(ASI) Sgomento. E' la prima reazione psicologica di qualunque essere umano dotato di buon senso, subito dopo aver appreso la notizia di quanto avvenuto a Parigi mercoledì scorso.
A quattro giorni di distanza, però, l'emozione e la rabbia per la strage compiuta dai quattro estremisti legati all'ISIS, devono essere incanalate lungo il corso della ragione. Gli ultimi venticinque anni di storia hanno lentamente disabituato gli europei a discutere, dibattere ed approfondire la politica internazionale. Dopo il crollo del Muro di Berlino, si è pensato che gli affari esteri fossero qualcosa di meno preminente rispetto all'integrazione europea, ma soprattutto che gli Stati Uniti, freschi vincitori della Guerra Fredda, potessero coprire, da soli, l'intero spettro della sicurezza globale. Così, ovviamente, non è stato. A partire dalla prima Guerra del Golfo, le politiche di Washington non hanno solo evidenziato i giganteschi limiti contenuti nella sua dottrina strategica generale, ma anche messo in pericolo l'intero pianeta nel segno dell'irresponsabilità, della tendenza all'unilateralismo e dell'incapacità (o dell'assenza di volontà) di trasformare i successi militari in successi politici.
L'ultima catastrofica parabola della Casa Bianca si conclude proprio nella redazione della testata satirica francese "Charlie Hebdo", tra i cadaveri freddati dal commando takfirista. Dopo quasi quattro anni di sostegno acritico ed incondizionato alle cosiddette "primavere arabe", cominciati con l'intervento militare in Libia in appoggio ai "ribelli" anti-Gheddafi, la NATO oggi finisce necessariamente sul banco degli imputati per aver favorito, foss'anche soltanto indirettamente, l'avanzata del jihadismo in tutto il mondo islamico. Negli ultimi quattro anni, la cattura e l'uccisione di Osama bin Laden ad Abbottabad in Pakistan rappresenta un episodio isolato, una vittoria di Pirro, di fronte a cui qualunque esultanza, col tempo, si è rivelata del tutto fuori luogo. Gli attacchi terroristici o di guerriglia sono aumentati, a vari livelli, in tutto il mondo, colpendo l'intero Medio Oriente, la Russia, la Cina, il Pakistan, l'Afghanistan, l'Africa centrale, gli Stati Uniti e ora pure l'Europa.
Oggi è ancor più evidente che chiunque abbia parlato di "opposizioni democratiche" o di "ribelli moderati" nei Paesi destabilizzati e assaltati dall'integralismo, ha tragicamente sottovalutato il peso dell'emotività "tradizionalista" di una parte importante della popolazione in quei contesti arabi. Il ruolo dei gruppi radicali - salafiti, takfiri, wahhabiti o in qualunque altro modo li si voglia chiamare - negli sconvolgimenti andati in scena tra la primavera del 2011 e il giugno del 2012, è stato determinante. La Fratellanza Musulmana, volto ammiccante e presentabile del conservatorismo islamico, ha potuto prendere in mano il governo del Cairo col beneplacito degli Stati Uniti, mentre per le strade d'Egitto procedevano impunite le persecuzioni e le discriminazioni dei musulmani sciiti e dei cristiani. Per un anno intero, l'ex presidente Morsi e il suo Partito Libertà e Giustizia si sono arrovellati a decidere le nuove norme religiose da inserire nel testo costituzionale e a tessere le nuove relazioni internazionali, fino a proporre la cessione del'intero patrimonio culturale nazionale al Qatar. Nel frattempo, in larga parte del Paese venivano a mancare persino cibo e carburante. Sebbene portato avanti con crudezza, il golpe militare guidato dal suo ex ministro della Difesa, il generale laico al-Sisi, ha avuto il merito di raccogliere il profondo malcontento popolare di milioni di egiziani, che oggi possono tornare a guardare con speranza al futuro, fuori dal pericolo della regressione, della violenza e dell'imbarbarimento.
