Nel caso dell’Italia potrebbero perciò essere centrati alcuni punti fondamentali. La presunta perdita di competitività del nostro Paese è mitigata da una bilancia commerciale che, malgrado la crisi, continua a crescere in maniera soddisfacente. Secondo i dati dell'Istat, infatti, nel mese di maggio il saldo commerciale italiano ha registrato un aumento di 1,9 miliardi di euro a fronte del saldo negativo pari a 0,3 miliardi di euro nello stesso mese del 2012. Questo dato positivo ci rasserena ma indica pure che qualcosa non quadra. Se in Germania, l’ottima bilancia commerciale (18,1 miliardi di euro nel solo mese di aprile scorso) corrisponde ad una buona situazione economica generale dove la disoccupazione giovanile è ferma al 7,6% e l’inasprimento della pressione fiscale non supera il 36,6%, in Italia il dato è praticamente ribaltato: la disoccupazione giovanile ha raggiunto la cifra record del 38,5% mentre la pressione fiscale resta tra le più elevate al mondo (55%). Se in Italia l’industria continua a fatturare soprattutto grazie all’export verso i mercati non comunitari (Stati Uniti, Cina, Giappone, India ecc. …) questo significa che da un lato una fetta importante della produzione nazionale nasce dal lavoro sommerso o sottopagato e dall’altro lo Stato non “restituisce” il gettito fiscale attraverso beni, servizi e agevolazioni ai cittadini e alle piccole e medie imprese. In altre parole dove finiscono i nostri soldi?
Anche qui Angela Merkel è molto chiara: “Chi aveva il capitale in molti casi ha lasciato da tempo il proprio Paese o ha altre forme di protezione. Credo che i ricchi nei Paesi più gravemente colpiti dalla crisi potrebbero, con un impegno maggiore, portare più risorse alla collettività. Trovo estremamente deplorevole che le élite economiche si assumano così poca responsabilità per questa situazione”. In parole povere, la riduzione del flusso di capitali nei cosiddetti PIGS ha determinato una concentrazione bloccata delle risorse verso i “piani alti”, siano essi “pubblici” o “privati”. A chi denuncia pesanti cessioni di quote della nostra sovranità nazionale, proponendo la fuoriuscita dall’euro, si contrappone dunque una realtà palesemente diversa dove è proprio l’assenza di una politica strategica comune a lasciare il nostro Paese in balìa di una classe dirigente responsabile, a vari livelli, della lottizzazione della pubblica amministrazione e di una classe imprenditoriale che, almeno in parte, ragiona da molti anni secondo logiche atrofizzanti e di breve, brevissimo raggio.
Ne è un esempio l’esasperato sfruttamento del settore dell’edilizia – dal quale provengono, non a caso, numerosi personaggi politici o legati alla politica – che, dopo il crescendo degli investimenti negli ultimi decenni, ha completamente saturato il mercato italiano. Le prime avvisaglie della crisi, l’inasprimento fiscale proprio sulla prima casa, il blocco dell’accesso ai mutui e le difficoltà delle ditte nei pagamenti delle forniture hanno chiuso le strade al mercato immobiliare. Nel corso della sua campagna elettorale Silvio Berlusconi ha spesso ricordato come questo mercato rappresenti il principale indicatore economico del nostro Paese, individuando la via d’uscita dalla crisi nell’abolizione dell’IMU e nel rilancio delle imprese edilizie attraverso un addendum. La prima casa è senz’altro “sacra”, come ha spesso affermato il presidente del PDL, ma la seconda e ancor più la terza, la quarta e la quinta sono di fatto inutili.
Il punto, dunque, è un altro. In un mondo dove, come sottolinea Angela Merkel, “la Cina, l’India, il Brasile, la Corea del Sud e molti altri Paesi sono da tempo nostri concorrenti nei settori in cui eravamo leader”, l’Italia non può fossilizzarsi su un mercato ormai saturo e inutile come quello edilizio. Da molti anni, i BRICS (e non solo) stanno valutando piani di diversificazione economica ed energetica che hanno dato vita a nuovi settori integrati nati dalla fusione tra diversi campi di ricerca. Dopo il disastro prodotto dalla cosiddetta finanza creativa, a cominciare dai famigerati titoli derivati che hanno svuotato le casse di molti enti locali, la razionalizzazione dell’economia può dunque nascere solo dall’osservazione accorta e sostenibile della domanda sociale. Il design e l’agroalimentare stanno salvando l’export italiano, specie verso la Cina, ma da soli non bastano. Servono innovazione, sviluppo e piani energetici che ci liberino dal carbone.
Invece in Italia a destra si pensa di uscire dalla crisi agevolando una Confindustria completamente decotta, gestita dalle solite quattro o cinque grandi “famiglie” e convinta di poter ancora vivere della rendita del boom economico di cinquanta anni fa, mentre a sinistra si procede ancora lungo il sentiero della “gioiosa macchina da guerra” che distribuisce posti di lavoro a macchia d’olio nelle aziende municipalizzate o nella pubblica amministrazione, rigonfiandola di personale in eccesso oneroso per le casse dell’erario. Inutile dire che le due soluzioni sono identiche: continuare a saturare i due principali settori di riferimento per garantire un processo di ricarica dei rispettivi bacini elettorali, drasticamente impoveriti dall’effetto Beppe Grillo.
Tuttavia, la congiuntura storica non lo consente più e la cancelliera mette in guardia anche noi: “L’OMC ci dice che la maggior parte della crescita avviene oggi in parte fuori dal nostro continente. O offriamo a queste regioni del mondo prodotti attraenti ed innovativi o ci rassegniamo a perdere quote di mercato e conseguentemente prosperità ed è proprio questo che non voglio né per la Germania né per l’Europa”. Letta e Alfano sono avvisati.
Andrea Fais – Agenzia Stampa Italia
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