(ASI) "Nel 33° anniversario della strage di via D'Amelio, numerosi esponenti della destra di governo, a cominciare da Fratelli d'Italia, hanno invocato pubblicamente la figura di Paolo Borsellino, cercando di farne un simbolo utile alla propria legittimazione morale. È un tentativo tanto evidente quanto inaccettabile.
Si tenta di presentare Borsellino come un'icona condivisa, una figura neutrale da celebrare nel rituale della memoria istituzionale, cancellandone però la radicalità, la coerenza, la profonda incompatibilità con ogni forma di potere colluso o complice. Ma Paolo Borsellino non era un simbolo addomesticabile: era un magistrato scomodo, libero, fedele alla verità, che ha pagato con la vita la sua coerenza.
Riteniamo profondamente contraddittorio che forze politiche che hanno sostenuto provvedimenti volti a limitare l'autonomia della magistratura, attaccato duramente i magistrati che indagavano sulle relazioni tra criminalità organizzata e potere e promosso una visione securitaria e autoritaria della legalità, pretendano oggi di ergersi a custodi della memoria di Borsellino.
Non si può evocare il suo nome senza fare i conti con la storia degli anni Novanta, con le stragi, le trattative mai completamente chiarite tra apparati dello Stato e Cosa Nostra, con il contesto in cui si è affermata la cosiddetta Seconda Repubblica. Un contesto segnato anche dalle ambiguità del berlusconismo, che ha costruito parte del suo potere su una campagna permanente contro la magistratura e su un'opacità nei rapporti con settori della società italiana su cui la storia pone ancora interrogativi pesanti.
Paolo Borsellino fu lasciato solo. Dopo l'omicidio di Giovanni Falcone, in un clima segnato dal dolore ma anche dal timore, venne isolato politicamente e istituzionalmente. Aveva capito che si stava consumando qualcosa di più profondo di una guerra tra Stato e mafia: c'erano rapporti da indagare, legami da svelare, complicità da rompere. In quelle settimane drammatiche, Borsellino chiese verità, denunciò omissioni e tentativi di depistaggio, cercò di capire cosa stesse accadendo dentro lo Stato, ma fu lasciato senza adeguate protezioni, senza risposte, senza ascolto. Non è un caso se la sua morte arriva appena 57 giorni dopo quella di Falcone. Non è un caso se ancora oggi tante verità su quella stagione sono coperte da silenzi, archivi protetti, zone d'ombra che una parte della politica ha preferito non illuminare.
È inaccettabile che chi ha fatto parte o continua a richiamarsi a quella stagione politica cerchi oggi rifugio nella retorica celebrativa per costruirsi una legittimità morale che non gli appartiene. Tanto più quando quella stessa destra, oggi al governo propone riforme istituzionali che minano l'equilibrio democratico e la separazione dei poteri. La memoria di Borsellino non può essere separata dalla sua storia, dalle sue parole, dal contesto in cui è vissuto e morto. Non è un patrimonio disponibile per la propaganda. È un'eredità esigente, che interpella le coscienze e obbliga a una scelta di campo.
Rivendichiamo una memoria viva, critica e militante di Paolo Borsellino. Una memoria che significa oggi impegno concreto contro tutte le mafie, contro ogni connivenza tra interessi privati e pubblici, per l'autonomia della magistratura, per la verità e la giustizia sociale. Borsellino appartiene a tutte e tutti coloro che continuano a battersi per una società libera dalla violenza mafiosa, dalle disuguaglianze, dalle complicità del potere. Non può appartenere a chi usa il suo nome per costruirsi una legittimità politica mentre calpesta ogni giorno i valori per cui è morto". Lo dichiara in una nota Giovanni Barbera, membro della Direzione nazionale di Rifondazione Comunista.



