Per me, il trimestrale è stato molto utile proprio in questo senso, perché mi ha permesso di esprimere le mie idee comunicando con l’esterno, facendomi sentire meno emarginato». E sempre de Il Ponte parla anche Francesco P.: «Le attività culturali sono importanti perché servono a tenerci impegnati sia intellettualmente che fisicamente. Ma dovremmo anche poter riqualificarci così da trovare un lavoro quando usciremo dal carcere. Per quanto mi riguarda, il trimestrale è un mezzo per dare un contributo alla società. Io, ad esempio, mi occupo di problematiche legate ai minori perché i problemi iniziano quando si è giovani. La droga, l’abuso di alcool, il gioco d’azzardo, i rapporti difficili tra genitori e figli. Come persona che ha commesso degli sbagli tento di dare dei consigli, senza ovviamente salire in cattedra, ma cercando di sensibilizzare sia i minori che gli adulti». E lo scambio di esperienze è sempre importante, sia per chi vive in una casa di reclusione sia per chi vi entra come ospite. È Pierluigi a raccontare l’incontro con i ragazzi di un istituto superiore della zona: «Dopo aver visto dei filmati sulle esperienze teatrali fatte, si è alzato un ragazzo che avrebbe voluto esporre i nostri problemi all’esterno e ci ha chiesto perché, fuori, non si sappia quanto succede in carcere. È arrivato ad affermare con forza che noi facciamo parte della società. È vero: noi non siamo mostri, non siamo scarti. In troppi istituti non si fa niente per aiutare il detenuto a reinserirsi, si è solamente abbandonati a se stessi». Domenico chiude il cerchio con un po’ di poesia e racconta come ha iniziato a scrivere: «A dieci anni, la maestra mi disse che sapevo esprimere delle cose meglio degli adulti, che le sfumature delle frasi che dicevo alle ragazzine erano molto poetiche e mi ha suggerito di provare dei versi. Purtroppo mi hanno arrestato che non avevo nemmeno la barba. Ma in carcere ho riscoperto questa vena poetica e spero che quando sarò scarcerato, potrò continuare a scrivere e riuscirò anche a pubblicare». Voci, tante, diverse, eppure unite dall’esigenza di oltrepassare il muro, almeno idealmente, e far capire a coloro che stanno fuori che un istituto penitenziario può essere diverso da una cella punitiva, dove languono esseri umani abbandonati a loro stessi e alla reclusione forzata per 23 ore al giorno. Può essere un luogo di socializzazione, crescita umana e professionale, fonte di sapere, percorso educativo e spazio - dove scoprire attraverso le arti, la cultura, le attività ludiche o sportive che un altro mondo è possibile.
LA VOCE DEI VOLONTARI:
A raccontare il perché abbia scelto di fare volontariato in carcere è Anna Maria Giannelli, che si occupa anche del trimestrale Il Ponte: «È stato il teatro a farmi scoprire l’universo carcere. Andando a vedere gli spettacoli nella Fortezza di Volterra, a La Dogaia di Prato, e ospitando a Radicondoli - dove mi occupavo dell’ufficio stampa - i lavori prodotti nel carcere di San Gimignano e da Armando Punzo. A Prato, in particolare, mi è capitato di conoscere alcuni volontari che operavano in carcere e, conversando, sono rimasta colpita dal loro operato. Così, quando ho avuto più tempo a disposizione, ho scelto di venire a Massa per offrire il mio contributo. Il trimestrale, secondo me, ha il potere di portare il mondo esterno all’interno del carcere e, contemporaneamente, è il mezzo grazie al quale gli ospiti della Casa di reclusione possono farsi conoscere e sentire dalla società, superando la limitatezza dei rapporti con i familiari. Per me, il miglior riconoscimento è l’affetto che ho ricevuto dagli ospiti, con i quali ho costruito un rapporto di collaborazione e stima».
