(ASI) Oggi, quello di Derek Rocco Barnabei è un nome che alla maggior parte dell’opinione pubblica italiana non suscita alcun ricordo. Undici anni, d’altronde, rappresentano un intervallo di tempo troppo lungo, al netto del quotidiano bombardamento mediatico cui siamo sottoposti, perché le nostre memorie non restino scalfite. I moderni metodi d’informazione privilegiano la suggestione estemporanea alla comprensione dei fatti approfondita. E’ così che la recente assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito per il delitto di Meredith Kercher gode di una sovraesposizione mediatica tale da rendere ancora più assordante il silenzio che aleggia intorno alla morte di un innocente, quell’italo-americano di nome Derek Rocco Barnabei che il 14 settembre del 2000 la giustizia americana decise di uccidere con un’iniezione letale, a seguito di un’indagine dall’ignobile percorso costellato di falle e pregiudizi. All’epoca dei fatti l’interesse dei media nostrani fu importante, a tal punto da far scaturire una mobilitazione trasversale a favore di Barnabei che comprese, tra gli altri, il parlamento europeo e Papa Giovanni Paolo II. Ciò non servì, tuttavia, a evitare che il boia agisse. Immediatamente dopo l’esecuzione, a Siena, città d’origine di Barnabei, nacque però una Fondazione a lui intitolata che ancora oggi è attiva e si batte per l’abolizione della pena di morte nel mondo. Abbiamo incontrato Fabrizio Vigni, parlamentare dei Democratici di Sinistra - l’Ulivo fino al 2006 e membro della Fondazione Derek Rocco Barnabei, per rispolverare un caso che ancora oggi reclama giustizia.
Lei ha seguito per anni la vicenda umana e giudiziaria di Derek Rocco Barnabei, contribuendo a concederle una risonanza significativa. Ci spieghi come nasce questa disavventura giudiziaria e i motivi che portarono lei a interessarsene sostenendo la causa d’innocenza di questo nostro connazionale.
Tutto cominciò con un articolo di America Oggi, ripreso dal Corriere della Sera con il titolo “Un senese nel braccio della morte”. Il nonno paterno di Derek aveva vissuto a Siena, prima di emigrare negli Stati Uniti intorno agli anni ’20. Riuscii a contattare la madre Jane, nel New Jersey, con l’aiuto del consolato italiano. Da lei appresi i primi elementi della storia: Derek era stato condannato con l’accusa di aver ucciso la fidanzata Sarah, in Virginia, si dichiarava innocente, da anni chiedeva invano la prova del DNA. Prima di ogni altra cosa aprimmo una sottoscrizione, a Siena e in Parlamento, per aiutare la famiglia a sostenere le spese legali. Il resto della storia è noto: la crescente mobilitazione dell’opinione pubblica, l’impegno del Parlamento italiano e di quello europeo, gli appelli accorati del Papa e del Presidente della Repubblica. Senza, purtroppo, riuscire alla fine a salvare la vita di Derek. Mi chiede quale fu la motivazione del mio impegno? Semplice: la convinzione che ci si debba battere contro la pena di morte sempre, in ogni caso. Voglio dire, a prescindere dall’innocenza o dalla colpevolezza dell’accusato. La pena di morte è comunque un orrore. Un orrore che va cancellato dalla faccia dalla terra.
Barnabei fu giudicato colpevole nonostante l’inconsistenza delle prove a suo carico. Egli, convinto della sua innocenza, rifiutò la proposta di patteggiare un reato minore che avrebbe comportato sette anni di reclusione e chiese l’esame del Dna. Proprio quest’ultima prova, tuttavia, finì per condannarlo definitivamente. Perché?
La vicenda giudiziaria fu complessa e contraddittoria. Difficile riassumerla in poche parole. Voglio ricordare solo che la prova del DNA, per anni negata, fu improvvisamente concessa dal governatore della Virginia alla vigilia dell’esecuzione. E lì cominciò la pagina più sconcertante dell’intera vicenda. L’armadietto del tribunale di Norfolk dove erano custoditi i reperti fu trovato manomesso; la prova del DNA fu effettuata senza ammettere la presenza dei rappresentanti della difesa, e si concluse con l’esito che sappiamo.
Esistono validi motivi per ritenere che quello messo su contro Barnabei fosse un meccanismo finalizzato a condannarlo, anche contro ogni ragionevolezza giudiziaria?
Onestamente non saprei e non potrei dirlo. Certo è che il processo ebbe molte pagine sconcertanti, tanto da far dire ad uno dei più famosi avvocati americani, Alan Dershowitz, di essersi trovato di fronte ad “uno dei più grandi aborti giudiziari mai visti”.
