(ASI) Italia – 24 maggio 2015. Ebbene siamo arrivati al centenario. Esattamente un secolo fa l'Italia scendeva in campo contro l'Impero Austro – Ungarico, il nemico secolare.
Cent'anni dopo, le tv italiane ed austriache si sincronizzano per il ricordo, l'Italia si blocca alle 15 per un doveroso minuto di silenzio e le rievocazioni, seppur limitate, ci sono. Qual è tuttavia il significato di questa data?
Gaetano Salvemini non riusciva a capacitarsi che il Governo fascista avesse posto questa data come festività nazionale. Chiaramente, lui non riusciva ad intenderlo, essendo nata dalle trincee l'Italia che lui ripudiava. Eppure, il suo errore si può definire enorme. Le migliori istanze della nazione sono scese in campo, credendo in una guerra di rigenerazione morale e nazionale, o addirittura, come avrebbe detto Giovanni Gentile «le grandi forze morali» si sarebbero «purificate da questo gran lavacro di sangue, per tutta l'umanità». (1)
D'altronde, moltissimi che poi avrebbero fatto altre scelte di campo sono stati interventisti: pensiamo ad Antonio Gramsci, a Togliatti, ad Adolfo Omodeo, a Pertini. L'essere stati interventisti non è stato solo un appannaggio di fanatici dannunziani o fascisti ante litteram. Diverse sono state le categorie che hanno incrociato il loro cammino in quel che poi ha preso il nome di "maggio radioso": dai sindacalisti rivoluzionari agli irredentisti, dai nazionalisti ai socialisti (in contrasto con la linea ufficiale) per finire con i futuristi. Probabilmente una minoranza nel Paese, ma come si fa a non pensare ad essa come motore insopprimibile di un'idea migliore di Nazione, redentrice tout court?
Curzio Malaparte, al secolo Kurt Erich Suckert, nel suo Viva Caporetto – La rivolta dei Santi Maledetti (2) – riesce a riassumere altresì lo scopo della loro guerra all'Austria, ossia quella dei socialisti rivoluzionari. Non era tanto conflitto all'Austria – Ungheria, in sé e per sé, bensì possibilità di riscatto, di rigenerazione e rivoluzione nazionale. Trattasi dunque per Malaparte di protofascismo, che vedeva per la prima volta la luce nelle "radiose giornate del Maggio del 1915", dove i tribuni dell'intervento agitavano le piazze per veder realizzato quel sogno proseguito il 23 marzo del 1919 e poi il 28 ottobre 1922. Una rigenerazione che doveva passare per il sangue, per le aspettative, per le tensioni e per la sconfitta di Caporetto, naturalmente.
Come non pensare poi alle avanguardie letterarie, quali Lacerba e La Voce, espressioni pure della protesta di una generazione che fremeva per un'Italia migliore, idealizzando, e talvolta, vedendo morire sotto i propri occhi il loro mondo secolare, come nel caso degli irredenti triestini.
Probabilmente, in quel periodo, come per magia, si sono raccolte le migliori istanze della Nazione. La guerra, anche definita inutile strage, ha visto eroismo e distruzione, morte ed ancora morte. Fa sorridere il vedere le poesie di Ungaretti trasmesse per tv, quando siamo comodamente seduti in un divano ad ascoltarle, quand'egli invece vedeva falciata miseramente la (sua) migliore generazione. Fa sorridere inoltre come le toponomastiche di migliaia di città nostrane, non dicano nulla a moltissimi italiani. Oslavia, Monte Grappa, Carso, Sabotino, Ortigara, Pasubio, o città irredente come Fiume, Zara o Pola, hanno costituito il sangue delle nostre giovinezze di cent'anni fa, ed ora, per una mera ingratitudine, non siamo in grado non solo di localizzare i luoghi in una carta geografica, ma nemmeno di rendere grazie ad un estremo sacrificio. Eppure, ognuno di noi ha avuto un parente che ha combattuto, che è morto o che è rimasto in uno di quei giganteschi (e doverosi) Sacrari, ove la scritta Presente ci ammonisce tuttora.
Molti non si rendono ancora conto come sia potuta nascere un'altra Italia dalle trincee. Nessuno di noi ha provato il fango, la fatica, il gelo, il sudore, la miseria, la bassezza morale di quei giorni infernali. Nessuno di noi ha sognato di liberare la sua città dal giogo straniero, quale ideale mistico – romantico irrinunciabile. Nessuno di noi riesce a credere, se non a parole in certi casi, che morire per la Patria (oggi) sia una "bella morte". Non avevano nulla da perdere i ragazzi delle trincee, così come gli arditi del Piave quando difendevano il Grappa o Cavazuccherina. E loro, solamente loro avrebbero potuto generare l'Italia dei Combattenti, che aveva preso forma proprio nel fango delle trincee. Non poteva essere un Italia tecnocratica, né in mano a dei gruppi di potere: tutt'altro. Doveva essere l'Italia sorta dalla "democrazia" delle trincee, voluta a costo della vita, da ragazzi che avevano a malapena 17 e 18 anni nel 1918. Non si fraintenda, le fucilazioni sono state all'ordine del giorno, e di democratico la vita militare aveva gran poco. Ma l'eredità, non poteva che essere loro, di quella generazione.
E' stato scritto, detto e ripetuto che sarebbe assurdo rendere onore all'entrata in una guerra mondiale. Certo, con gli schemi mentali odierni lo è. Questo vale per ogni conflitto, ed è lapalissiano. Eppure, ci si ferma sempre alla sostanza: i morti. Il cui ricordo è doveroso, e 680.000 morti con un milione di mutilati non sono certo uno scherzo. Invece, se volessimo veramente capire quale grande prova ha rappresentato la Grande Guerra, dovremmo intendere le ragioni ideali e morali dei combattenti. Sbagliate? Può anche darsi. Ricordiamoci che stiamo giudicando i nostri nonni e bisnonni, i quali sentivano il dovere di regalarci un mondo migliore. Avranno sbagliato il metodo, ma non l'idea. Siamo soliti guardare con gli occhi di oggi, incapaci di vedere quanto male vi sia nei tempi moderni, criticando aspramente il passato. Troppo facile e comodo. Se gli italiani vogliono capire quale è stato l'enorme sacrificio passato, passino una notte sacra sul Piave. Accendano una luce. Evochino, i loro cari, che si affratellavano nella morte cent'anni fa. Dormano lì, senza remore. Quando avranno recuperato il senso e la dimensione della sacralità, perduto ormai da decine e decine di anni, potranno capire quanto immenso è stato il 24 maggio del 1915.
Concludo ringraziando il mio bisnonno, che è partito cent'anni fa da un paesino della Puglia per combattere sul Monte Grappa e fermare l'avanzata degli austriaci. Un uomo come tanti, un soldato italiano, un combattente, silenzioso, per la Patria.
(1) (lettera di Giovanni Gentile ad Adolfo Omodeo 15 luglio 1915, in Carteggio Gentile, 1974, p. 167
(2) Viva Caporetto!, come Curzio Erich Suchert, Prato: Stabilimento Lito-Tipografico Martini, 1921
Valentino Quintana per Agenzia Stampa Italia