(ASI) Padova - Scrivo quest'articolo da Padova, ex capitale del fronte, ex luogo fisico di firma dell'Armistizio di quel lontano 4 novembre 1918. Sono stato uno dei più fervidi sostenitori del ricordo della Festa della Vittoria e delle Forze Armate.
Chi ricorda i miei scritti passati, troverà uno di quei singoli che sostenevano il dovere del ricordo di fronte al muro del silenzio. Questo silenzio è calato col passare degli anni, dovuto sicuramente a diversi eventi: la sconfitta bellica del secondo conflitto mondiale, e il conseguente antimilitarismo di facciata; il '68 e lo sconvolgimento dei valori tradizionali; la morte dei reduci delle trincee. Il certificato di nascita dell'Italia, "firmato" col sangue, è stato sepolto così nelle anguste sale di Villa Giusti, in quel salone che tanto aveva colpito in negativo l'osservatore Ugo Ojetti.
Sono stato un fervido sostenitore del ricordo perché mi sembrava impossibile relegare all'oblio i caimani del Piave, gli Arditi, i Fanti, gli umili eroi del Grappa e del Piave. Ritenevo impossibile che una nazione obnubilasse se stessa in questo modo, e seppure qualche riga potevasi ritenere inutile, il tentativo andava fatto. Nel 2008 sono cominciate le "celebrazioni a comando". In quel periodo cadeva il novantesimo della vittoria per l'Italia, e all'improvviso, fiorirono: pubblicazioni, manifestazioni, conferenze, rievocazioni storiche. Anni e anni di silenzio per ritornare, come se nulla fosse, a riparlare della "Grande Guerra". Un inserimento ex novo di un corpo diventato quasi estraneo, di un'eredità perduta: questo è stato l'innesto di un anniversario importantissimo. La stessa ed identica cosa sta accadendo in questa fine 2014: gli editori si sono affidati ai loro migliori storici, i musei cercano di fare il pieno, le commemorazioni si sprecano. Grande Guerra può volere dire, secondo molti soloni: opportunità di turismo, crescita per l'editoria, materiale di inserti per i giornali. Tutto perfetto, si potrebbe pensare. Ed è proprio per questo, invece, che bisogna analizzare quanto sia sbagliato tutto ciò.
Quale senso può avere il vedere delle vecchie foto ingiallite di novant'anni, senza nemmeno capire quale fosse il pensiero ideale di chi è sceso in campo cent'anni fa? Per quale motivo i telegiornali dovrebbero proiettare le foto dei primi bombardamenti, se non riusciamo ad intendere che Italia e che Europa siano scaturite da quei quattro anni di guerra di trincea?
Non mi stancherò mai di ripetere che le motivazioni che hanno mosso gli interventisti - intervenuti nel 1915 sono state diversissime. Se da un lato si ponevano i desiderosi della rivoluzione nazionale, che vedevano il conflitto con base per instaurare il cambiamento, dagli altri si ponevano democratici, mazziniani, irredentisti, socialisti rivoluzionari. Categorie diversissime per un unico obiettivo: l'Italia. Ed è dall'Italia delle trincee, maltrattata, massacrata, vilipesa fino al midollo che nasce quella della riscossa e della resurrezione. E' in quel fatidico dopoguerra, ove il Paese era paralizzato come ai nostri giorni, che arriva il cambiamento. Ed è proprio questo che viene taciuto, magicamente, dal "grande ricordo collettivo".
Il ricordo del 2014 ci impone di guardare "all'inutile strage", al "suicidio d'Europa", "alle immagini tristi", senza considerare, completamente, le motivazioni ideali dei belligeranti. Se bisogna rimembrare, lo si faccia "chiedendo scusa alle generazioni precedenti", per l'immensa tragedia collettiva. E sì, in parte è corretto. Se consideriamo che dei giovani diciassettenni hanno perduto la vita in angoli sperduti d'Europa, è stata "un'inutile strage". Tuttavia, se consideriamo la grande prova nazionale, la coesione e la nascita della nostra Nazione, redenta in ogni angolo, l'aspirazione a potenza europea, e la riscossa futura, cominciata proprio in quelle trincee di un fronte immenso, allora la Grande Guerra Italiana, festeggiata e ricordata il 4 novembre, assume tutt'altro significato.
Questa Repubblica non può innestare, servendosi di anniversari del centenario, un qualcosa a cui ha rinunciato anni fa, e che non le appartiene più. Giova sempre ricordare che i combattenti del Carso e del Grappa, quelli della Bainsizza e del Piave non hanno combattuto per la Repubblica nata nel '46. E' per questo che ha spinto, sino all'estremo la cancellazione di questa Festa Nazionale, salvo recuperarla, pochi anni orsono, per fini turistici. Oltremodo, se veramente vogliamo essere participi di un ricordo serio e partecipato, in comunione con coloro che hanno perso la vita 100 anni fa, dobbiamo capire cosa abbia spinto loro quella o questa scelta di campo.
L'Italia, orfana di un'identità, in preda alla decadenza morale e materiale più assoluta, fatica a comprendere tutto ciò. Perciò, mi sento di parlare di ricordo "mutilato". Se la vittoria, non aveva accontentato le aspirazioni dei combattenti e degli interventisti (vincitori), gli italiani non si debbono illudere di recuperare 100 anni di storia in un giorno, suonando semplicemente le note della Canzone del Piave. La classe politica che sarà presente alle celebrazioni, (obbligata dal protocollo istituzionale), è la medesima che intervistata davanti al Parlamento, il 24 maggio scorso, non sapeva nulla né degli interventisti né dei neutralisti. Essi stessi sono stati i promotori di una rimozione dell'humus del popolo italiano, difficile stupirsi di ciò. Concludendo, la generazione che ha preso le armi in mano nel '15, sognava un'Italia migliore. Avrà sbagliato, nel metodo. Non nell'idea. Se vogliono convincerci che i ragazzi del Piave hanno commesso un errore, allora non bisognerebbe nemmeno festeggiare. Invece, la logica vuole un altro percorso: capire perché hanno agito, comprendendo, che anche oggi, a cent'anni di distanza, anche noi possiamo cambiare il nostro futuro. Non emigrando, ma "lottando" a casa nostra. Perdendo, come a Caporetto. Battendo in ritirata, perché il nemico non ci risparmierà. Eppure, il Piave ed il Grappa ci hanno insegnato che si può resistere e vincere. Vogliamo festeggiare il 4 novembre? Scendiamo nei loro luoghi. Affolliamoli. Leggiamo cosa hanno scritto cent'anni fa. Capire il passato, per non perdere il presente.
Valentino Quintana per Agenzia Stampa Italia