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Cynthia Rodriguez: dura la vita dei giornalisti messicani

Fabrizio Di Ernesto intervista in esclusiva per Agenzia Stampa Italia la giornalista messicana Cynthia Rodriguez

Cynthia Rodriguez è nata a Città del Messico nel 1972. Si occupa di giornalismo da quando aveva 16 anni; da quattro anni vive nel nostro Paese e collabora cpon varie testate. Nel 2009 ha pubblicato, ancora inedito in Italia, Contacto en Italia – el pacto entre Los Zetas y la ‘Ndrangheta.


Abbiamo incontrato la giornalista messicana Cynthia Rodriguez con la quale abbiamo fatto un parallelo tra il suo Paese e l’Italia.


Com’è la vita dei giornalisti messicani che si dedicano alle inchieste?

La vita dei giornalisti messicani è sempre stata difficile; mancano gli strumenti per approfondire le questioni. Il sistema messicano non vuole che si arrivi a conoscere determinate verità. C’è un grosso problema legato alla corruzione ed in più servono molto mezzi e molte risorse. Oggi con la scusa della crisi ai giornalisti vengono fatti mancare importanti fondi.

 Cosa rappresentano i “giornalisti a piedi”?

Inizialmente era un gruppo composto da sole donne preoccupate perché l’informazione legata ai grandi temi sociali veniva sminuita e taciuta, spesso perfino messa da parte. Oggi le loro inchieste si sono allargate anche ad altri temi; è rimasta però la volontà di dar voce ai problemi ignorati. Attualmente molti di questi si dedicano alle problematiche legate al commercio della droga ed al ruolo dei narcotrafficanti.

 
In Italia ormai il giornalismo sembra aver perso la propria autonomia e appare troppo dipendente dalla parte politica di riferimento. In Messico com’è il rapporto con i poteri forti?

In Messico se una notizia finisce sul giornale è per favorire il governo, anche quando può sembrare che la notizia vada contro la maggioranza e viene presentata in modo molto diversa. Manca l’onestà.


 Da alcuni vive in Italia. Che idea si è fatta del nostro Paese?

In Italia c’è molta lentezza nell’erogare i servizi. Quando sono arrivata a Roma da Città del Messico ho dovuto aspettare tre mesi prima di avere la connessione ad internet. Prima pensavo che il Messico fosse il Paese più corrotto del mondo, poi ho scoperto che questo problema è presente anche da voi. La differenza è che in Messico si cerca di negare questa realtà. Sempre in Messico si tende a minimizzare il problema legato alla criminalità mentre qui se ne ha una maggiore conoscenza e consapevolezza. A livello giornalistico poi qui non solo si fanno più inchieste, ma per di più le si fanno anche su aspetti che a prima vista potrebbero apparire secondari ma che in realtà non lo sono affatto.

 
In Messico la popolazione che percezione ha dei narcotrafficanti?

Dipende dalle zone.

Al nord se ne ha una maggiore informazione anche perché in quelle zone il problema è presente da più anni. Nel resto del Paese ci sono altri problemi e di conseguenza la consapevolezza di questo è minima. Ora però a livello nazionale è diventata la problematica principale e nelle persone cresce la voglia di essere informati su questo tema. L’informazione però è moderata dal governo che preferisce dare notizie eclatanti, sequestri e arresti, tacendo però su corruzione e rapporti tra poteri forti e criminalità.


 È stato difficile reperire le informazioni necessarie per il suo libro?

No, anche se mi sono dovuta impegnare molto. Praticamente ho bussato a tutte le porte possibili. Per la parte istituzionale è stato molto facile; più difficile poi quando mi sono spostata sul campo nel sud Italia. Ho dovuto fare molti viaggi, alla fine però ho trovato varie strade che confermavano quanto avevo appreso in precedenza.


 Il suo libro si apre con una citazione del giudice Paolo Borsellino. Come mai questa scelta?

Conoscevo già la sua storia. Ho scelto quella in particolare perché quando ho iniziato a raccogliere materiale avevo paura. Venire in Italia e lasciare tutti gli affetti in Messico non è stato facile. Mi sono accorta che il valore che si da alla vita è minimo. Avevo paura, ma scrivere un libro come questo mi ha cambiata, volevo che la gente capisse che non è sbagliato avere paura. L’importante è utilizzare questa paura per provare a cambiare le cose.

 
Che accoglienza ha avuto in patria il suo libro inchiesta?

È stato accolto con entusiasmo. C’erano molte aspettative, la mafia italiana da noi si conosce per film come “il padrino” e si pensa quasi che sia una società estranea al contesto civile.


 Adesso sta lavorando a qualche nuova inchiesta?

Si, sto completando il discorso avviato con Contacto en Italia. Mi sto concentrando in special modo sulla parte che riguarda il Messico che è il Paese che più mi preoccupa; da noi manca il ruolo che ha in Italia l’agenzia anti mafia.

 

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