(ASI) L’ondata di siccità che in questi giorni sta investendo la Somalia sta provocando una forte carestia alimentare dagli effetti ancor più tragici e nefasti di quelli causati dalla quella dell’anno precedente che, si ricorda, provocò un elevatissimo numero di vittime tra gli abitanti dei paesi dell’Africa Orientale.
Nonostante questi fenomeni si ripetano con ordinaria frequenza nei “Sud del Mondo” e cagionino la morte di centinaia di migliaia di bambini, nell’immaginario collettivo occidentale la problematica della “fame” viene genericamente percepita come antica e desueta, forse inesistente o, comunque, con effetti marginali limitati a remote comunità africane di villaggi sperduti.
I nostri organi di informazione assai raramente pongono l’attenzione su queste tematiche e, anche quando ciò avviene, spesso si limitano a trattare la questione in maniera superficiale tergiversando sia sulle reali cause da cui genera il fenomeno, sia sulla drammaticità sociale che lo stesso comporta (circa 1/6 della popolazione mondiale vive in uno stato di indigenza). Il sazio occidente, infatti, è distratto a tal punto da intravedere nella situazione descritta una vecchia retorica da associare alle innumerevoli altre questioni di quel mondo “terzo” e lontano, non bene identificato, che vive alla mercé delle grandi potenze. Quanto appena descritto assume, inoltre, aspetti surreali e paradossali se si considera che a livello globale si registra un aumento di produzione alimentare sufficiente a sfamare 9 miliardi di persone (contro i 6 miliardi che popolano il pianeta). Senza dubbio le radici della “fame” vanno ricercate nell’arroganza coloniale imposta dall’occidente.
Senza volgere lo sguardo troppo indietro nel tempo (fino ad andare a rintracciare le responsabilità di quegli Stati che hanno fatto da apripista a questo olocausto e che sicuramente dovranno, prima o poi, assoggettarsi al severo giudizio degli storici), cercheremo di analizzare brevemente le responsabilità di alcuni soggetti, statali e non, che per curare e tutelare gli interessi delle lobby dell’agro business, non si curano – o per meglio dire, volutamente ignorano – la gravità degli effetti delle loro politiche.
Una fra le maggiori responsabilità da attribuire alla politica globale è, senz’altro, la liberalizzazione dei mercati fondata sull'export delle merci e sul modello di produzione industrialista. Tale modello, insieme alla finanziarizzazione dell'agricoltura e dei mercati delle materie prime, ha generato la devastante crisi alimentare del 2007-2008, manifestatasi con una forte impennata globale dei prezzi dei generi alimentari. Se è vero che detto aumento deriva da molteplici cause, è certo che quella maggiormente incisiva, e non giustificabile dai cambiamenti dei fondamentali di mercato, è proprio la scelleratezza delle speculazioni finanziarie praticate sulle commodity agricole.
Durante il periodo di crisi l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura segnalava che tale situazione affamava una persona su sette a livello mondiale, pari a 1,02 miliardi di persone. Non è difficile, pertanto, comprendere come questo fenomeno, interessante la gran parte dei paesi impoveriti, ha causato ingenti danni alle popolazioni residenti, risparmiando solo in modo parziale i paesi che ancora possono contare su meccanismi di controllo dei flussi in entrata ed in uscita dei prodotti agricoli e sulle riserve pubbliche. I danni prodotti dalla liberalizzazione dei mercati non si stanno limitando esclusivamente alle popolazioni dei paesi in via di sviluppo, ma stanno colpendo le popolazioni occidentali che, se pur fortunatamente non debbono scontrarsi con l’amara e triste realtà della fame, si trovano comunque costretti a regolare la propria dieta alimentare secondo i dictat imposti dalla grande distribuzione.
Le speculazioni finanziarie, infatti, hanno prodotto un vertiginoso e inarrestabile aumento dei prezzi colpendo in modo irreparabile sia i piccoli produttori – che ad oggi sfamano la maggior parte della popolazione mondiale – che i consumatori della classe media dei paesi ricchi e di quelli emergenti, con la evidente e triste conseguenza di avvantaggiare esclusivamente i trader commerciali e gli speculatori finanziari. Peraltro, la crisi del 2007 ha messo in moto una corsa all’accaparramento delle terre – meglio nota come land grabbing – da parte di paesi quali Libia, Corea del Sud, Arabia Saudita, Emirati Arabi che, disponendo di grandi risorse economiche ma non di spazi sufficienti per garantire la sicurezza alimentare ai propri abitanti, hanno iniziato a negoziare l’acquisto e/o l’affitto di enormi quantità di terre nelle nazioni africane o sudamericane. In modo del tutto analogo stanno agendo oggi sia le grandi multinazionali dell’agro business (interessate a creare sterminate piantagioni per la produzione di biocarburanti) che numerose società finanziarie che hanno fiutato gli enormi vantaggi derivanti da questi investimenti.