Alla sua testimonianza si unisce quella di Angelo Gatti, Presidente del Coordinamento dei Gruppi di Volontariato nel carcere di Massa: «Nel lontano 1980, entrai per la prima volta in un istituto penitenziario con un incarico di 9 ore di lettere all’interno delle cosiddette 150 ore. Devo dire che fu un’esperienza talmente sconvolgente, data la disorganizzazione didattica e logistica, che avevo già preso dentro di me la decisione di non rinnovare la mia disponibilità, quando scoprii che la mia preside aveva garantito la continuità della mia presenza. Stimavo molto la persona e decisi, perciò, di continuare l’esperienza, dando il meglio di me; e in pochi anni la nuova struttura si rivelò efficace e seria. Da allora, molti detenuti si sono diplomati, e alcuni persino laureati. Nel frattempo, le attività si sono moltiplicate: il trimestrale, il calcio, i concorsi di poesia, l’accompagnamento dei detenuti affidati nei primi permessi premiali, le iniziative esterne al carcere con la presenza dei reclusi. Sono trascorsi 36 anni e le criticità non sono mancate. All’inizio, gli agenti di polizia penitenziaria si dimostravano diffidenti nei confronti dei volontari; e ho conosciuto direttori poco aperti se non addirittura settari. Ma con il tempo e la serietà dimostrata, sono riuscito a superare tale diffidenza tanto che oggi i rapporti sono molto cordiali. Dai detenuti con cui ho interagito ho ricevuto soddisfazioni, ma anche delusioni. Del resto, questi sentimenti fanno parte dell’esperienza personale in qualsiasi contesto di vita». E, rispetto all’importanza delle attività culturali e artistiche all’interno del carcere, aggiunge: «Ho notato che le esperienze formative favoriscono un cambiamento nei reclusi: un comportamento più serio e responsabile, un addolcimento del carattere, una maggiore sicurezza e tranquillità nei rapporti interpersonali, il rispetto delle regole. Anche se, per formazione, io mi occupo del trimestrale e dei laboratori di scrittura, l’attività teatrale, nel carcere di Massa, ha permesso ai detenuti di acquisire sicurezza, conoscenza delle proprie possibilità e limiti, spigliatezza espositiva, coscienza della propria identità personale».
LA VOCE DEL DIRETTORE, LA DOTTORESSA MARIA MARTONE:
Nel febbraio 2015, il garante regionale dei diritti dei detenuti, Franco Corleone, aveva elogiato la Casa di reclusione di Massa, affermando che: «Ci sono le condizioni perché diventi un’eccellenza», grazie alle celle aperte fino a 11 ore al giorno in alcune sezioni e alla molteplicità di attività svolte. Ma servono davvero le attività culturali al recupero del recluso? Secondo Martone: «tantissimo. E io sono convinta che anche nei detenuti c’è la percezione che non siano solo un riempimento di tempo. Sono importanti perché si lavora sugli aspetti culturali e artistici, ma anche sull’istruzione del detenuto; e tutto ciò porta allo sviluppo della creatività e del senso critico, aiuta a maturare e può essere l’occasione per rivedere un proprio vissuto. Del resto, io parto dal presupposto che nessuno nasca delinquente. Si è indotti a commettere dei reati sulla base di vissuti ampi, che possono essere di famiglia, sociali, psicologici, e altro. Necessariamente, quindi, bisogna lavorare sulla personalità del singolo. Le attività servono altresì ad abbattere la subcultura carceraria e ad aprirsi verso l’esterno, grazie al contatto con i volontari, gli educatori e i professionisti con i quali i detenuti interloquiscono».
Anche le poche criticità che sussistevano a Massa, nel febbraio 2015, sembra siano state superate, come racconta ancora il Direttore: «Da quell’incontro abbiamo aperto la nuova sezione, lo scorso 2 settembre. Il che ci ha consentito di realizzare l’ala del refettorio, così da creare uno spazio comunitario. Ho chiesto, infatti, l’aiuto allo psicologo per sviluppare nei detenuti l’idea della comunità, superando il culto del prepararsi il cibo all’interno della camera detentiva e, soprattutto, in bagno. Ma questo passo sarà difficile perché cucinare il proprio pasto è vissuto quasi come un rito e sarebbe una forzatura se si tentasse di imporsi. Inoltre, il nostro Provveditore regionale, il dottor Carmelo Cantone, ha finanziato la serra come azienda agricola, donando oltre 10.000 euro per realizzarla. E va sottolineato che i detenuti che vi lavorano, come operai agricoli, sono retribuiti come tali».
