Sudan, la guerra dimenticata: il massacro che l’Europa non vuole vedere

Il Sudan al terzo anno di guerra civile: una crisi senza via d’uscita?

(ASI) Il 15 aprile 2023, la rivalità tra le Forze armate sudanesi (SAF) e le Forze di supporto rapido (RSF) si è trasformata in guerra totale. Due anni e mezzo più tardi, il Sudan sprofonda in un conflitto che ha già causato decine di migliaia di vittime civili e lo sfollamento di milioni di persone. In questo ottobre 2025, nessuna prospettiva credibile di cessate il fuoco è all’orizzonte.

Un paese devastato dai bombardamenti e dalla fame

I bombardamenti che colpiscono scuole, ospedali e mercati continuano senza tregua. Secondo le Nazioni Unite, dal 2023 oltre 150.000 persone sarebbero morte, non solo a causa dei combattimenti ma anche per fame e malattie. L’assedio della città di El-Fasher, in Darfur, ha simboleggiato la brutalità del conflitto: in settembre, 23 persone sono morte di fame, mentre almeno 91 civili sono stati uccisi in un solo mese dai bombardamenti.

Le ONG lanciano l’allarme: il sistema sanitario è al collasso, le infrastrutture elettriche distrutte dai droni, le epidemie si moltiplicano. Più di 12 milioni di persone sono sfollate all’interno del paese e diversi milioni hanno cercato rifugio in Ciad, Sudan del Sud o Egitto.

L’escalation militare e la guerra dei droni

Dopo aver perso terreno nel 2024, l’esercito regolare ha ripreso nel febbraio 2025 la città di Bahri, a nord di Khartoum. Ma le RSF si sono adattate: con un arsenale sofisticato, che include droni d’attacco e missili terra-aria, colpiscono ormai fino a Port-Sudan, città strategica sul Mar Rosso.

In alcune regioni le RSF hanno instaurato una sorta di “governo parallelo”, in particolare nel Darfur, aumentando il rischio di una partizione de facto del paese.

Una diplomazia in stallo

Il 15 aprile 2025, Londra ha ospitato una conferenza internazionale con la Francia, l’Unione Europea e altri partner. Il comunicato finale ha riaffermato il sostegno alla sovranità sudanese, ma nessuna delle due parti in conflitto vi ha partecipato. Dal maggio 2023, tutti i tentativi di mediazione – ONU, Unione Africana o G7 – si sono conclusi con un fallimento.

Il “piano del Quad”, sostenuto da alcuni mediatori regionali, ha suscitato l’interesse delle RSF, ma l’esercito lo ha respinto. La distanza rimane abissale.

Crimini di guerra e impunità

Le accuse di crimini di guerra si moltiplicano. Le RSF sono accusate di usare lo stupro come arma di guerra, di perpetrare massacri etnici e di saccheggiare sistematicamente le zone conquistate. L’ONU parla di “conseguenze devastanti” per i civili e avverte del rischio di un collasso totale dello Stato.

E l’Europa, cosa fa?

L’Unione Europea, la Germania, l’Italia, la Gran Bretagna, la Spagna, la Francia e altri paesi occidentali moltiplicano le dichiarazioni di “preoccupazione”, organizzano conferenze e promesse di fondi umanitari, ma l’impegno resta debole di fronte all’ampiezza del dramma. A differenza dell’Ucraina, dove sono stati mobilitati decine di miliardi di euro di aiuti militari ed economici, o del Medio Oriente, dove la diplomazia internazionale si muove a ogni esplosione di violenza, il Sudan appare relegato in secondo piano.

Le ONG denunciano questo doppio standard: come spiegare che la carestia organizzata a El-Fasher susciti così poche reazioni, mentre i bombardamenti su Gaza o l’invasione dell’Ucraina occupano le prime pagine e mobilitano enormi risorse diplomatiche e militari? La risposta sta tanto nella geopolitica quanto nell’economia: il Sudan, paese senza sbocchi al mare, non ha né il peso strategico dell’Ucraina contro la Russia, né quello di Israele nello scacchiere mediorientale.

Un’indifferenza che fa riflettere

Questo squilibrio alimenta un sentimento di abbandono tra i sudanesi e nella diaspora africana. Dell’Africa, si dice, ci si ricorda solo quando minaccia l’Europa con i flussi migratori o con le sue risorse energetiche. Intanto, sul terreno, le famiglie seppelliscono i propri morti nell’indifferenza del resto del mondo.

Il gioco pericoloso delle potenze regionali

Nonostante un embargo parziale, le armi continuano a circolare. Le RSF riceverebbero droni e missili attraverso reti legate agli Emirati Arabi Uniti, alla Turchia o all’Iran. Di fronte a questi sospetti, Khartoum ha interrotto le relazioni diplomatiche con Abu Dhabi nella primavera del 2025.

L’Etiopia, vicina, è coinvolta indirettamente con le tensioni intorno alla diga sul Nilo Azzurro. Il governo sudanese accusa Addis Abeba di provocare inondazioni nell’est del paese manipolando i rilasci d’acqua.

Un futuro incerto

Il Sudan del 2025 assomiglia a un mosaico di zone di guerra, dove l’autorità centrale si sgretola. Le prospettive di pace sembrano lontane: sia l’esercito che i paramilitari credono ancora a una vittoria militare.

La comunità internazionale, assorbita dall’Ucraina e dal Medio Oriente, fatica a mobilitare risorse all’altezza di quella che ormai l’ONU definisce “la peggiore crisi umanitaria al mondo”. Il paradosso è crudele: più il conflitto si prolunga, più sprofonda nell’oblio.

Il doppio standard in cinque frasi

Quando l’Ucraina viene attaccata, l’Europa sblocca miliardi; quando il Sudan crolla, si limita ai comunicati.

Gaza mobilita cancellerie e media a ogni bomba, ma le decine di migliaia di morti di Khartoum e del Darfur passano sotto silenzio.

La geopolitica detta la compassione: dove ci sono petrolio, gas o frontiere strategiche, i riflettori si accendono.

Il Sudan, paese senza sbocchi al mare, paga il prezzo di non “pesare” nei calcoli delle grandi potenze.

Questo doppio standard alimenta un sentimento di abbandono: le vite africane non valgono forse quanto quelle europee o mediorientali? Povera Africa!

(Laurent De Bai per Agenzia Stampa Italia

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