(ASI) Riceviamo e Pubblichiamo di Carlo Di Stanislao.
«La pace non può essere mantenuta con la forza; può essere raggiunta solo con la comprensione.» — Albert Einstein
1° agosto 1975: una data che può sembrare remota, archiviata nei manuali di storia, ma che invece conserva un'attualità sorprendente. Quel giorno, nella sobria capitale finlandese, 35 Paesi – tra cui gli allora avversari della Guerra Fredda, Stati Uniti e Unione Sovietica, oltre a Canada e tutte le nazioni europee, dall'Ovest all'Est – firmarono un accordo epocale: l'Atto Finale della Conferenza sulla Sicurezza e Cooperazione in Europa, nota come Csce, oggi Osce.
Non fu un trattato vincolante nel senso giuridico del termine, ma un atto politico di rara potenza simbolica. Uno spiraglio di luce in un mondo diviso in blocchi, in un'epoca in cui la minaccia nucleare e i muri ideologici sembravano insormontabili. Eppure, quel gesto, quel compromesso costruito con pazienza tra mille diffidenze, ha lasciato un segno profondo nella storia contemporanea. Un seme di pace, lo definì profeticamente Aldo Moro, e oggi, cinquant'anni dopo, siamo chiamati a raccoglierne ancora i frutti.
Una fotografia che parlava al mondo
C'è una fotografia celebre: Gerald Ford e Leonid Brežnev si stringono la mano di fronte all'ambasciata americana a Helsinki, sotto lo sguardo attento di Henry Kissinger e Andrej Gromyko. Un'immagine che condensava il senso stesso dell'evento: non l'utopia di un mondo senza conflitti, ma la concreta possibilità che anche i nemici possano parlarsi, confrontarsi, trovare una base comune su cui costruire la coesistenza.
In quel gesto formale si condensavano anni di diplomazia silenziosa, di strategia paziente, di aperture costruite con fatica. Un lungo percorso cominciato già nel 1969, quando il blocco sovietico propose una conferenza paneuropea che mettesse nero su bianco la definizione dei confini, nel tentativo di consolidare lo status quo. Ma quella proposta, nata da calcoli difensivi, finì per aprire scenari inattesi.
L'intelligenza strategica di Moro
Fu Aldo Moro, tornato alla Farnesina dopo una breve eclissi politica post-'68, a cogliere il potenziale di quell'iniziativa. In un celebre intervento alle Nazioni Unite, nel 1969, delineò un'ambiziosa visione italiana per una distensione globale: non solo tra Est e Ovest, ma anche nel Mediterraneo, in Medio Oriente e in Africa. Un progetto che anticipava, con lucidità rara, le future sfide geopolitiche.
Quando nel 1973 il processo prese forma concreta con la nascita della Csce, fu grazie anche alla sua paziente azione diplomatica. Ma il culmine arrivò proprio nell'estate del 1975, quando Moro tornò presidente del Consiglio e, coincidenza straordinaria, assunse anche la presidenza di turno della Comunità Europea. Un doppio ruolo che gli permise, a Helsinki, di parlare a nome dell'Italia e dell'Europa unita, accreditando quest'ultima come soggetto politico autonomo e non più solo come attore economico.
In un'epoca in cui l'Europa era ancora un'entità in costruzione, fu un atto coraggioso e lungimirante. Moro ottenne che la Comunità europea partecipasse formalmente alla firma dell'Atto Finale, ponendo le basi per un'idea di Europa portatrice di valori comuni: pace, cooperazione, diritti umani.
I tre cesti: confini, economia, diritti
I negoziati della Csce si articolavano in tre ambiti tematici, chiamati "cesti":
- Il primo, fortemente voluto dall'Unione Sovietica, riguardava la sicurezza e l'intangibilità dei confini,
- Il secondo, la cooperazione economica,
- Il terzo, apparentemente marginale, riguardava i diritti umani e le libertà fondamentali, inclusa la libertà religiosa.
Fu proprio questo terzo cesto, apparentemente il più debole, a rivelarsi nel tempo il più potente. Qui entrò in gioco il ruolo decisivo del Vaticano, con la regia di Agostino Casaroli e l'impegno diretto di Achille Silvestrini, futuri cardinali e straordinari architetti di quella che Emma Fattorini ha definito la "diplomazia della speranza". Grazie a loro, nella dichiarazione venne inserito il riconoscimento della libertà di coscienza e di religione, una concessione formale che nel tempo si trasformò in strumento di resistenza morale nei Paesi del blocco orientale.
Giovanni Paolo II, già da cardinale a Cracovia, comprese la portata di quelle affermazioni. Le brandì come uno scudo per proteggere le libertà dei suoi fedeli e per delegittimare, dall'interno, il potere sovietico. Senza Helsinki, probabilmente, non ci sarebbe stata Solidarnosc, né Charta 77, né quella lunga marcia verso la caduta del Muro di Berlino.
Una lezione per oggi
«Il signor Brežnev passerà, ma il seme gettato a Helsinki darà i suoi frutti in seguito», disse Moro. Aveva ragione. Ma oggi quel seme rischia di essere calpestato da nuove tempeste. Le guerre in Ucraina, in Medio Oriente, le minacce alla democrazia, il ritorno degli autoritarismi, impongono una riflessione profonda.
Come ha sottolineato Mario Mauro, già vicepresidente del Parlamento europeo e delegato ai diritti umani dell'Osce, non esiste oggi un'alternativa all'Osce come piattaforma di dialogo globale. Nonostante le molte violazioni russe e l'inerzia diplomatica che per anni ha preferito voltarsi dall'altra parte, l'Osce resta l'unico spazio in cui le parti possono ancora parlarsi. Un'arena fragile, ma insostituibile.
Il dialogo si è interrotto, come una partita sospesa dopo un'invasione di campo. Ma qualcuno deve avere il coraggio di fischiare la ripresa del gioco. La Turchia ci ha provato, la Santa Sede si è detta pronta, l'Italia ha una responsabilità storica e morale nel tornare a svolgere il ruolo che già seppe interpretare cinquant'anni fa.
Da dove ripartire
Ripartire dallo spirito di Helsinki significa credere ancora nella forza della parola, nella mediazione, nella diplomazia come alternativa alla forza bruta. Significa non cedere al cinismo di chi sostiene che non valga più la pena trattare, che le regole non servano, che conti solo il potere.
Ma soprattutto, significa difendere l'idea che la pace non sia un'illusione, ma un'opera collettiva da costruire con pazienza, coraggio e visione.
Cinquant'anni fa, a Helsinki, l'Europa seppe unire la fermezza dei princìpi alla flessibilità del negoziato. Seppe parlare con voce sola, anche nei suoi momenti di maggiore fragilità. Seppe mostrare che una pace giusta nasce dal riconoscimento reciproco e non dalla resa di uno dei due contendenti.
Oggi, non possiamo limitarci a commemorare. Dobbiamo agire.
Ritrovare quello spirito non è un'operazione retorica, ma una necessità urgente in un tempo di fratture globali. E se è vero che il futuro si scrive con le scelte del presente, allora è tempo che l'Italia e l'Europa tornino ad essere voce autorevole di pace, come nel 1975.
Helsinki ci ricorda che quando il dialogo sembra impossibile, è proprio allora che diventa indispensabile.
Carlo Di Stanislao
*Immagine generata da Gemini. AI di Google.