Il fenomeno del land grabbing nasconde in sé una forma insidiosa di sfruttamento che rischia di instaurare un nuovo colonialismo che contribuirebbe a far crescere in modo esponenziale il numero di persone che patiscono la fame. Questo pericolo è tanto concreto se si pensa che nelle zone dove l’ “accaparramento” già si è consumato le popolazioni che vivevano dei prodotti ricavati dalla terra con il proprio lavoro sono oggi private sia della proprietà delle terre che delle materie prime da queste ricavabili. Il sistema così congegnato, oltre a mandare sul lastrico i piccoli produttori che per generazioni hanno vissuto di agricoltura e pastorizia, produce un livellamento a ribasso della qualità dei cibi e un annientamento delle varietà e delle culture popolari legate all’artigianato enogastronomico. Oltre ai danni qualitativi e culturali, si riscontrano, peraltro, gravi danni ambientali che non si limitano a danneggiare la sola biodiversità, ma incidono fortemente a livello geopolitico. Infatti, proprio questa sconnessione tra ambiente e produzione agricola a lungo andare determinerà sia carenze di disponibilità idrica che di disponibilità energetica, oltre a una possente erosione dei suoli, con ripercussioni di carattere geopolitico per niente trascurabili. A tal proposito, basti ricordare come il gran numero di conflitti oggi presenti sugli scacchieri internazionali hanno ad oggetto proprio gli approvvigionamenti idrici ed energetici.
Infine, un altro elemento che incide fortemente sulla problematica della fame, provocando l’instabilità dei prezzi alimentari, è rappresentato dai cambiamenti climatici. L’aumento delle catastrofi naturali, la maggiore frequenza di uragani, di forti piogge e inondazioni nelle zone tropicali e di forti siccità e carestie nelle fasce semidesertiche, sono tutti segnali di cambiamenti climatici già in atto, quasi interamente causati da attività umane sotto forma di alterazione dell’effetto serra, che stanno mettendo a rischio lo sviluppo economico e sociale di quelle aree del pianeta dove vive la grande maggioranza dei più poveri. Gli effetti dei cambiamenti climatici sono vari e differenti e in alcune zone del globo (per es. nel continente africano) stanno divenendo sempre più visibili con la perdita di terreno arabile, stretta conseguenza della diminuzione dei livelli d’acqua nel terreno e dell’innalzamento dei livelli del mare. Ciò produce ovviamente aridità e aumento di salinità, tale da rendere i terreni non idonei per la messa a coltura. Oltre a danneggiare direttamente i raccolti, non sono da sottovalutare i danni che gli effetti climatici estremi possono produrre alle infrastrutture già di per sé precarie (come le strade dei paesi in via di sviluppo). Ciò può impedire alle persone di comprare e vendere cibo nei mercati e per questo minacciare la sicurezza alimentare.
I cambiamenti climatici non danneggiano solo le coltivazioni, ma minacciano anche l’industria ittica. Infatti, nei mari e negli oceani già si registrano diminuzioni di pesci dovuti a fenomeni quali l’evaporazione, stretta conseguenza dell’aumento delle temperature.
Questa situazione, che di giorno in giorno appare sempre più ingestibile e ingovernabile a causa anche della crisi economica e finanziaria che sta attraversando il pianeta, colpisce in modo drastico le popolazioni più vulnerabili e meno tutelate a livello politico e governativo, e preludono a pericolose rivolte di cui ne costituiscono un chiaro esempio quelle avvenute nell’area del Magreb.
Così, mentre la Somalia si prepara a vivere un nuovo olocausto, le grandi organizzazioni mondiali come la FAO e i rappresentanti dei maggiori governi rimangono inerti e assecondano i voleri delle lobby economico finanziarie.
Per far fronte a tali problematiche occorrerebbe revisionare e ridefinire le politiche commerciali connesse al “diritto al cibo”, nonché combattere fenomeni particolarmente gravi e insidiosi quali volatilità dei prezzi alimentari, land grabbing e cambiamenti climatici che (come per la Somalia) producono effetti catastrofici tra le popolazioni povere dei sud del mondo. Occorrerebbe inoltre approfondire le istanze di tali popolazioni che da anni si battono per ottenere una loro sovranità alimentare, intesa quale diritto di ogni popolo a definire le proprie politiche agrarie in materia di alimentazione, proteggere e regolare la produzione agraria nazionale e il mercato locale al fine di ottenere risultati di sviluppo sostenibile, e decidere in che misura vogliono essere autosufficienti senza rovesciare le loro eccedenze in paesi terzi con la pratica del dumping. Per far si che ciò avvenga è necessario che gli alimenti siano prodotti mediante sistemi di produzione diversificati e su base contadina.
La sovranità alimentare non nega il commercio internazionale, piuttosto difende l’opzione di formulare quelle politiche e pratiche commerciali che servono ai diritti della popolazione per una produzione alimentare nutriente, sana ed ecologicamente sostenibile.
Per conseguire e preservare la sovranità alimentare dei popoli e per garantire la sicurezza alimentare, i governi dovranno adottare politiche che privilegino e diano impulso ad una produzione sostenibile basata sulla produzione familiare contadina, in luogo del modello industriale caratterizzato dagli alti consumi e orientato all’esportazione.
Filippo Romeo Agenzia Stampa Italia
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