Altrettanta fiducia possono riporre i siriani nel presidente Bashar al-Assad, che i governi occidentali hanno fatto a gara per processare, accusandolo delle peggiori nefandezze, ed indebolire politicamente, mentre la macchina della propaganda e le reti dell'associazionismo "soft-islamista" suonavano i tamburi di guerra contro la Repubblica Araba di Siria. Nel settembre 2013, dopo l'annuncio mondiale di Barack Obama e François Hollande, la NATO era nuovamente sul piede di guerra e stava per intervenire in Siria contro le forze governative. Le titubanze inglesi si accompagnarono alla contrarietà tedesca e ai dubbi critici dell'Italia, ma fu soltanto il deciso intervento di Vladimir Putin ad impedire non solo che si desse il via all'ennesimo spargimento di sangue in Medio Oriente ma anche che l'intero territorio siriano finisse nelle mani dei miliziani estremisti. Pochi mesi dopo, l'opinione pubblica europea venne a conoscenza dell'ISIS, una formazione già attiva da due anni in Siria, dopo quasi otto anni di attività terroristiche compiute nel solo Iraq sotto altre sigle (AQI e ISI). Oggi l'ISIS sembra un soggetto autonomo persino da al-Qaeda, proprio a partire dalla sua espansione in territorio siriano, dove col tempo è entrato in conflitto con Jabat al-Nusra. Tuttavia, al pari di quest'ultima formazione, anche l'ISIS è il prodotto di una filiazione della rete qaedista. L'egemonia acquisita ai danni di al-Nusra e delle milizie dell'Esercito Libero Siriano non sposta di una virgola l'obiettivo di fondo di chiunque oggi voglia rovesciare con le armi l'ordinamento costituzionale siriano: stabilire uno Stato islamico fondamentalista di matrice sunnita, fondato sulla Shari'a, in un'area tradizionalmente multi-confessionale, che conta centinaia di migliaia di fedeli non-sunniti, tra cristiani (ortodossi, copti e cattolici) e altri musulmani (sciiti, alawiti e yazidi).
Ormai è sempre più evidente che l'Europa non può continuare a delegare la sua politica di difesa e sicurezza agli Stati Uniti. E' necessario riprendere in mano il processo di finlandizzazione del Vecchio Continente, rimasto lettera morta dai primi anni Novanta e prontamente sostituito da una gigantesca ed inspiegabile espansione della NATO verso Est, causa di continue tensioni con uno dei principali partner economici di Italia, Francia e Germania: ossia quella Russia che con l'estremismo islamista è stata costretta a fare i conti negli anni Ottanta, durante la guerra in Afghanistan, e tra gli anni Novanta e gli anni Duemila, in Cecenia e in Daghestan. Vladimir Putin e il popolo russo hanno pagato a carissimo prezzo l'intransigenza nei confronti del terrorismo, tra metropolitane esplose e teatri assaltati, sino al drammatico epilogo dell'infame strage di bambini a Beslan. Eppure, oggi, la Cecenia, sotto la guida del governatore Ramzan Kadyrov, appare rinata: ha modernizzato le sue infrastrutture, ha aumentato i livelli di qualità della vita e ha emarginato l'estremismo in angoli sempre più ristretti, sebbene da non tralasciare. Anche all'epoca, ben più di qualche stolto in Occidente tentò di legittimare l'assalto jiahdista alla scuola, richiamando le guerre condotte dalla Russia nella sua regione caucasica e fingendo che Chemil Basayev (l'al-Baghdadi ceceno) fosse un eroe della libertà.
Sebbene in Occidente se ne rammenti uno solo, è sempre opportuno ricordare che gli "Undici Settembre" nel mondo sono stati tanti, alcuni dei quali persino precedenti a quello newyorchese. Quello che stupisce è che a Washington, per primi, se ne siano completamente dimenticati, preferendo anteporre i propri interessi strategici in Medio Oriente alla sicurezza globale, l'isolamento dello storico nemico iraniano alla democrazia, la frammentazione alla stabilità sociale. I fattori di rischio che gli Stati Uniti, con le loro politiche, hanno concorso a generare, potrebbero ben presto diventare incontrollabili per un'Europa che, per metà del suo territorio, si affaccia sul Mediterraneo e che ha consentito l'ingresso nei propri mercati ai capitali di monarchie teocratiche come l'Arabia Saudita e il Qatar, che continuano indisturbate a promuovere l'islamismo.
Fais Andrea - Agenzia Stampa Italia