(ASI) Da oltre tre settimane, ormai, la nuova violentissima crisi nel Vicino Oriente sta calamitando l'attenzione del resto del mondo. Dopo lo scioccante assalto di Hamas in alcuni degli insediamenti israeliani a ridosso della Striscia di Gaza, dove l'organizzazione islamista ha ucciso o rapito un elevato numero di civili di fede ebraica, la reazione di Israele non si è fatta attendere.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu, che ha invitato all'unità nazionale l'intero arco parlamentare della Knesset nel momento di massima difficoltà, ha ordinato una serie di massicci raid aerei che hanno fin qui colpito diversi obiettivi strategici ma anche e soprattutto decine di migliaia di abitazioni e strutture civili nell'enclave a maggioranza palestinese, suscitando numerose polemiche e pareri discordanti a livello internazionale tra chi supporta la condotta del suo governo, invocando il diritto di Israele a difendersi con ogni mezzo, e chi punta il dito contro quello che ritiene un eccesso di reazione.
Ad appena tre giorni dall'avvio dell'operazione terrestre nella Striscia da parte di Tsahal, la situazione sul campo sembra incanalarsi rapidamente verso un netto deterioramento dello scontro, che potrebbe prolungare le ostilità per mesi o addirittura anni, con inevitabili ripercussioni sull'atteggiamento dei governi e sull'opinione pubblica dei Paesi e delle regioni a maggioranza musulmana del mondo, dalla Turchia all'Indonesia passando per Lega Araba, Iran, Caucaso, Asia Centrale, Afghanistan e Pakistan.
Sebbene territorialmente lontana dal contesto regionale, la Cina ha seguito con crescente attenzione e preoccupazione l'evolversi della vicenda cercando di far sentire la propria voce, sempre più autorevole nell'ambito della diplomazia internazionale, anche in qualità di membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, organo che tra il novembre 1967 e il gennaio 2009 ha adottato ben sette risoluzioni sulla questione israelo-palestinese.
A queste si aggiungono quelle approvate a larga maggioranza dall'Assemblea Generale, come la 65/16 del 25 gennaio 2011. Tutte convergono nella direzione di una soluzione politica che preveda per i palestinesi il diritto a costruire un proprio Stato indipendente, formato dai territori attualmente abitati a Gaza e in Cisgiordania, nonché da tutti quelli illegalmente occupati da Israele dal 1967, a partire dalla porzione orientale di Gerusalemme, ovvero Gerusalemme Est, che dovrebbe diventarne la capitale.
Da decenni, ormai, la posizione della Cina coincide praticamente col dettato ONU ma il protagonismo diplomatico di Pechino, cresciuto di pari passo con l'incremento del suo peso economico, potrebbe ora aprire una nuova fase di assertività dopo il definitivo esaurimento della funzione svolta dal Quartetto per il Medio Oriente, creato a Madrid nel 2001 tra Nazioni Unite, Stati Uniti, Unione Europea e Russia con lo scopo di superare il fallimento del negoziato di Camp David del 2000 e risolvere l'escalation sorta con la Seconda Intifada, innescata dalla passeggiata lungo la Spianata delle Moschee dell'allora leader del Likud Ariel Sharon, futuro primo ministro di Israele.
In realtà gli Accordi di Oslo, siglati da Rabin e Arafat sotto la supervisione di Clinton nel 1993 per porre fine alla Prima Intifada, esplosa sei anni prima, erano stati fortemente compromessi da un clima di crescente intransigenza religiosa da ambo le parti, tra attentati incrociati, scontri interetnici e fortissima diffidenza reciproca. Dopo la morte di Arafat nel 2003, la progressiva affermazione di Hamas e dell'Islam politico nel suo complesso va dunque inquadrata in un contesto di deterioramento del processo di pace e di costante peggioramento delle condizioni di vita a Gaza.
«Sin dall'esordio del conflitto israelo-palestinese, la Cina ha continuato a chiedere un cessate il fuoco e la fine delle ostilità, la protezione dei civili, l'apertura di un corridoio per l'aiuto umanitario e l'impedimento di un disastro umanitario su più vasta scala», ha detto proprio ieri in conferenza stampa Wang Wenbin, portavoce del Ministero degli Esteri cinese, ricordando che Pechino ha votato a favore, co-promuovendola, della risoluzione approvata in una sessione d'urgenza speciale dall'Assemblea Generale lo scorso 28 ottobre per garantire il sostegno umanitario alla popolazione di Gaza.
«La Cina auspica che la nuova risoluzione [...] venga pienamente implementata di modo che la pace e la stabilità possano essere ripristinate e che la situazione umanitaria sul terreno sia presto alleviata, i civili vengano protetti e la questione palestinese trovi al più presto una soluzione complessiva, giusta e duratura», ha aggiunto Wang.
Forte del successo negoziale ottenuto attraverso il processo di riconciliazione tra Arabia Saudita ed Iran, culminato con lo storico accordo dello scorso marzo, anche in questo caso Pechino potrebbe lavorare, come suo solito, fuori dai riflettori, dalla retorica e dai facili annunci, per favorire la de-escalation nella regione.
«Subito dopo lo scoppio del conflitto israelo-palestinese, la Cina è rimasta in stretto contatto con diverse parti, ha partecipato attivamente alle consultazioni presso il Consiglio di Sicurezza dell'ONU e ha compiuto ogni sforzo per promuovere i negoziati di pace ed aiutare ad allentare la situazione», ha risposto Wang alla domanda postagli dal corrispondente di AFP a proposito della recente missione in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti di Zhai Jun, inviato speciale di Pechino per il Medio Oriente.
«La comunità internazionale, soprattutto molti Paesi arabi, elogiano la giusta posizione della Cina ed il ruolo che essa ha svolto quale potenza responsabile», ha sottolineato il portavoce del Ministero, richiamando uno dei più importanti principi della dottrina politica di Xi Jinping: «È opinione diffusa che l'idea di costruire una comunità dal futuro condiviso per l'intera umanità promossa dal Presidente Xi Jinping contribuisca ad identificare la direzione per risolvere la questione israelo-palestinese».
Se, come afferma Wang, la Cina supporta fermamente tutti gli sforzi mirati al dialogo, al cessate il fuoco e alla pace, la sua crescente capacità di influenza su molti Paesi arabi e sull'Iran, nonché le sue relazioni con Israele, grossomodo stabili seppur condizionate dalla storica alleanza tra lo Stato ebraico e Washington, garantiscono a Pechino tutte le carte in regola per giocare un ruolo di primo piano nella risoluzione del conflitto. Il recente riavvicinamento agli Stati Uniti, avvenuto lo scorso 27 ottobre con la visita del ministro Wang Yi a Joe Biden e Jake Sullivan, potrebbe fare il resto.
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia