(ASI) L'America nasce messianica e massonica. Due apparenti contraddizioni inscritte nel liberalismo elevato a categoria universale dello spirito.
Il “manifest destiny” - nel lessico anni Settanta, l’americanismo - è la dottrina che sancisce la possibilità degli USA di imporre agli altri i loro valori e la loro ideologia. La fine di questa filosofia della storia di impianto imperialistico, con tratti non privi di razzismo culturale, è segnata dai fallimenti militari e, quindi, politici, in Iraq, Siria e, infine, in Afghanistan, con la umiliante ritirata delle truppe americane da questa nazione. Biden è l’ultimo impresario delle pompe funebri addetto alla sepoltura di questa ideocrazia fallimentare.
La guerra è parte integrante della democrazia americana e la filosofia della storia che scrive la storia del mondo, tra una guerra e l’altra, col sangue del “manifest destiny” è la legittimazione ideologica di questo meccanismo nichilistico.
Trump non sa niente di tutto questo, ma sa che i fallimenti a catena di una politica così ideologicamente potente producono cambiamenti storici e strutturali. Chi subisce questi cambiamenti non sono le élites, ma il popolo, e a questo popolo occorre riconsegnare l’America della tradizione del “nuovo ordine americano” (Russell Kirk). Questo è il succo storico-culturale del trumpismo, che viene prima di Trump. Esso ha già una storia e una catena evolutiva, una galleria di personaggi pronti alla battaglia, un nuovo pantheon politico, di tutto rispetto. Siamo nell’era del popolo, ad un tempo consumatore e produttore, la fase storica ultramoderna e conservatrice descritta da Peter Thiel, il capitalista militante fondatore di Paypal. Leo Strauss, grande pensatore politico conservatore, e perfino Schmitt, sono i nuovi eroi, migliori, dal punto di vista intellettuale ed etico di John Locke, il “founding father” filosofico dell’America dei coloni. La stessa America che, contro l’establishment dei fratelli inglesi, scatena una guerra civile, per riportare al centro la libertà degli individui affamata di ricchezza e pronta a smantellare le comunità religiose e politiche, qualora non siano allineate al nuovo credo dominante. Tocqueville aveva già individuato il fenomeno che stiamo descrivendo. Christopher Lasch aveva alimentato l’analisi, cogliendo nel segno.
Trump vince perché l’esito di questo lungo processo di destrutturazizone del popolo e della tradizione religiosa, etica e comunitaria di un popolo è giunto al culmine e non c’è più materia da distruggere. Il nichilismo non è una teoria filosofica, ma una realtà storica e oggettiva: il partito democratico, in America, sta ora pagando il prezzo di questo disastro.
Questo è un processo di disgregazione nichilistica di lungo periodo, già descritto da Allan Bloom nel suo saggio “La chiusura della mente americana”. Le università erano già impastate di ideologia “woke” e l’aria era già diventata irrespirabile. Eravamo nel 1987. Distrutta la cultura, il resto viene giù quasi di schianto. E così è stato. La storia non fa sconti.
Dunque, Trump è la quintessenza di questa fase storica, fatta di rovine e caos. Nel cuore della tempesta, la politica della realtà contro le ideologie fanatiche delle élites nichiliste giocherà la sua partita e l’Europa sarà chiamata a mettersi in movimento, includendo i paria di oggi, a partire da Orban.
Un solo principio serve per prevedere il corso dei processi storici: ciò che deve accadere, accadrà. Anche Trump lo sa. Il trumpismo è figlio di questa necessità storica.
Raffaele Iannuzzi - Agenzia Stampa Italia