Ritiene che l’origine italiana dell’imputato abbia influito sulla scelta del Tribunale della Virginia di pronunciarsi così sommariamente per la condanna a morte? Se sì, perché?
Anche questo non potrei affermarlo con certezza. Quel che è certo è che le statistiche ci dicono che la pena di morte, negli Stati Uniti, colpisce prevalentemente le persone di colore, le minoranze etniche, e chi non ha i soldi per permettersi i migliori avvocati. E che durante il processo più volte furono usati toni di disprezzo verso le radici italiane di Barnabei.
Lei incontrò diverse volte Barnabei e rimase in costante contatto telefonico con lui, fino a poche ore prima dell’esecuzione. Che uomo ha avuto modo di conoscere?
Un conto è battersi contro la pena di morte in astratto, come mi era capitato di fare in tante occasioni precedenti. Tutt’altra cosa è avere davanti un nome, un volto, una persona. All’inizio ho conosciuto Derek attraverso le lettere, poi l’ho incontrato, più volte, nel braccio della morte. Era un ragazzo quando Sarah fu uccisa, un uomo di trentatré anni al momento della sua esecuzione. Una persona di grande intelligenza, colto, sensibile.
Quando nasce e quali iniziative svolge la Fondazione a lui intitolata al fine di combattere la pena di morte nel mondo?
Fu proprio Derek, nel corso dell’ultimo colloquio in carcere pochi giorni prima dell’esecuzione, a chiedermi di costituire una Fondazione. Io cercavo di dirgli che c’erano ancora delle speranze - la prova del DNA, gli appelli del Papa e del Governo italiano, il ricorso alla Corte Suprema - ma lui aveva già capito che non c’era più una luce in fondo al tunnel. “Abbiamo perso una battaglia - disse - ma la guerra contro la pena di morte la vinceremo”. E la madre Jane, una donna straordinaria, che ora è presidente onorario della nostra Fondazione, volle lei per prima trasformare il dolore immenso della perdita di un figlio nella battaglia per salvare altre vite: sulla lapide della tomba di Derek, sepolto in un cimitero vicino Philadelphia, fece scrivere “The fight goes on”. La battaglia continua. Ecco, la Fondazione Derek Rocco Barnabei è nata per continuare a combattere, per l’abolizione della pena di morte in ogni parte del mondo. Una parte importante dell’attività della Fondazione è rivolta verso le scuole, è un lavoro di carattere culturale. A questo si accompagnano ovviamente iniziative di solidarietà e di mobilitazione su casi di singoli condannati a morte, e l’impegno di carattere più generale per il riconoscimento dei diritti umani.
Il cinema, con la sua immediatezza, svolge un ruolo importante per stimolare dibattiti presso l’opinione pubblica. La Fondazione ha prodotto un documentario sulla vicenda Barnabei: che diffusione ha avuto? Ci sono altri progetti cinematografici in cantiere?
Il documentario, realizzato anche grazie al contributo della Fondazione Monte dei Paschi, è stato molto utilizzato, in particolare nelle scuole. Alcuni anni fa era stato annunciato anche un film, che però non è poi stato prodotto. Sono stati invece realizzate, sulla vicenda Barnabei, diverse produzioni teatrali: una delle più belle sicuramente è “Io sono il mare”, regia di Stefano Massini, con Massimo Wertmuller e Massimo Bonetti.
Durante il processo lei si spese in un piccolo slancio d’ottimismo, sostenendo che la vicenda Barnabei stesse riaprendo negli Usa una discussione sulla pena di morte. A undici anni da quell’esecuzione, negli Usa, il boia continua imperterrito a svolgere il suo macabro lavoro. E’ forse giusto affermare che nel “faro della democrazia occidentale” le discussioni che avvengono in seno alla società civile non abbiano alcuna influenza sulle decisioni dei governi?
Continuo ad essere ottimista, rispetto a dieci anni fa la situazione nel mondo è cambiata, abbiamo fatto passi avanti. Il più importante è stato l’approvazione della risoluzione per la moratoria universale alla assemblea generale dell’ONU nel 2007, un risultato di straordinaria importanza. E’ aumentato ancora il numero dei paesi abolizionisti. Ed anche negli Stati Uniti - dove il problema della pena di morte non dipende solo dall’atteggiamento dei governi e dei politici, ma da convinzioni radicate in vasti settori della popolazione - altri Stati hanno nel corso di questi anni sospeso o cancellato la pena di morte: tra questi, mi piace ricordarlo, proprio il New Jersey, dove Derek era nato e aveva vissuto.