Ma è davvero così difficile realizzare un carcere diverso? Per Martone, al contrario: «È stato facile ampliare il regime organizzativo di questo istituto perché Massa, per tradizione, è una struttura a vocazione trattamentale. Le criticità sono legate principalmente alla carenza del personale. In primis, educativo, perché qui abbiamo detenuti con pene anche molto lunghe, per le quali l’osservazione della personalità dovrebbe essere scientifica. Dovremmo, quindi, avere a disposizione delle figure che istituzionalmente hanno un’esperienza e una formazione tali da poter verificare l’andamento dell’osservazione. In questa struttura, però, abbiamo solo due psicologi che hanno complessivamente 62 ore mensili di sostegno all’interno dell’istituto. E anche una carenza di polizia penitenziaria, dato che tutte queste attività e progetti si traducono inevitabilmente in processi di lavoro per chi opera nel carcere. Massa, negli ultimi anni, ha subito una forte diminuzione del personale. In soli due anni abbiamo perso 26 unità. Il che incide molto; ma resistiamo. In parte per la mia posizione di fermezza nel non interrompere i percorsi trattamentali, nonostante dal punto di vista oggettivo saremmo nella condizione di farlo - perché quando non si hanno risorse, ci si deve necessariamente fermare. E, in parte, per gli input che arrivano dal nostro Dipartimento, che fanno sì che il personale voglia continuare a operare nonostante le difficoltà».
Tutto ciò può sembrare utopico? Può suonare demagogico o uno spreco di fondi per uno Stato che, in un momento di crisi economica come quello che stiamo vivendo, non può permettersi? Tra i pochi studi che analizzano simili realtà, come il carcere di Bollate, va citato Delle pene e dei delitti: condizioni carcerarie e recidive, di Giovanni Mastrobuoni e Daniele Terlizzese, del 2014. Dati alla mano i due studiosi dimostrano come un carcere aperto (ossia dove le celle restano aperte più ore al giorno e i detenuti possono muoversi con una certa libertà nella struttura, svolgendo diverse attività e venendo responsabilizzati), costa di meno grazie “alla sorveglianza condivisa con tutti gli operatori (...a fronte di 1230 detenuti, si contano solo 430 poliziotti)”. Anche a Massa si stanno tentando nuovi metodi di sorveglianza, come racconta il Direttore: «Abbiamo sperimentato le modalità di sorveglianza dinamica soprattutto all’interno della nuova sezione, aperta recentemente. Però sotto questo aspetto mi permetto di fare un appunto di sistema. È vero che bisogna ragionare su una flessibilità diversa del personale. Però, secondo me, la conoscenza che il personale di polizia ha del detenuto, all’interno di una sezione, è un bagaglio di informazioni prezioso. Perché il poliziotto vede il detenuto in tutte le sue sfaccettature e manifestazioni. Quindi, va bene garantire una flessibilità più moderna che vada a ovviare alla carenza del personale, ma non perdiamo il valore fondamentale della conoscenza e della relazione. Il rapporto di vigilanza non è, infatti, solo in termini custodiali ma anche trattamentali».
Lo stesso studio di Mastrobuoni e Terlizzese indicherebbe, inoltre, che: “nel ridurre la recidiva... il lavoro all’esterno certamente facilita il reingresso nella società; ma il lavoro non si crea per legge. Anche solo condizioni dignitose, in un contesto responsabilizzante e operoso, sembrano efficaci”. Mentre lo studio del 2007 di Fabrizio Leonardi, Le misure alternative alla detenzione tra reinserimento sociale e abbattimento della recidiva, pone in evidenza i buoni risultati ottenuti, per evitare la reiterazione del reato, dall’affidamento in prova al servizio sociale. Martone concorda: «Dalla nostra esperienza, qui a Massa, posso dire che abbiamo avuto ottimi risultati con le misure alternative. È ovviamente impensabile che tutti riescano nel percorso esterno, che è comunque difficile e ostacolato da problemi concreti e criticità. Ma, anche facendo riferimento al target dei detenuti di questa Casa di reclusione, ci potrebbero essere tantissimi altri soggetti che potrebbero usufruire delle misure alternative. Quello che frena è la mancanza di punti di riferimento all’esterno, familiari e lavorativi. Perché se consentiamo ai reclusi di uscire dobbiamo anche dargli adeguati mezzi di sostegno, se non vogliamo che queste persone ricadano nel comportamento criminoso. Per mancanza di tutti questi aspetti, che non sono ovviamente secondari, molti soggetti sono privati di questa opportunità, nonostante all’interno del carcere stiano facendo un percorso trattamentale, psicologico ed educativo importante».
