Dopo che l’ultimo segretario, Achille Occhetto, recitò l’orazione funebre del vecchio Partito Comunista alla “Bolognina”, la sinistra italiana è entrata irrimediabilmente –fino ad oggi- in una profonda crisi d’identità, trovandosi osservatrice passiva del conflitto tra due spinte contrapposte: da un lato l’esigenza di adeguare il substrato ideologico al nuovo momento storico, dall’altro la necessità vitale di salvaguardare quelle fondamenta teoriche come unica possibilità per costruire un progetto comune realistico e duraturo. In questi anni, molto ha giocato anche l’imbarazzo della sua classe dirigente a riconoscersi nelle proprie origini e nel proprio passato, affannata nel tentativo di dissimulare un mutamento genetico di cui non si è ancora compreso il risultato finale. La nuova stagione riformista iniziata sulla carta con il Partito dei Democratici di Sinistra (PDS) e giunta fino a noi con l’attuale PD, risulta ancora in fase embrionale nonostante i molteplici tentativi di spiccare finalmente il volo, mentre la base smarrita si è ridotta alla rassegnazione.
Dal 1921, anno della sua fondazione, il Partito Comunista Italiano ha vissuto momenti di forte tensione interna, al contrario di quanto documentato dalla memorialistica ufficiale, che hanno minato pericolosamente la sua integrità. Ma erano altri tempi e il pericolo rappresentato dai nemici esterni garantiva ogni volta la ricomposizione delle fratture anche più gravi. Il PCI, inoltre, al pari dei suoi omologhi europei, nasceva come materializzazione di una lotta di classe epocale nell’ambito di una fase storica “rivoluzionaria”. Caduto il Muro di Berlino e infrantosi definitivamente il sogno di Marx e Engels sotto la pressione dell’ideologia liberista che meglio rispondeva agli istinti irrazionali e individualistici della massa e dei suoi singoli, la sinistra italiana nelle sue varie accezioni social-democratiche, socialiste, post-comuniste, ecc. ha intrapreso un cammino inerziale che l’ha condotta ad assumere le sembianze attuali di un ibrido senz’anima.
Gli orfani della tradizione hanno così cercato di adeguarsi alla metamorfosi culturale, tentando disperatamente di aggrapparsi alla realtà per non estinguersi naturalmente. Ci sono riusciti fino ad oggi, grazie alla lentezza cronica di adeguamento alla trasformazione, connaturata al carattere nazionale. E così, vetero-comunisti, liberali, cattolici e socialisti hanno provato una, due e più volte a creare raggruppamenti eterogenei improvvisati, dove l’unico elemento di coesione era la volontà condivisa di non scomparire dagli scranni del potere.
L’ultima esperienza in ordine cronologico è il Pd, un partito nato da un’operazione di lifting all’americana che tuttavia non è stato in grado di ripianare i solchi profondi alla radice. E’ stato il prodotto impacchettato in tutta fretta di un cantiere ancora aperto, obbligato a nascere dalle contingenze del momento che vedevano il Cavalier Berlusconi come l’unica oasi nel deserto politico della seconda repubblica. Il risultato non è cambiato, i dissidi sono all’ordine del giorno oggi più che mai. Non era Bersani il problema, anzi. Lo era sicuramente per chi, fuori e dentro la sinistra, temeva l’ inizio di un nuovo corso, di un vero processo di ammodernamento, seppur lento e doloroso, delle idee stantie e delle vecchie logiche di corrente. Tutto da rifare. L’uomo della provvidenza tanto agognato dal popolo sempre indignato, poteva essere lui. Non per le sue doti oratorie o per le suggestioni comunicative, ma per il suo senso del realismo, perché non prometteva rivoluzioni, perché conosceva l’Italia ma soprattutto gli italiani: l’unico modo per iniziare a modellare un’idea nuova di sinistra, forse meno romantica, quello sì.
Fabrizio Torella – Agenzia Stampa Italia
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