Ed è lo stesso Direttore che ricorda come gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale: «siano stati importanti in quanto momento di raccoglimento di idee che, ovviamente, andranno tradotte in azioni specifiche». E prosegue: «Credo che tutti i tavoli di lavoro abbiano avuto un comune denominatore, grazie anche all’interessamento del Ministro Orlando. Ossia quello di considerare il carcere una extrema ratio. Dobbiamo immaginare un carcere diverso, dove ci sono soltanto detenuti portatori di pericolosità sociale. Non dobbiamo più considerarlo un contenitore di emarginazione». Ma, a Massa, chi porta avanti queste attività (corso di teatro, scrittura creativa, redazione di un trimestrale, e altre)? A quanto sembra soprattutto i volontari, ed è la stessa dottoressa Martone a ringraziarli: «Il volontariato è una risorsa fondamentale e io dico sempre che i volontari dovrebbero essere considerati operatori penitenziari, dato che non avremmo mai potuto organizzare le molte attività senza la loro collaborazione. A maggior ragione qui, nel carcere di Massa, dove abbiamo un’area trattamentale precaria, con pochissimi educatori, e nessuno tra loro formalmente assegnato a questa sede. Di conseguenza, noi ci rapportiamo con educatori che provengono da altri istituti in giorni alterni. E, nonostante tutto, i progetti trattamentali proseguono».
Eppure i mass media, spesso, preferiscono dedicare spazio alla caccia alle streghe o al singolo fatto eclatante. Il recente caso di Doina Matei - e della sospensione momentanea della sua semilibertà -dimostra come una larga fascia della popolazione non concepisca termini quali il reinserimento, non comprenda che un cittadino recuperato è un arricchimento per la società nel suo complesso. Mentre la stampa, spesso, non smorza i toni bensì - a volte - aizza l’opinione pubblica coniando anche soprannomi quali “la killer dell’ombrello” (come in questo caso). Questo clima e il ruolo dei mass media cambiano la percezione collettiva? «Da operatore penitenziario», risponde il Direttore: «posso dire che gli eventi portati all’esasperazione non ci influenzano, perché noi cerchiamo di fare un discorso legato alla persona, in uno specifico contesto e in una particolare situazione. Non avrebbe senso generalizzare. Altrimenti, non si spiegherebbe perché si concedano misure alternative a persone che hanno pene molto lunghe e hanno commesso reati molto gravi, quali l’omicidio. Vero è che questi slogan hanno effetto non tanto sulla cittadinanza in quanto tale, bensì sulla politica. Questo è il problema di fondo. La politica dovrebbe rimanere lontana dalla propaganda e arrivare a una modifica del sistema penale, pensando che la stessa non potrà essere sganciata dalla modifica del sistema carcere. Faccio un esempio. L’omicidio colposo stradale. Si è andati a intervenire su questo reato a causa dell’enfasi posta sullo stesso, quando noi avevamo già tutti gli strumenti giuridici adatti».
L’istituto penitenziario, in futuro, potrà diventare realmente l’extrema ratio in uno Stato autenticamente democratico, dove il focus si concentri su recupero e reinserimento. Al momento, però, è spesso un luogo traumatico, o peggio: un luogo dove si può incontrare la morte. Il Direttore racconta che, a Massa, hanno: «Una sezione filtro che accoglie i detenuti ancora imputati e quelli che entrano in carcere per la prima volta. Perché quando si varca quella soglia, anche se non si hanno problemi psicopatologici gravi, si potrebbe vivere una situazione di disagio; in quanto, quando altri limitano, anzi azzerano, la nostra libertà personale, si crea uno scompenso. Si dovrebbe tenere a mente che, anche qui, i detenuti devono ottenere l’autorizzazione per fare qualsiasi cosa. In gergo le autorizzazioni si chiamano “domandine”, e sono dei fogli di carta che permettono di acquistare l’acqua, un dolce o di fare una telefonata. E si badi bene che, nel nostro caso, parliamo di un istituto dove vige un regime penitenziario aperto, in cui c’è una certa libertà di locomozione perché, a differenza di altre strutture, i detenuti si possono spostare dalla loro sezione a quella dove si sviluppano le attività trattamentali o alle aule scolastiche da soli, senza l’accompagnamento e l’autorizzazione scritta».
Eppure quando si esce, qui a Massa, dalla Casa di reclusione, si prova la sensazione che un sistema che funziona è davvero efficace e che è tempo che si dia seguito alle parole, mettendo in pratica quanto previsto dalla nostra stessa Costituzione (Art. 27, comma 3): “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Simona Maria Frigerio
Si ringrazia l’Associazione Antigone per le informazioni fornite sugli studi in merito ad attività culturali e recidiva. Si ringraziano il Direttore, il personale, i volontari e gli ospiti del Carcere di Massa per la loro disponibilità. E il collega della Nazione, Raffaele Nizza, per le foto.